Eppure non mi basta ormai più osservare il cielo. Osservo, osservo ed osservo ancora, dandomi tutte le spiegazioni, meno una: perché lui è la sopra ed io son qua sotto, in questa casuale inversione dei ruoli, nella quale l’incosciente rimane comodamente sospeso ed il cosciente, cioè io, castigato al suolo senza altra possibilità.
Il bello di volare non è balzare da dietro in avanti, quanto, piuttosto, dal basso in alto e quando sei in mezzo al cielo e non hai più la percezione se stai salendo verso Dio o è lui che è sceso verso di te, convieni semplicemente che vi siete dati appuntamento a metà strada: in quel preciso momento, sono gli occhi che impetuosamente chiedono di farsi ascoltare.
Guardo in su, guardo in giù, non c’è soluzione di continuità: è lì in mezzo, in quell’indefinito uniforme che tutto viene regolato da un’apparentemente banalissima legge di gravitazione universale senza la quale, il tutto non starebbe in equilibrio. Vale in tutto l’universo: due corpi si attraggono in modo direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale alla loro distanza. Il fatto che poi questa legge si chiuda con “elevata al quadrato”, è solo la sottigliezza fisica che distingue chi la osserva da terra rispetto chi la osserva dal cielo. E chi la osserva dal cielo è anche consapevole che la gente vive e sopravvive, più o meno serenamente, nella più totale inconsapevolezza dell’utilità di questa trovata geniale, quasi divina, sicuramente celestiale, almeno per rispetto al contesto dalla quale la sto osservando.
Ma in fondo, è sempre andata così. C’è chi pensa anche a quello a cui non pensano gli altri senza per questo che gli altri se ne rendano conto, perché troppo presi a consumare, nelle loro tiepide praticità, quello stesso tempo che scorre per gli uni come per gli altri.