II) MODIGLIANI, l’ideale di bellezza vissuta attraverso la spiritualità.
Christian Parisot:
"La forma della bellezza umana, del corpo femminile. Una storia che nasce dalla tradizione toscana, dalle vicine cave di marmo a Carrara, dove sin da giovane, l’artista sognava di “scavare” forme di grande risonanza spirituale. Una maniera di dialogare con la materia, un rapporto innato da quelle parti, dove il marmo appare come una cosa da possedere, da sconfiggere e da modellare con la propria creatività.
Dalle testimonianze si scopre che il giovane iniziò a scolpire sin dalla tenera età, ma che scelse di seguire gli insegnamenti accademici della pittura macchiaiola, dominante e presente in tutti gli studi dei coetanei a Livorno, a Firenze, per poi scoprire il colore, nelle sue forme più raffinate, a Venezia.
Ma, il salto nella cultura “forte”, quella dell’avanguardia impressionista, lo condusse naturalmente a Parigi, dove sin dai primi mesi del 1906, che gli permise di rendere concreto un sogno… quello del confronto con la cultura francese.
Percorrendo le testimonianze dell’epoca parigina sin dal 1908, si scoprono le diverse facce della verità, ma concordano tutte sulla sua volontà, sulla sua passione: la scultura.
Sveglio di buon mattino, Modigliani intagliava la pietra nel cortile. Le teste dai lunghi colli si allineavano davanti al suo studio, alcune appena abbozzate, altre interamente compiute. Ci lavorava ad ore differenti della giornata, seguendo la forma sotto le diverse luci; verso sera, a fine giornata, le bagnava. Come fiori curati con amore, da perfetto giardiniere della sua scultura, lentamente lasciava piovere l’acqua dai numerosi forellini dell’annaffiatoio, e le figure ieratiche e primitive nate dal suo scalpello gocciavano. Modigliani, allora, seduto sulla soglia dell’uscio guardava brillare le sue opere agli ultimi riflessi del tramonto e calmo, felice, diceva: “Sembrano fatte d’oro”.
La vita continuava nella tranquillità della villa… poi alla Ruche, a Montparnasse, dove pittori e modelle vivevano come in famiglia. L’arte di Modigliani si sintetizzava sempre più. Le teste prendevano poco a poco la forma di un uovo allungato che sormontava un cilindro perfetto, con qualche abbozzo d’occhi, di naso e di bocca, poco pronunciati per non distruggere la grande forma plastica. L’ammirazione per la bellezza “nera” accresceva… proprio come Modigliani, lo scultore americano Jacob Epstein, arrivato a Parigi per realizzare la tomba di Oscar Wilde al cimitero di Père Lachaise, apprezzava l’arte africana. È il punto che li avvicinava. Simpatizzarono e divennero amici. Epstein più tardi confidò ad Arnold Haskell l’ammirazione che aveva per Modigliani. Ed Haskell trascriverà queste dichiarazioni nello Sculptor Speaks: «Modigliani è un esempio di pittore-scultore moderno. In un certo periodo ha prodotto alcune sculture davvero interessanti, con volti fini e curiosamente allungati, nasi a lama di rasoio che spesso si rompevano e che bisognava rincollare. Acquistava per qualche franco da un muratore un blocco di pietra che portava a casa con una carretta. Aveva una visione tutta sua, influenzata ma non dominata dall’arte africana, e le persone che lo considerano un imitatore si sbagliano. [...] Avevamo l’impressione che non volesse mai andare a dormire. Mi ricordo benissimo che una notte, molto tardi, ci eravamo appena accomiatati che ci chiamò nuovamente dalla strada chiedendoci di ritornare, come un bambino impaurito. A quell’epoca viveva solo».
Nella sua autobiografia Let there be sculpture Jacob Epstein descrive l’atelier di Modigliani come «un miserabile buco che dava su un cortile interno che accoglieva nove o dieci teste ed una statua in piedi; la notte sistemava una candela su ciascuna e sembrava di stare in un vecchio tempio».
«Una forza irresistibile lo spingeva a scolpire», riferisce il critico tedesco Ernst Stoermer che ebbe occasione di fargli visita nell’atelier nel 1909. «Si faceva portare un blocco di pietra nel suo studio e scolpiva nel blocco direttamente. Il lavoro lo ghermiva così in maniera totale, quanto tutte insieme le distrazioni più o meno fruttuose cui si dedicava nei momenti d’inattività. Dall’alba, si sentiva il rumore del suo scalpello. Le figure emergevano dalla pietra, senza che avesse il bisogno di fare un modello in terra o gesso. Si sentiva predestinato a diventare scultore e quando in certi periodi il bisogno di scolpire lo rapiva, gettava spazzole e pennelli per prendere il martello».
Il critico e mercante d’arte Adolphe Basler lo conferma: «Sembrava che Modigliani trascurasse la pittura. Era ossessionato dalla scultura africana e dall’arte di Picasso. La galleria Druet in quel periodo esponeva le opere dello scultore polacco Nadelmann, sul cui talento i fratelli Natanson, fondatori della “Revue Blanche” attirarono l’attenzione di Gide e di Mirabeau. Le esperienze di Nadelmann disturbavano Picasso; il sistema di decomposizione della sfera che lo scultore applicava nei disegni e nelle sculture, infatti, precedette le ricerche cubiste dello spagnolo e Modigliani rimase assai colpito dalla sua opera il cui effetto stimolante su di lui fu evidente.
Modigliani amava le forme create dalla Grecia arcaica. [...] Per anni Modigliani non fece che disegnare, tracciando i morbidi arabeschi delle innumerevoli cariatidi che aveva intenzione di lavorare nella pietra e di cui sottolineava leggermente le curve in blu o rosa. Ottenne così un disegno sicuro ed armonioso, che rifletteva una personalità ricca di fascino e di una grande fresca sensibilità. [...] La scultura era il suo unico ideale e vi riponeva grandi speranze».
Già Picasso regnava maestro del cubismo nella “zona“; per quanto riguarda Modigliani, Waldemar Georges sottolinea più fortemente l’influenza dell’arte primitiva nella sua scelta della forma: «(...) da scultore, intaglia nel granito teste rudimentali e ne iscrive i tratti nelle unità del blocco. Questo blocco impone le proporzioni. Sembra che per la volontà d’osservare una legge d’armonia in questo periodo l’artista si allontani dalle leggi anatomiche. Punto di partenza: il blocco, la forma cubica o cilindrica d’origine scultoria. L’artista procede per tappe. Porta al disequilibrio una figura o una testa per esprimerne il volume. Come i cubisti, si sforza di darne una vista frontale o di profilo, almeno una nozione di profilo. Se deforma non è per cubizzare. Se stilizza le forme, lo fa per esprimerne il carattere».
Gli incontri con Constantin Brancusi, Jacques Lipchitz, Oscar Mietschaninoff, le influenze di Picasso, dell’arte africana e della scultura oceanica, l’attrazione per i segni esoterici e cabalistici della tradizione ebraica, il ricordo di Tino di Camaino hanno spinto Modigliani nel senso della scultura forse più degli studi artistici o della vera vocazione. Alla fine era un pittore che scolpiva o uno scultore diventato pittore?
Il suo ammiratore, l’artista francese Henri Gaudier-Brzeska lo informò e lo introdusse nelle sfere caratteristiche delle opere africane del British Museum di Londra, di cui possedeva molte riproduzioni da stampe fotografiche.
Molti pensano che la scultura sia stata solo una tappa nel suo percorso di pittore, ma Maud Dale, che aveva ben compreso l’inclinazione di Modigliani, spiegava nel 1931, nella prefazione al catalogo dell’esposizione di Bruxelles, che aveva deciso di diventare scultore dopo aver lasciato il liceo e che fu la cagionevolezza di salute ad impedirgli di concretizzare la sua vocazione: «Quando l’arte africana comincia ad influenzare il gruppo di Montmartre, Modigliani è ancora scultore. Le teste in pietra ed i numerosi disegni di cariatidi che ci ha lasciato mostrano fino a che punto abbia compreso il potere plastico della scultura... Ma il suo stato di salute si era aggravato, così rinunciò a scolpire la pietra e si volse definitivamente verso la pittura».
Nel suo libro Chiaroscuro, il pittore inglese Augustus John, che andò a trovare Modigliani nel suo atelier nel 1909, scrive: «Il pavimento era pieno di statue che tra loro si assomigliavano molto per la forma incredibilmente snella ed allungata. […] Queste teste scavate nella pietra m’impressionarono profondamente; per giorni, dopo averle viste, ero ossessionato dalla sensazione di incrociare continuamente per strada persone che avrebbero potuto far loro da modelli, – e questo senza che fossi, anch’io, sotto effetto dell’hashish. Può essere che Modigliani abbia scoperto un aspetto nuovo, ancora ignoto della realtà?».
A Ortiz de Zarate, Amedeo aveva confidato nel 1903, quando era ancora a Venezia, di «avere l’ardente desiderio di diventare scultore» e, aggiunge Ortiz, «si lamentava di quanto costasse il materiale necessario... Dipingeva solamente per ripiego; voleva ad ogni costo lavorare la pietra e mai smise di volerlo per tutta la vita». Perfino Nina Hamnett, riferisce Jeanne, un’amica inglese che incontrò Modigliani solo nella primavera del 1914, afferma: «Ha sempre considerato la scultura come il suo vero mestiere». E sua madre Eugénie, quando gli scriveva a Parigi, indirizzava le lettere ad “Amedeo Modigliani, scultore”.
Fu il dottor Alexandre nel 1909 a presentare Brancusi a Modigliani. I due simpatizzarono subito e diventarono amici. Costantin, di otto anni più grande di Amedeo, era nato in Romania in una famiglia di contadini molto poveri. Quando arrivò a Parigi, nel 1904, aveva ventott’anni.
Abbastanza in fretta divenne l’assistente del grande Rodin che l’apprezzava e l’incoraggiava. Non era molto colto, ma visceralmente attaccato alle sue abitudini modeste e generose e alle tradizioni contadine. Benché provasse una grande ammirazione per Rodin, il maestro era troppo realista e troppo classico per lui. Modigliani, da parte sua, giudicò la scultura di Rodin “decadente”. Brancusi occupava, al n. 54 di rue du Montparnasse, uno studio perennemente in disordine, più simile ad una fucina che all’atelier di un artista. Come molti artisti poveri, Brancusi sbarcava il lunario lavando i piatti nei ristoranti, faceva lo scaricatore al mercato delle Halles oppure rifaceva le stanze negli alberghi. Lavorava direttamente nella materia, senza passare da modelli in gesso, sculture dalle forme ovali ed essenziali che levigava per ore e con pazienza. Questo procedimento d’intaglio diretto della pietra sedusse Modigliani e quando vide il rumeno scolpire con tale forza, tenacia e talento, pensò che la scultura fosse anche il proprio destino. Brancusi aiutava Amedeo con suggerimenti, gli prestava perfino gli strumenti e lo studio. Secondo il critico inglese John Russel: «L’influenza di Brancusi su Modigliani è più psicologica che tecnica».
André Salmon, in altre occasioni, raccontò: «Modigliani arrivò nello studio di Brancusi con le mani nelle tasche del suo eterno abito di velluto, stringendo sotto braccio la cartellina dei disegni in cartone blu, che non abbandonava mai... Brancusi non gli diede consigli, né gli fece lezione, ma da quel giorno Modigliani si fece un’idea della geometria nello spazio ben diversa da quella che generalmente s’insegna nelle scuole o negli atelier. Tentato dalla scultura, vi si cimentò, e delle impressioni raccolte qua e là nell’atelier di Brancusi conservò quest’allungamento della figura riconoscibile nella sua pittura».
Il catalogo del XXVIème Salon des Indépendants, che si svolse dal 18 marzo al 1° maggio 1910, ci mette al corrente sull’indirizzo di Modigliani di quel periodo: il n. 14 di Cité Falguière, ciononostante non aveva completamente levato l’ancora dagli ambienti di Montmartre. Amedeo presentò sei opere al Salon: due studi, tra cui un ritratto di Bice Boralevi ( di cui aveva già eseguito un ritratto in gesso nel 1908) ed un ritratto di Piquemal, Il Mendicante di Livorno, La Mendicante, Lunaire, ed Il Suonatore di violoncello, che riscosse un certo successo. Guillaume Apollinaire ne parla in un resoconto ed André Salmon colloca Modigliani accanto a De Vlaminck «che mette la natura K.O.» e a Van Dongen «dal fuoco rigenerante».
Man mano che gli artisti confluivano da tutte le parti, la Ruche s’ingrandiva e s’arricchiva di colori e di voci sempre più cosmopolite. Nel 1910 si vide arrivare lo scultore americano d’origine russa Alexander Archipenko, grande innovatore; il pittore Fernand Léger legato ai cubisti e a Robert Delaunay, grande ammiratore di Cézanne; lo scultore, disegnatore ed incisore Henri Laurens, grande amico di quel Georges Braque che, partecipando al cubismo con le sue carte incollate e bassorilievi policromi avrebbe lasciato, insieme ad altri capolavori, il suo nome nella lingua parigina come sinonimo di bizzarro ed un po’ matto; nel 1912, Modigliani conobbe un giovane scultore lituano, Jacques Lipchitz. Arrivato a Parigi all’età di diciotto anni, Lipchitz era un giovanotto calmo e tranquillo, sicuro di sé, di sette anni più piccolo di Amedeo. «Modigliani mi invitò a venire a trovarlo nel suo studio di Cité Falguière. In quel periodo si dedicava alla scultura e naturalmente m’interessava enormemente vedere cosa facesse. Quando arrivai da lui, lavorava fuori: varie teste di pietra – forse cinque – erano poggiate sul suolo di cemento del cortile davanti all’atelier. Le stava raggruppando. Mi sembra ancora di vederlo.
Curvo sulle teste, mi spiegava che, nel suo disegno, dovevano formare un tutto unico. Credo di ricordarmi che i lavori furono esposti qualche mese, dopo lo stesso anno, al Salon d’Automne, schierati come le canne di un organo, per realizzare la musica che cantava nel suo spirito. […] Non poteva mai distrarsi dall’interesse che gli ispiravano le persone, e ne faceva ritratti, senza volere, potrei dire, mosso dall’intensità dei suoi sentimenti e della sua visione. Ecco perché, benché apprezzasse l’arte africana e le altre arti primitive quanto noi tutti, non subì mai profondamente la loro influenza, non più, d’altronde, di quanto subisse quella del cubismo. Ne prese qualche spunto, sì, ma restò impermeabile al loro spirito».
Amedeo lavorava il blocco, “la massa”, senza mai troppo modificare le forme originarie della pietra, ma non cercava di rendere nella pietra le figure sinuose dei suoi disegni. Spesso le sculture sono scavate in una pietra calcarea ed hanno tutte forma umana: occhi a mandorla, lungo naso triangolare ed appiattito, una fessura suscitata da bisogni magico-religiosi, ma con la solennità e la grandezza delle statue egizie e greche antiche. Modigliani se ne ispirò per arricchire la sua visione intima della scultura. La grazia delle cariatidi e l’arte con cui ha saputo regolare i vuoti tra le braccia alzate e la testa, sono stati altrettanti spunti di ricerca che gli amici scultori hanno perseguito dopo di lui.
Dopo essersi ispirato alla sensualità delle forme, delle linee e dei volumi di Brancusi, Amedeo Modigliani seguiva il suo cammino personale di scultore solitario, e s’interessava ai legni intagliati africani come già nel 1905 avevano fatto Matisse, Derain, Picasso, ed in particolar modo De Vlaminck, che rivendicava l’invenzione dell’arte negra in Portraits avant décès, pubblicato nel 1943.
Ad Argenteuil, De Vlaminck aveva visto : «poggiate su uno scaffale, in mezzo alle bottiglie di Pernod, d’anice e di curaçao, tre sculture africane.
Due statuette del Dahomey, dipinte in ocra rossa, ocra gialla e bianco. Un’altra della Costa d’Avorio, tutta nera. […] Queste tre sculture mi colpirono. Ebbi una specie d’intuizione di quanto avessero dentro potenzialmente. Mi avevano rivelato l’arte negra. […] Io e Derain avevamo esplorato il Museo del Trocadéro in tutti i sensi e a più riprese. Lo conoscevamo per filo e per segno. Avevamo guardato tutto con curiosità. Ma sia io che Derain in quegli oggetti esposti avevamo visto solo e soltanto quello che si era convenuto chiamare feticci barbari. Quest’espressione di un’arte istintiva ci era sempre sfuggita». Così convinse il gestore del locale a cedergli le statuette per «un giro generale di un bel vino rosso per tutti». De Vlaminck prosegue il racconto: «Dopo qualche tempo, un amico di mio padre cui avevo mostrato il mio acquisto, mi propose di cedermene altre che lui possedeva, dato che sua moglie voleva gettar via quegli orrori. Andai a casa sua e me ne tornai con una grande maschera bianca e due magnifiche statue della Costa d’Avorio». Quando Derain vide queste maschere, volle sapere se poteva comprarne una: «Era sbalordito, e mi propose venti franchi perché gliela cedessi. Rifiutai. Otto giorni dopo me ne offrì cinquanta.
Quel giorno ero senza un soldo: accettai». Secondo Jacques Flam, Derain «era desideroso di acquistare la maschera fang di De Vlaminck perché quell’anno aveva già visto la retrospettiva di Gauguin e cominciava ad intuire il potenziale valore dell’arte primitiva. Prese l’oggetto e lo appese al muro nel suo atelier di rue Tourlaque».
Questa vicenda della maschera fang e delle statuette vili è riportata in alcuni libri ufficiali di Storia dell’Arte in una versione diversa. De Vlaminck avrebbe comprato per pochi soldi, in un bar di rue de Rennes, una statuetta che un marinaio spiantato aveva portato da uno dei suoi viaggi in Africa. L’avrebbe subito mostrata a Derain che, trovandola «bella come la Venere di Milo», l’avrebbe riacquistata e fatta vedere a Picasso. E questi, sgranando gli occhi stupefatti, avrebbe gridato, col suo bel accento spagnolo: «Esta es ancora più bella!». Un’altra testimonianza di Madame Rouzaire, lavandaia a Montmartre, al n. 12 di rue Ravignan, la cui figlia posò per Degas e Modigliani, segnala che varie statuette egizie e fang furono sistemate a casa sua da Joseph Altounian e Van Dongen, che erano tornati dall’Egitto.
Ancora un’altra dichiarazione, questa volta di Matisse riportata da Philippe Dagen nel suo eccellente lavoro sul primitivismo nell’arte francese Le Peintre, Le Poète, Le Sauvage, pubblicato nel 1998: «Andavo spesso da Gertrude Stein, in rue de Fleurus, ed incamminandomi passavo ogni volta davanti ad un negozietto di oggetti antichi. Un giorno notai nella vetrina una piccola testa negra, intagliata nel legno, che mi ricordò le immense teste di porfido rosso delle collezioni egizie del Louvre. Avevo come la sensazione che i metodi di scrittura delle forme fossero le stesse in queste due civiltà, benché tra loro fossero estranee. Comprai, dunque, questa testa per qualche franco e la portai da Gertrude Stein».
Philippe Dagen precisa che correva l’anno 1906. Era la vigilia del Salon d’Automne e Matisse, Picasso, Derain, De Vlaminck già s’interessavano alle culture primitive, che fossero africane o dell’Oceania. «L’incontro con l’arte africana non decollò se non a partire dall’autunno del 1906 - scrive Jean-Louis Audrat nel libro Le Primitivisme -, la maschera fang, la statuetta vili, furono i pretesti, Derain, Matisse e Picasso gli istigatori».
In un’intervista con Guillaume Apollinaire, pubblicata sulla rivista “La Phalange” nel 1907, Matisse si pronuncia schiettamente ed in modo chiaro ed aperto sul ruolo delle influenze: «Non ho mai evitato l’influenza degli altri. […] Tutte le scritture plastiche; gli egizi ieratici, i greci affinati, i cambogiani voluttuosi, le produzioni degli antichi 198 peruviani, e statuette africane armonizzate secondo le passioni che le hanno ispirate possono interessare un artista, ed aiutarlo a sviluppare la propria personalità».
Dal 1° ottobre all’8 dicembre 1912 Modigliani partecipò, con sette sculture in pietra, al Xmè Salon d’Automne, come ci risulta dal catalogo dell’esposizione: Amedeo Modigliani, numeri dal 1211 al 1217 –
Teste, gruppo decorativo. Allo stesso Salon presentarono le loro opere anche Gino Rossi e Arturo Martini. Rossi espose otto dipinti, tra cui La Fanciulla del Fiore e Vecchio Pescatore con berretto verde, opere che
tradiscono l’influenza evidente di Modigliani. Martini partecipò con quattro acqueforti in una sola cornice ed un’incisione, Il Ritorno al piccolo villaggio. Tra le altre presenze italiane: De Chirico con tre tele e Umberto Brunelleschi. In una lettera a suo fratello Umberto, Amedeo scrive: «Il Salon d’Automne è stato un successo relativo e l’accettazione in blocco è caso quasi raro per persone che passano per gente di un circolo chiuso».
Scrivendo sul primitivismo nell’arte del XX secolo, Robert J. Goldwater ha potuto dire: «Con le sue forme piatte Modigliani non cerca mai di produrre l’effetto di volume in cui si vorrebbe vedere l’apporto principale dell’arte africana, e pure il ritmo armonioso di queste stesse forme non ha niente in comune con la ripetizione di motivi identici che caratterizza la scultura africana. In fin dei conti, la grazia e la fragilità conferite ai personaggi di Modigliani dall’allungamento sistematico delle forme si oppongono in assoluto ai volumi densi impiegati generalmente dagli artisti neri».
La poetessa Anna Andreevna Gorenko, meglio nota sotto lo pseudonimo di Anna Achmatova, una principessa russa nata ad Odessa e arrivata a Parigi in viaggio di nozze dopo essersi sposata col poeta Nikolaj Gumilëv nel 1910, incontrò Modigliani nel Quartiere Latino. Aveva vent’anni, Modigliani ventisei. Anna era molto magra, bel viso, capelli neri, occhi da cerbiatta. Amedeo chiamava la sua scultura “la cosa”: ne fece una mostra, mi pare, al Salon des Indépendants del 1911.
Conviene tra l’altro precisare che l’esposizione cui Anna Achmatova fa allusione non ebbe luogo al Salon des Indépendants, ma nell’atelier di Amadeo de Souza Cardoso, in rue du Colonel-Combes, il 5 marzo 1911. Aiutato da Constantin Brancusi per la collocazione dei quadri, Modigliani aveva esposto sette sculture e tempere di cariatidi che malauguratamente distrusse quasi tutte in seguito. Molti altri artisti visitarono quella mostra: Apollinaire, Max Jacob, Picasso, André Derain, Ortiz de Zarate, e l’occasione mondana fu persino immortalata da un fotografo. Continua Anna Achmatova: “…mi chiese di andarla a vedere, ma alla mostra non si avvicinò a me, perché non ero sola, ma con amici. Durante le mie lunghe assenze, scomparve anche la fotografia che gli avevo regalato. In quel tempo Modigliani sognava l’Egitto. Mi portò al Louvre, perché visitassi la sezione egiziana; affermava che tutto il resto non era degno di attenzione.
Disegnò la mia testa in acconciatura di regina egizia o di danzatrice e mi sembrò del tutto preso della grande arte dell’antico Egitto. Evidentemente l’Egitto era la sua ultima passione. Poi divenne così indipendente, che nel guardare le sue tele non viene nessuna memoria d’altro. Oggi questo periodo di Modigliani lo chiamano Période nègre. Diceva: “I gioielli devono essere selvaggi”, a proposito della mia collana africana, e mi disegnava con la collana.
Testimonianze, ma anche verità che chiudono la porta e spazzano via tutte le leggende, che evacuano, se ce ne fosse ancora bisogno, il vecchio concetto di “facilità”, per quello che concerne la realizzazione materiale e fisica delle sculture di Modigliani.
Opere sofferte, opere scarne, levigate e forme portate alla loro essenza… queste sono le pratiche applicate alla materia, alla conoscenza di una Tradizione che percorre, attraversa e ripropone la forma umana. Un segno definito dai contorni dei volumi, una linea ferma, a volte tratteggiata, con forza, ma con tutta quella esperienza della tradizione del grande disegnatore, che rivela le linee di forza, ricama con segni appena leggibili, nasconde segni esoterici e numeri cabalici… questi sono i punti fermi di tutta la sua produzione grafica dal 1909 al 1913. Un primitivismo rivendicato, questa sembra essere la caratteristica vissuta e impegnata della scultura di Modigliani. "