amor et scientia sunt essentia vitae

  • Ecco la 66° Edizione del settimanale "Le opportunità di Borsa" dedicato ai consulenti finanziari ed esperti di borsa.

    I principali indici azionari hanno vissuto una settimana turbolenta, caratterizzata dalla riunione della Fed, dai dati macro importanti e dagli utili societari di alcune big tech Usa. Mercoledì scorso la Fed ha confermato i tassi di interesse e ha sostanzialmente escluso un aumento. Tuttavia, Powell e colleghi potrebbero lasciare il costo del denaro su livelli restrittivi in mancanza di progressi sul fronte dei prezzi. Inoltre, i dati di oggi sul mercato del lavoro Usa hanno mostrato dei segnali di raffreddamento. Per continuare a leggere visita il link

Approvato il DEF: il Governo nasconde l’austerità

Il Governo è in difficoltà, è debole. Questo è il precipitato politico di un ragionamento che prende le mosse dalla scelta del Governo di approvare un Documento di economia e finanza (DEF) privo delle principali informazioni sulle tendenze della finanza pubblica e dei conseguenti effetti macroeconomici.

Il DEF è il principale strumento di programmazione economica del Governo, serve a definire il quadro della finanza pubblica per l’anno in corso e per il successivo triennio. In pratica, con il DEF il Governo è chiamato a mettere nero su bianco da un lato quanto spenderà per servizi pubblici, pensioni, sanità, infrastrutture, spesa sociale, scuola, università, ricerca, cultura, e dall’altro come finanzierà quella spesa, cioè a dire quale parte di quella spesa sarà coperta dalle tasse (e dunque dalle risorse tratte dalle tasche dei cittadini) e quale parte, invece, sarà coperta attraverso il debito pubblico, prendendo a prestito risorse.

Nel DEF approvato il 9 aprile dal Consiglio dei Ministri, tutte queste informazioni sono state omesse: il Governo ha deciso di affiancare al quadro tendenziale, che rappresenta le stime circa l’andamento macroeconomico del Paese a parità di condizioni (quindi senza un intervento correttivo del Governo), non un quadro programmatico attuale (che tenga conto quindi dei nuovi interventi di politica economica che il Governo stesso decide di porre in essere), bensì il quadro programmatico definito lo scorso settembre (sette mesi fa!) in occasione dell’aggiornamento del DEF del 2023, dunque una previsione datata, risalente ad un contesto economico e di finanza pubblica ormai superato.

È la prima volta nella storia che un Governo rinuncia a definire il piano programmatico della finanza pubblica per gli anni della sua legislatura.

Perché lo ha fatto?

La ragione ufficiale, una scusa di carattere tecnico-regolamentare, è tanto semplice da risultare banale. Lo avrebbe fatto, secondo il Ministro dell’economia Giorgetti, perché quest’anno entra in vigore il nuovo Patto di stabilità e crescita, il quale impone ai Paesi membri dell’Unione europea di definire a settembre, con un Piano strutturale nazionale di bilancio a medio termine (questo il nome del nuovo documento programmatico previsto dall’Europa), il percorso di rientro dal debito pubblico accumulato in passato sulla base di indicazioni che la Commissione europea pubblicherà solo in estate: per questa ragione, ci dicono, il Governo sarebbe costretto ad attendere settembre per chiarire il percorso della finanza pubblica in coerenza con le nuove regole europee.

Tuttavia, l’argomento non convince neanche un po’. Infatti, il nuovo Patto di stabilità e crescita entrerà effettivamente in vigore dopo l’estate. Solo a partire dal prossimo anno, dunque, questo Piano sostituirà a tutti gli effetti il DEF.

Peraltro, qualsiasi previsione elaborata nell’attuale DEF potrebbe essere utilmente integrata e aggiornata a settembre in coincidenza con la Nota di aggiornamento del DEF (NADEF), dunque vi è perfetta continuità tra la vecchia e la nuova programmazione: il Governo avrebbe potuto, in piena tranquillità, svelare le sue previsioni attuali e poi, a settembre, allinearle alle indicazioni della Commissione europea.

In pratica, ad oggi il DEF resta il principale tassello che il Governo deve definire per tracciare il quadro di finanza pubblica, cioè la sua politica economica.

Con la decisione di svuotare il DEF 2024 dei suoi contenuti principali, il Governo ha deliberatamente deciso di nascondere le sue scelte fondamentali di politica economica dei prossimi mesi e anni.

Per chiarire quali siano le reali ragioni che hanno spinto il Governo Meloni ad una scelta tanto singolare occorre mettere in fila almeno tre circostanze.

La prima la abbiamo già citata, ma solo come circostanza formale, mentre assume a nostro avviso tutti i connotati di un fattore sostanzialmente determinante: quest’anno tornano a funzionare – dopo l’eccezione dell’emergenza pandemica e degli anni di ripresa da quella crisi – le regole di bilancio dell’Unione europea, e tornano sotto una nuova veste, quella del nuovo Patto di stabilità e crescita, che impone a tutti i Paesi membri caratterizzati da elevato debito pubblico, in primis l’Italia, un rigido percorso di tagli alla spesa pubblica. È il ritorno della logica dell’austerità, che con i vincoli al debito pubblico impone la scarsità delle risorse finanziarie a tutti i Paesi dell’Unione europea per indebolirne lo stato sociale ed esporre la classe lavoratrice europea al ricatto del capitale: disoccupazione di massa, precarietà e povertà come pilastri necessari di una società tutta schiacciata sulla continua ricerca del profitto da parte di una minoranza di privilegiati.

Con il ritorno dei vincoli europei nella loro veste rinnovata, l’Italia sarà costretta nei prossimi anni a continuare e addirittura aumentare enormi tagli di spesa pubblica ogni anno ogni (fra i 12 e i 23 miliardi all’anno secondo alcuni), senza alcuna possibilità di varare misure di stimolo alla produzione e all’occupazione.

Questo è il primo fattore da prendere in considerazione, l’orizzonte di politica economica in cui si muove ogni Governo che scelga il campo della piena compatibilità con l’Unione europea, e sappiamo bene che il Governo Meloni ha sposato fin dall’inizio la linea della continuità con il Governo Draghi. Certo, lo ha fatto in una stagione, quella della sospensione delle regole di bilancio europee, in cui tutto era più facile, ma da quest’anno si torna sui binari dall’austerità e dunque alla necessità, per i Governi, di varare misure draconiane e impopolari per assicurare la prescritta riduzione del debito pubblico.

A questo fattore si deve aggiungere un altro elemento, non a caso ampiamente enfatizzato dal Ministro Giorgetti proprio in relazione alle più recenti tendenze di finanza pubblica, ovvero gli effetti fiscali del cosiddetto superbonus. Quella misura, che consentiva di ristrutturare casa senza spendere un euro, ma addirittura guadagnando un premio (il 10% del costo dell’intervento veniva aggiunto ai rimborsi, attirando così l’interesse delle banche nell’operazione), e che in misura preponderante ha favorito le classi agiate (ne hanno usufruito 73 mila condomini, 351 mila tra villette, edifici e unità abitative unifamiliari indipendenti e addirittura 6 castelli!) e le imprese del settore costruzioni, ha avuto un costo per le casse dello Stato che è stato sistematicamente sottostimato negli anni, sfuggendo al controllo dei Governi che si sono succeduti e oscillando secondo le stime (tra ecobonus e bonus facciate) fra i 150 e i 200 miliardi di euro dal 2020, quando la misura è stata introdotto in piena pandemia, ad oggi.

Il peso finanziario del superbonus, lievitato di anno in anno, si è allargato a macchia d’olio nel bilancio dello Stato, come dimostrano i dati relativi all’anno appena trascorso quando, a fronte di un deficit (la differenza tra le spese e le entrate dello Stato) stimato del 5,3% del PIL, l’inatteso costo del superbonus ha costretto il Governo a rivedere il dato del deficit a fine anno al 7,2%.

Il problema politico posto da questo fenomeno dovrebbe essere dunque evidente: il Governo si trova tra l’incudine della nuova disciplina di bilancio europea, che lascia margini minimi alle manovre fiscali degli Stati, ed il martello di una misura varata dal Governo Conte II, nel lontano 2020, che sta ancora dispiegando i suoi effetti sul bilancio dello Stato, erodendo qualsiasi margine di manovra.

La vicenda del superbonus è comunque utile per mettere in evidenza due ulteriori follie del sistema di regole di governance economica che ci siamo auto inflitti: in primo luogo, qualsiasi politica di spesa pubblica (a prescindere della sua “qualità”) si scontra prima o poi con il paradigma dell’austerità… ed è quest’ultima a vincere. In secondo luogo e di conseguenza, le scelte politiche passate condizionano la politica economica di qualsiasi governo in carica (che quindi ha gioco facile a dire che non può attuare le politiche promesse).

Tornando alla questione principale, se il Governo avesse inserito nel DEF 2024 le rilevanti informazioni circa la spesa pubblica, il deficit e il debito pubblico, avrebbe dovuto mettere nero su bianco che i conti non tornano, e dunque confessare la necessità di una manovra correttiva da attuare entro l’autunno per arginare l’emorragia del bilancio statale attraverso tagli allo stato sociale e alle pensioni ed aumenti delle tasse.

Attenzione però: l’opposizione parlamentare (ma anche buona parte della stampa) limita le sue critiche solo a questo aspetto, cioè al fatto che il Governo attraverso questo giochino nasconde “il reale stato dei conti”, condividendo però nella sostanza (come fosse un dato di natura) che da questo debba discendere un intervento lacrime e sangue. Insomma, nella sostanza, Governo e opposizione sembrano condividere che a questo punto ci sia una sola strada da seguire: austerità, austerità, austerità. Non si tratta a ben vedere solo di ipocrisia, ma viene a galla un punto politico fondamentale: il problema non è tanto (o meglio, non è solo) denunciare le conseguenze, ma svelare le cause profonde di tali misure, e quindi metterne in luce la componente politica, che non ha nulla di automatico né di “tecnico”.

Una storia che abbiamo visto tante volte, e che dunque non ci stupirebbe, ma che non poteva essere raccontata oggi, nel DEF. Perché, e veniamo alla terza ed ultima circostanza che vogliamo sottolineare, siamo prossimi ad un’importante scadenza elettorale, le elezioni europee di giugno, ed il Governo non ha alcuna intenzione di svelare quali siano le inevitabili conseguenze della sua adesione cieca alla governance europea per cittadini e lavoratori.

Tacendo sulle cifre più importanti del DEF, il Governo prova goffamente ad occultare la responsabilità politica delle sue scelte, nasconde agli occhi dei suoi elettori la prossima manovra lacrime e sangue, che è già scritta nei numeri del bilancio dello Stato e discende direttamente dalla volontà di assecondare l’austerità europea.

Ed è a partire da qui (e quindi dal rifiuto del paradigma economico europeo, vecchio e presunto nuovo) che deve partire la nostra azione. Un Governo che nasconde la mano con cui taglia sanità, spesa sociale, pensioni, infrastrutture, scuola, ricerca, cultura, è un Governo debole, questo è il dato politico da tenere a mente quando nei movimenti sociali e politici ci si attiverà per organizzare la resistenza alla prossima stagione di macelleria sociale che si profila all’orizzonte, ormai nitidamente.

[Fonte: Approvato il DEF: il Governo nasconde l’austerità]
 
Tratto acroamatico del Padre Nostro …

1- Padre nostro che sei nei Cieli
Ketèr - Il Padre nei cieli, ovvero "celato" e "nascosto": la Melagrana che contiene tutti i Semi e le Scintille Divine.

2- Sia santificato il tuo Nome
Kochmà - Il Nome di Dio, ovvero il Tetragramma che Dio pronuncia tramite il suo Verbo, cioè la Vibrazione Primordiale che dà origine a tutto.

3- Venga il tuo Regno
Binà - La Madre che dà Forma al Verbo di Dio e da cui è generato Malkùt (il Regno).

4- Sia fatta la tua Volontà
Chesèd - La Misericordia di Dio come compimento della sua Volontà (Ghevurà)

5- Come in Cielo così in Terra
Ghevurà - La Legge più importante dell'Esoterismo, ovvero "Come in Alto (Cielo), così in Basso (Terra).

6- Dacci oggi il nostro Pane quotidiano
Tipherèt - Il Cristo, ovvero il Pane della Vita, il Cibo Spirituale che nutre l'Anima dell'Uomo.

7- E rimetti a noi i nostri Debiti,
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
Netzàch - I "debiti" sono i "nodi karmici" che dobbiamo sciogliere nell'attuale incarnazione o che ci legano karmicamente ad altre persone, ovvero ai nostri "debitori".

8- E non ci indurre in Tentazione
Hod - La tentazione è quella di voler arrivare troppo in alto e troppo in fretta, ad un grado di elevazioneche non potremmo sopportare al momento attuale. Si ricorda di agire con Prudenza (qualità di Mercurio).

9- Ma liberaci dal Male
Yesòd - La Sfera della Luna, ovvero la Vergine Maria (Il Corpo Lunare purificato) che schiaccia la testa del serpente (L'Accusatore o l'Ostacolatore) e così ci libera dal Male.

10 - Amen
Malkùt - L'epiteto "Amen" è attribuito a Ketèr, la Sfera più elevata. Esso quindi è come un sigillo che conclude la preghiera unendo il primo verso con l'ultimo.
In questo modo si ricorda che Ketèr e Malkùt sono in realtà una cosa sola e non vi è distinzione tra i due, poiché Tutto è Uno.

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Interessante come fanno i buonisti con il c…o degli altri 😂

Damasco: Gli USA hanno saccheggiato 115 miliardi di dollari di idrocarburi in Siria

Il rappresentante permanente siriano presso l'Ufficio delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali a Vienna, Hassan Khaddour, ieri, ha rivelato le cifre e le conseguenze economiche dei danni per i saccheggi, i furti continui di idrocarburi degli Stati Uniti d’America con la complicità delle milizie filocurde.

Si parte dai danni provocati dalla guerra per procura ai danni della Siria imposta dall’occidente e dalle potenze regionali usando i gruppi terroristici.

Con il 70 per cento del parco industriale distrutto, le perdite sono stimate in circa 60 miliardi di dollari.

Secondo Khaddour, “il numero degli impianti industriali privati danneggiati, registrato solo nelle province di Damasco, Aleppo, Hama e Homs, ammonta a circa 4.200, mentre 49 fabbriche del settore statale hanno cessato la produzione.”

Il diplomatico siriano ha ricordato che “la Siria ha bisogno di almeno 210 miliardi di dollari per ripristinare il corso della produzione industriale com'era prima della guerra.”

Le perdite nel settore degli idrocarburi

Il rappresentante di Damasco ha sottolineato che il settore petrolifero che “prima della guerra costituiva la principale fonte di reddito per lo Stato siriano, mostrano che i danni derivanti da saccheggi e sabotaggi da parte degli Stati Uniti ammontano a 115,2 miliardi di dollari.”

Inoltre, si stima che le forze statunitensi e le loro milizie ‘terroristiche e separatiste’ hanno rubato tra i 100 e i 130mila barili al giorno e recentemente questa cifra ha raggiunto i 150mila, a cui si aggiungono 60 milioni di metri cubi di gas naturale all’anno.”

Riguardo i danni indiretti “il valore supera gli 87,7 miliardi di dollari, una cifra che rappresenta i mancati benefici di petrolio greggio, naturale e gas domestico derivanti dalla diminuzione della produzione.”

Dal Ministero degli esteri siriano hanno, dunque, ribadito che “queste non sono semplici cifre, ma prove che dimostrano la responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati per la sofferenza e il deterioramento della situazione economica e umanitaria dei siriani.”

[Fonte: Damasco: Gli USA hanno saccheggiato 115 miliardi di dollari di idrocarburi in Siria]
 
L'attacco iraniano e la guerra di Gaza. Binomio inscindibile

Teheran aveva comunicato a Washington che non avrebbe riposto in cambio di una tregua duratura a Gaza. Israele per ora ha rinunciato a rispondere, soprattutto per la ferma opposizione degli Usa.

I fuochi d’artificio di sabato notte non sono l’ennesimo drammatico capitolo dell’annoso conflitto tra Iran e Israele, ma partecipano della tragedia che si sta consumando a Gaza. Infatti, è per sfuggire ai fallimenti di Gaza che Netanyahu sta tentando di allargare la guerra.

L’esercito israeliano è impantanato nella Striscia, impossibilitato a conseguire gli annunciati obiettivi massimalisti e sta logorando ogni giorno di più non solo il suo prestigio internazionale, ma anche il capitale morale derivante dall’Olocausto.

Allargare il fronte dello scontro trascinando con sé gli alleati non solo gli eviterebbe di fare i conti con tale rovescio, ma dilaverebbe la mattanza di Gaza, sia derubricandola a un passato senza importanza rispetto all’ecatombe successiva, sia coinvolgendo direttamente nella guerra, e quindi anche nel pregresso genocidio dei palestinesi, gli alleati (già correi).

Inoltre, serve a Netanyahu per evitare la prigione che l’aspetta se il conflitto finisce. Da qui l’attacco all’ambasciata iraniana in Siria, che aveva il potenziale di innescare una grande guerra.

L’offerta iraniana su Gaza

Ma la mattanza di Gaza ha un ulteriore peso nella svolta degli ultimi giorni. Infatti, dopo l’attacco all’ambasciata, Teheran aveva comunicato a Washington che non avrebbe riposto in cambio di una tregua duratura a Gaza.

Messaggio recepito con soddisfazione dagli Usa, che non vogliono la guerra con Teheran, ma con furia a Tel Aviv, con Netanyahu che in un colpo solo avrebbe visto fallire la sua strategia, se così si può definire, su Gaza e, insieme, anche la prospettiva di una guerra con l’Iran.

Così l’offerta iraniana non ha avuto alcun esito, con Hamas che ha rigettato l’ennesima proposta irricevibile di una tregua limitata, avendo chiesto fin da principio che fosse duratura.

Dato ciò, per l’Iran si aprivano prospettive non allettanti. Avrebbe potuto attendere la prossima provocazione israeliana, che sarebbe di certo arrivata e su scala maggiore, dal momento che l’Occidente aveva accolto con la solita condiscendenza lo “squilibrato” raid di Damasco.

In alternativa, temeva che gli fosse attribuito un grande attentato all’estero contro un obiettivo ebraico. In tal senso deve esser risuonato come un campanello di allarme il fatto che la giustizia argentina, il 12 aprile, abbia accusato Teheran dell’attentato avvenuto nel 1984 a Buenos Aires (sulle cui responsabilità la magistratura argentina ha avuto fasi altalenanti; per mera coincidenza, l’attuale presidente è un fan del sionismo messianico dei lubavitcher).

Così Teheran ha deciso di agire. Un attacco dimostrativo, nulla più, rivendicato come legittima autodifesa. I dettagli sono noti: il preavviso agli alleati e soprattutto agli Usa, quindi a Israele, in modo che tutto fosse pronto per l’intercettazione; lo sciame limitato di droni che avrebbero raggiunto Israele in più di due ore, così da dar modo alle difese di agire. Tutto preordinato, come accadde per la reazione contro gli Usa dopo l’assassinio del generale Soleimani.

Non per nulla, proprio in questi giorni, l’America aveva inviato un generale a Tel Aviv, probabilmente allo scopo di evitare che l’alleato si lanciasse in altre sciocchezze.

Allo stesso tempo, l’attacco aveva lo scopo di dimostrare le capacità belliche iraniane e la sua risoluzione ad usarle, avvertendo Israele e il mondo delle catastrofiche conseguenze di una guerra regionale. Obiettivo riuscito, a stare alle pressioni su Tel Aviv perché accolga l’invito di Teheran a finirla qui.

Reazioni

In Iran e altrove lo sfoggio muscolare è stato salutato come una grande vittoria, in particolare perché ha rivelato che Israele senza alleati è vulnerabile.

Ma Biden, e tanti altri, hanno fatto bene a lodare le difese israeliane, capaci di sventare la grave minaccia. Serve a evitare che l’ego ferito dell’esercito israeliano, già provato per il tragico default del 7 ottobre, lo induca a reazioni sconsiderate dettate dalla frustrazione.

La realtà, invero, è tutt’altra. Nonostante il supporto massivo dell’aviazione Usa, britannica e francese, e nonostante il numero limitato di vettori lanciati da Teheran, alcuni di essi hanno raggiunto Israele e, secondo fonti iraniane, avrebbero sorvolato la Knesset e la centrale atomica di Dimona – monito a Israele a non usare armi nucleari perché Teheran può fare altrettanti danni colpendo il reattore in questione.

Non solo, l’obiettivo militare primario dell’attacco sembra sia stato raggiunto. Infatti, missili ipersonici, vettori veri, hanno colpito la base dalla quale sono partiti i jet che hanno bombardato l’ambasciata di Damasco; lo asseriscono gli iraniani, con il Jerusalem post che conferma che una base è stata colpita, anche se minimizza. Se vero, come sembra, è di alto significato simbolico.

Allo stesso tempo, Hezbollah è stata tenuta fuori dall’attacco – al contrario delle milizie sciite irachene e degli Houti – limitando il suo apporto al solito scambio di colpi sul confine libanese.

Avrebbe potuto infliggere danni gravi all’avversario, date le capacità e il fatto che questi fosse impegnato a contrastare l’attacco di Teheran. Un modo per tenere bassa la tensione su quel fronte e diversificare i destini degli alleati.

La guerra catastrofica

Non si tratta di elogiare le capacità iraniane, solo di guardare in faccia la realtà, nel tentativo di dileguare le nebbie dei costruttori di guerra che cercano di trascinare il mondo in un conflitto che propagandano come una sorta di passeggiata (al modo della famosa-fumosa controffensiva ucraina).

Al contrario, se è vero che l’Iran ne uscirebbe devastato, stessa sorte toccherebbe a Israele, mentre i suoi alleati dovranno piangere una moltitudine di cadaveri, anzitutto tra i militari americani sparsi nelle basi mediorientali.

Peraltro, l’altra mossa di Teheran, messa a segno poco prima dell’attacco e passata in secondo piano a causa di esso, cioè il sequestro di una nave israeliana nello Stretto di Hormuz – a detta degli iraniani legata all’intelligence – ha ricordato al mondo che l’Iran può chiudere lo Stretto, passaggio chiave del commercio globale…

Israele per ora ha rinunciato a rispondere, soprattutto per la ferma posizione di Biden, che sarà stata supportata sicuramente da alti ufficiali dell’esercito israeliano, i quali sanno bene le conseguenze di un conflitto di tal fatta (un po’ come avvenne quando l’esercitò costrinse Moshe Dayan a ritirare l’ordine di proseguire la guerra con l’Egitto).

Allo stesso tempo, Israele ha dichiarato che si riserva di rispondere in futuro. Netanyahu, e non solo lui, spera di riuscire a tenere alta la tensione con l’Iran per stornare l’attenzione da Gaza, ma è prospettiva a rischio catastrofe e non facilmente spendibile, sia in patria che presso gli alleati.

In attesa, si spera in un ritorno alla ragionevolezza, sia in Israele che a livello globale. In tale contesto, il cessate il fuoco a Gaza, nodo cruciale del conflitto in atto, urge più che mai, come evidenzia un articolo odierno del New York Times. (1)

With Iran’s Strikes, Arab Countries Fear an Expanding Conflict

[Fonte: L'invasione di Gaza e l'attacco iraniano a Israele]
 
Alessandro di Battista

UNA SEMPLICE DOMANDA...

Faccio una domanda a tutti quegli ipocriti, falsi, quei “giornalisti ed editorialisti che tengono famiglia”, quei sepolcri imbiancati terrorizzati dal prendere per una volta nella vita una posizione minimamente coraggiosa. Secondo voi cosa avrebbero fatto gli Stati Uniti se l'Iran avesse bombardato un loro consolato in Giordania uccidendo 12 cittadini nordamericani tra i quali due generali dei marines? In che modo avrebbero risposto? Nessuno risponde a questa domanda, in compenso, il G7 sta valutando nuove sanzioni contro l'Iran.

Ricapitoliamo. Israele sta decimando un popolo intero (in 6 mesi 33.000 civili assassinati tra i quali 10.000 donne e 15.000 bambini), ha creato un esercito di orfani (a Gaza sono 19.000 i bambini che non hanno più mamma e papà), ha bombardato scientemente ospedali, scuole, moschee, sedi delle agenzie ONU. Ha colpito deliberatamente decine di giornalisti. Ha colpito deliberatamente convogli umanitari. Ha sparato sulla folla che aspettava un pacco di farina. Ha usato la fame come arma di guerra. Ha bloccato per settimane gli aiuti umanitari per causare una carestia che ha provocato morti per fame. Ha bombardato Libano e Siria. Ha colpito la sede diplomatica dell'Iran a Damasco. Ha dato copertura militare a fanatici coloni fondamentalisti israeliani che come i nazisti vanno a bruciare le case dei palestinesi in Cisgiordania. Ha costruito nuove colonie. Ha arrestato migliaia di palestinesi in Cisgiordania tra i quali numerosissimi minori. Ha violato sistematicamente numerosissime risoluzioni ONU teoricamente vincolanti.

Ha fatto tutto questo e nessun paese civile ha proposto una sanzione che sia una per uno Stato diventato palesemente terrorista. Poi però ci raccontano che “nonostante tutto si deve stare dalla parte della democrazia”. Vi prego aprite gli occhi!
 
LA BOMBA È UNA TIGRE DI CARTA?

Con la ripresa dello scontro a tutto campo tra l'occidente collettivo e le potenze che non ne accettano più il dominio egemonico, torna di attualità la minaccia della guerra nucleare, e della Mutual Assured Destruction (MAD). Ma è poi davvero così cogente, tale minaccia? È davvero ipotizzabile che questo conflitto globale possa degenerare in una reciproca e generalizzata distruzione, ricorrendo alle armi nucleari?

Certo la guerra è una delle attività più imprevedibili, ed una volta iniziata assume quasi vita propria, il che rende estremamente difficile escludere che possa avere un determinato sviluppo. Resta però il fatto che ci sono molte ottime ragioni per cui un conflitto nucleare rimanga una ipotesi estremamente remota.

Non si può purtroppo dire altrettanto di una grande guerra convenzionale.

Durante la guerra fredda, il rischio di un conflitto nucleare tra grandi potenze è aleggiato più volte, costituendo in effetti una minaccia latente la cui sussistenza – almeno apparentemente – è rimasta incombente per tutti quegli anni. Si può anzi affermare che questa sembrava essere l’unica ipotesi possibile, in caso di conflitto tra USA ed URSS; l’idea di un conflitto convenzionale tra Washington e Mosca, infatti, sembrava essere confinato alle mere ipotesi su cui basare le esercitazioni delle rispettive alleanze (NATO e Patto di Varsavia). Ma i veri wargame, le simulazioni effettivamente prese in considerazione nelle sale bunker degli stati maggiori, vertevano sulla guerra atomica.

Ora sembrerebbe che gli Stati Uniti, quasi orfani dell’URSS, abbiano deciso di riaprire una fase di guerra fredda, che vede al posto della potenza comunista di ieri una sorta di contemporaneo asse del male, composto da Russia, Iran, Corea del Nord e Cina.

Se questo orientamento venisse confermato, soprattutto nei termini in cui si sta appalesando, e se i paesi europei vi si adegueranno passivamente, inevitabilmente non ne verrà nulla di buono. Si tratterebbe, infatti, di un enorme salto indietro storico, che non solo mira a ripristinare un mondo nettamente diviso e conflittuale (ammesso che oggi sia realmente possibile), ma addirittura a riesumarne una versione assai più hard, in cui persino tutti quegli strumenti (trattati e linee di comunicazione) messi allora in campo per ridurre al minimo il rischio di conflitto, vengono oggi via via cancellati.

Vale quindi la pena chiedersi se, quanto e come – oggi – la minaccia nucleare sia effettiva.

Intanto, va rammentato un dato estremamente significativo: le armi atomiche sono state usate in una sola occasione, e quando c’era un’unica potenza che ne disponesse. L’estrema proliferazione nucleare, susseguente a quel 6 agosto 1945, è stata effettivamente, sinora, il maggior deterrente al suo uso. Oggi ci sono al mondo migliaia e migliaia di testate atomiche, assai più potenti di quelle sganciate sul Giappone, che possono essere portate sul bersaglio molto più rapidamente e, cosa ancor più significativa, nella disponibilità di almeno 9 paesi.

Da questo punto di vista, l’equilibrio basato sulla Mutual Assured Destruction (MAD), definizione appunto nata durante la guerra fredda, sembrerebbe essere più valida che mai. Ma, si obietta, la disponibilità di armi nucleari tattiche (di potenza e raggio d’azione ridotto) ne renderebbe in effetti più facile farvi ricorso. Questo ragionamento, però, non tiene conto di un fattore determinante. L’uso di un’arma nucleare, sia pure di minima potenza, costituirebbe di fatto uno sdoganamento del suo uso, una sorta di liberi tutti: da quel momento in poi, qualunque paese che ne avesse la disponibilità, si sentirebbe autorizzato ad utilizzarle, in qualsiasi contesto.

L’unica situazione in cui le varie dottrine militari attualmente prevedono il ricorso ad armi nucleari, infatti, è qualora sussista una minaccia esistenziale per la nazione, che può essere allontanata solo utilizzandole. Si tratta di una dottrina assolutamente razionale, e che nella sua semplicità risulta anche chiarissima. Diversamente, il ricorso ad armi nucleari in un contesto diverso, magari in una fase offensiva, renderebbe assai più probabile che a farvi ricorso siano anche altri, e quindi finendo per costituire una minaccia generalizzata, a cui nessuno potrebbe sottrarsi.

A tutti gli effetti, quindi, il possesso di armi nucleari costituisce un deterrente che dissuade eventuali nemici dal tentare la distruzione del paese che ne dispone. Questi, e soltanto questi, sono i termini in cui funziona la deterrenza nucleare.

Restano infine due equivoci da sfatare.

Il primo è ritenere che una sconfitta sia equivalente ad una minaccia esistenziale, e che quindi una nazione dotata di arsenale nucleare, se si trovasse nella condizioni di una imminente sconfitta, vi farebbe ricorso. Ma l’equazione non è vera, poiché una sconfitta – anche dura – non necessariamente si configura come qualcosa in grado di mettere in discussione l’esistenza stessa della nazione. Anzi, diciamo che è tutto sommato una possibilità remota. Se guardiamo a tutte le grandi sconfitte della storia moderna, queste hanno in genere determinato un rovesciamento politico nel paese sconfitto, a spesso anche una condizione di grave subordinazione, ma non si sono mai configurate come una minaccia esistenziale per il paese sconfitto.

Il secondo equivoco riguarda invece l’idea che le armi nucleari costituiscano un deterrente valido verso quei paesi che non le hanno. Proprio perché, come si è visto, il loro utilizzo non è una questione meramente relativa al possederle o meno, e soprattutto ha un valore erga omnes, che riguarderebbe tutti e non solo i paesi direttamente coinvolti, anche nel caso di una asimmetricità non vi sarebbe alcun incentivo ad usarle – e, per converso, alcun deterrente a confliggere con chi le possiede. Vale appena la pena di ricordare che l’Iran ha colpito ben tre potenze nucleari, pur non possedendo (ancora) la bomba: USA, Israele e Pakistan.

Tutto ciò, ovviamente, non per sminuire il pericolo insito nella stessa esistenza di così vasti arsenali nucleari, ma per ricondurne alle giuste dimensioni l’effettiva minaccia.
Tenendo oltretutto presente che agitare lo spauracchio di un conflitto atomico, può essere la comoda copertura per far passare come accettabile un grande conflitto convenzionale.

Fonte:
 
Netanyahu con il dito sul grilletto

Per rimanere al potere la strategia «iraniana» del premier israeliano è una pistola puntata contro il mondo, Biden compreso. Cancellando la Palestina e il massacro in corso a Gaza.

La trappola è scattata. Netanyahu continuerà a tenere il dito sul grilletto con il mirino puntato contro nemici e alleati, riluttanti o meno. Con l’attacco all’ambasciata iraniana a Damasco il primo aprile (in cui è morto anche un generale dei pasdaran) e la conseguente rappresaglia iraniana, in gran parte fermata nei cieli israeliani, ha ottenuto quello che voleva: allargare la guerra e oscurare Gaza dai titoli di prima pagina dei media. La questione palestinese va in secondo piano se deciderà di colpire duramente la repubblica islamica con un conflitto che si potrebbe espandere al Libano, alla Siria, all’Iraq e alla penisola arabica.

Nessuno potrà tenersi fuori, questo è l’obiettivo del premier che vuole coinvolgere tutti per tenersi in sella al potere _ questi sono i suoi calcoli – almeno fino alle elezioni americane di novembre. Ha ottenuto immediatamente con il suo spericolato cinismo la solidarietà militare degli Stati Uniti e di quei governi europei che hanno partecipato all’operazione contro droni e missili iraniani. E ora si parla insistentemente di una coalizione internazionale anti-Iran.

E’ vero che gli Usa e il G-7 hanno detto che non parteciperanno a un’eventuale attacco israeliano diretto contro Teheran. Ma si tratta di una posizione che potrebbe repentinamente cambiare: basta immaginare cosa potrebbe accadere se l’eventuale contro-rappresaglia verso l’Iran fosse seguita da un altro attacco di Teheran contro Israele. Netanyahu e il suo gabinetto di guerra infatti non hanno per niente rinunciato ad attaccare di nuovo gli ayatollah. E dopo avere detto che gli Usa sono al fianco di Tel Aviv in maniera “ferrea” diventerebbe assai sottile la differenza tra una guerra di attacco e una di difesa.

I capi delle potenze occidentali si sono già ampiamente sbilanciati a favore del premier e delle sue iniziative militari dissennate. Nessuno, tranne il segretario dell’Onu Guterres, ha condannato l’attacco israeliano del primo aprile all’ambasciata dell’Iran a Damasco che ha violato il diritto internazionale, la sovranità iraniana e anche quella siriana. In poche parole hanno applicato il solito doppio standard che è il vero e radicato motivo delle guerre in Medio Oriente. Del resto c’era da aspettarselo in una regione dove gli occidentali hanno invaso l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003, attaccato la Libia di Gheddafi nel 2011 e fatto di tutto pur di sbalzare dal potere il siriano Assad. Ogni occasione è buona per eliminare qualche potenza mediorientale e fare di Israele l’unico guardiano (e potenza atomica) della regione. Con l’Iran la via diplomatica è stata abbandonata presto: nel 2015 Obama firmò l’accordo sul nucleare con Teheran – al quale per altro non si diede quasi seguito – mentre Trump ebbe gioco facile a uscire dall’intesa nel 2018 e a riconoscere Gerusalemme occupata capitale dello Stato ebraico contro tutte le risoluzioni Onu.

Indovinate un po’ chi è il candidato preferito da Netanyahu alla presidenza Usa? La verità è che qui ci facciamo beffe del diritto internazionale e Trump può essere l’uomo giusto per il premier ebraico. Il tycoon è disponibile ad arrivare a un accordo con Putin, riconoscendone la sfera di influenza, ma non con l’Iran degli ayatollah e vuole mettere sotto il tappeto con il Patto di Abramo la questione di uno Stato palestinese, cosa che per altro ha fatto anche Biden. Ecco perché Netanyahu tiene la pistola puntata anche contro l’attuale presidente Usa e allo stesso tempo si prepara a fare pressioni sul Congresso Usa per ottenere oltre 17 miliardi di dollari di aiuti militari. Forse solo questo potrebbe trattenerlo da uno “strike” contro Teheran, che per altro troverebbe il modo di giustificare in qualche maniera. Il ricatto alla Casa Bianca è evidente.

La realtà è che quando ci si mette nelle mani di un governo estremistamcome quello attuale di Israele può accadere qualunque cosa. Ma soprattutto possono verificarsi gli eventi più prevedibili. In primo luogo non finiranno i raid israeliani in Siria dove si è combattuto un conflitto con l’Iran definito in questi anni la guerra “invisibile”: ora può diventare un conflitto sempre più aperto in un territorio dove Israele occupa dal 1967 il Golan e dove di trovano le basi russe, quelle americane, della Turchia, oltre alle milizie di pasdaran, Hezbollah e alle formazioni jihadiste, Isis compreso. Una polveriera. Ma soprattutto gli israeliani vogliono punire il Libano degli Hezbollah, alleato cardine di Teheran. Qui il casus belli, come avvenne già nel 2006, non serve neppure crearlo, c’è già.

E cosa faranno gli iraniani? Il lancio di centinaia di droni e missili – colpiti dai sistemi di difesa anti-missilistica – era diretto al “pubblico” vero degli ayatollah, non tanto l’opinione interna, ignorata o manovrata dalla propaganda, quanto agli alleati di Teheran nella regione (Hezbollah, Houthi yemeniti, milizie sciite irachene) e agli avversari arabi dell’Iran nella regione, soprattutto verso quel Golfo che Teheran vuole assolutamente “Persico” dove è di stanza la sesta flotta Usa. Ma gli iraniani, al contrario dell’iracheno Saddam, non hanno nessuna intenzione di combattere contro Israele e i suoi alleati la “madre di tutte le battaglie”. Il loro obiettivo è la sopravvivenza al potere, come del resto Netanyahu, che non ha nessuna intenzione di togliere il dito dal grilletto. Con lui lo scontro finale continuerà ad aleggiare come un incubo sul Medio Oriente. L’unica alternativa sarebbe la diplomazia ma passa inevitabilmente da una soluzione al dramma palestinese e alla guerra in corso a Gaza. Netanyahu non la vuole e noi siamo sicuri di volerlo?

[Fonte: Netanyahu con il dito sul grilletto | il manifesto]
 
Diego Fusaro

E adesso si torna a parlare dell'euroinomane delle brume di Bruxelles Mario Draghi per un incarico di prestigio nell'Unione Europea. Come più volte abbiamo sottolineato, Mario Draghi fa parte di quella cerchia di uomini superiori, nati per comandare e, per di più, senza dover passare da votazioni democratiche. Il suo cursus honorum parla chiaro: esordì in Goldman Sachs, poi fu a bordo del panfilo Britannia nel 1992, successivamente divenne governatore della Banca Centrale Europea, nel 2021 fu presidente del Consiglio in Italia e da più parti si parlò anche di un suo possibile ingresso ai piani alti della NATO. Adesso l'euroinomane di Bruxelles torna in pista e, come ricordavo, da più parti si vocifera di un suo possibile ingresso ai piani alti dell'Unione Europea. Il tosco nichilista Matteo Renzi addirittura si è avventurato a sostenere che Mario Draghi è più che mai fondamentale per "rianimare l'Unione Europea": sembra il titolo di una pellicola horror e invece è davvero il sogno di Matteo Renzi. La von der Leyen, per parte sua, ha sostenuto che Mario Draghi ed Enrico Letta indicano la via: la via, ci permettiamo di aggiungere, che conosciamo bene e che porta nell'abisso i lavoratori e i ceti medi, che l'Unione Europea di marca neoliberale ha già ampiamente suppliziato in questi anni. E li ha suppliziati non per accidens ma per la propria stessa struttura, quale trova espressione nei trattati europei, incardinati sul verbo neoliberale e dunque sulla aggressione programmatica ai danni dei lavoratori dei ceti medi. Anche Ignazio La Russa ha dato la sua benedizione a Mario Draghi, asserendo che ha tutte le carte in regola per occupare posti di rilievo nell'Unione Europea: ed è la prova, se ancora ve ne fosse bisogno, che sotto ogni profilo destra neoliberale e sinistra neoliberale sono espressioni fintamente oppositive del medesimo, vale a dire articolazioni fintamente plurali del Partito Unico del turbocapitalismo, che non per caso punta sempre e comunque su Mario Draghi come proprio rappresentante e come propria dramatis persona.
 

Eh poi … ditemi che non siamo una colonia!

Tajani, Israele ha diritto a difendersi ma serve prudenza​

'Lavoriamo per la de-escalation'

"Israele ha diritto a difendersi e vediamo che tipo di reazione ci sarà" all'attacco dell'Iran.
"Vogliamo che prevalga sempre la prudenza".
Lo ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani a Capri per il G7 Esteri.
"Vediamo" se potrà esserci un documento da parte del G7 per evitare una reazione di Israele all'attacco iraniano, "la riunione dobbiamo ancora farla e vedremo quali saranno gli obiettivi raggiunti.
Certamente noi stiamo lavorando per una de-escalation", ha poi aggiunto Tajani. "Ieri ho parlato a lungo col ministro degli Esteri di Israele e gli ho detto qual era la nostra posizione. Israele ha ottenuto una vittoria militare perchè il 99% dei missili e dei droni" iraniani "non ha raggiunto l'obiettivo, ha vinto la difesa israeliana. Ora bisogna vedere cosa accadrà, che tipo di reazione ci sarà, ne parleremo e certamente lavoreremo insieme per una de-escalation".

Tajani, Israele ha diritto a difendersi ma serve prudenza - G7 Italia - Ansa.it
 
E intanto Israele ha attaccato l’Iran

Israele attacca l'Iran con i droni, Teheran minimizza​

Il regime non pianifica ritorsioni immediate. Appelli alla calma

Israele ha lanciato nella notte mini droni contro una base militare iraniana a Isfahan, nel centro del Paese. L'operazione, a quanto pare molto limitata e senza alcuna vittima, sembra aver messo fine al momento ad una settimana ad altissima tensione in Medio Oriente, apertasi con l'attacco di sabato scorso ad Israele. Vanno in questo senso le parole attribuite dalla Tass ad un alto funzionario del regime degli ayatollah, secondo cui non si prevedono ritorsioni immediate. Gli attacchi diretti da Stato a Stato tra i due arcinemici sono "finiti", ha azzardato una fonte dell'intelligence regionale citata dalla Cnn.
Teheran - nonostante nella notte abbia chiuso lo spazio aereo - ha minimizzato gli effetti del raid ed ha messo anche in dubbio sia stato direttamente lo Stato ebraico a metterlo a segno. Israele da parte sua non ha rivendicato i fatti di Isfahan, né li ha commentati ufficialmente. Anche gli Usa si sono tirati fuori. "Non siamo coinvolti - ha detto il segretario di Stato Antony Blinken - in alcuna operazione offensiva. Quello che posso dire è che stiamo lavorando alla de-escalation. Non voglio dire altro, non siamo stati coinvolti".
Il G7 riunito a Capri ha subito invocato la de-escalation in un confronto che potrebbe portare ad una situazione dagli effetti imprevedibili. E ha deciso di puntare sulle ulteriori sanzioni contro l'Iran: "Alla luce delle notizie sui raid del 19 aprile, invitiamo tutte le parti a lavorare per prevenire un'ulteriore escalation. Il G7 continuerà a lavorare a tal fine".
Secondo le ricostruzioni più accreditate, sono stati tre i mini droni lanciati - attorno alle 4 italiane e nel giorno dell'85esimo compleanno della Guida suprema Ali Khamenei - verso la base di Isfahan, importante centro militare e nucleare del Paese. Alcuni media, come il Jerusalem Post, hanno parlato di missili a lunga gittata ma non c'è alcuna conferma su questo punto. Dopo poco meno di tre ore l'allarme è terminato, l'Iran ha riaperto lo spazio aereo e sono ripresi i voli dall'aeroporto di Teheran. "I micro veicoli aerei - ha annunciato il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian - sono stati abbattuti senza causare vittime o danni. I media filo israeliani - ha aggiunto - hanno tentato di rendere una vittoria il loro fallimento ed esagerare la questione". Poi ha ammonito che l'Iran è pronto a colpire duramente "il regime di Israele se commettesse ancora volta un grave errore".
Decisamente meno chiare le circostanze dell'operazione. Un membro della Commissione parlamentare per la sicurezza nazionale, Shahriar Heidari, ha fatto sapere che gli oggetti volanti presi di mira dal sistema di difesa iraniano erano "mini droni di sorveglianza americani o israeliani". Mehdi Toghyani, membro del parlamento iraniano di Isfahan, ha invece affermato che il "tentativo disperato" di Israele è stato compiuto con "l'aiuto di agenti locali" ma "è fallito". Anche analisti citati dalla tv di Stato iraniana hanno sostenuto che i mini droni abbattuti dalle difese aeree iraniane a Isfahan erano pilotati da 'infiltrati' dall'interno dell'Iran. Mentre il comandante in capo dell'esercito iraniano, Abdolrahim Mousavi, ha addirittura definito "assurdi" i rapporti che attribuiscono ad Israele il raid a Esfahan, sostenendo che le esplosioni erano dovute all'abbattimento di "oggetti volanti".
Pochissime le reazioni in Israele, dove non ci sono state conseguenze all'attacco e dove l'esercito non ha deciso alcun cambiamento di regole per i cittadini. Una fonte israeliana si è limitata a riferire al Washington Post che il blitz a Isfahan "è un segnale all'Iran" sul fatto che "Israele ha la capacità di colpire all'interno del Paese". L'unico commento ufficiale è stato quello del ministro della Sicurezza nazionale, il falco di ultradestra Itamar Ben Gvir, che ha definito "moscio" la presunta reazione del suo Paese al lancio di 300 droni e missili iraniani una settimana fa, attirandosi le critiche dell'opposizione al governo di Benyamin Netanyahu.

Israele attacca l'Iran con i droni, Teheran minimizza | ANSA.it
 

Israeli raids cause ‘worst destruction in decades’ in Tulkarem​

An Israeli raid on a refugee camp in the occupied West Bank has caused some of the “worst destruction in decades”, according to Al Jazeera’s Zein Basravi. Residents there say this escalation confirms what they fear most, that after Gaza, the occupied West Bank is Israel’s next target.

Published On 19 Apr 202419 Apr 2024

Israeli raids cause ‘worst destruction in decades’ in Tulkarem
 
Israeli forces continue Nur Shams refugee camp raid, teen among 5 killed

  • Israeli forces continue to raid Nur Shams refugee camp in the occupied West Bank’s Tulkarem for a second day, killing at least five people, including a teenager, and causing “worst destruction in decades”, according to Al Jazeera correspondent.
  • At least eight people, mostly women and children, have been killed in Israeli attacks on residential homes in southern Gaza’s Rafah area, the Wafa news agency reports.
  • Iran’s foreign minister says his country will respond to the “maximum” if Israeli “adventurism” continues following reports of the shooting down by Iranian air defence batteries of three drones over Isfahan.
  • Israeli forces have deployed more troops to areas adjacent to Rafah and destroyed agricultural land in the eastern areas of the district.
  • At least 34,012 people have been killed and 76,833 wounded in Israeli attacks on Gaza since October 7. The death toll in Israel from Hamas’s October 7 attacks stands at 1,139, with dozens of captives held in Gaza.
 

The Voice of Israel’s Defeat: A Confession by Israeli Newspaper Haaretz

The Voice of Israel’s Defeat: A Confession by Israeli Newspaper Haaretz​

A few days ago, Haaretz – one of Israel’s most influential Israeli newspapers – published an extraordinary article. Under the revealing title Saying what cannot be said: Israel has been defeated, a total defeat, the author presents an absolutely pessimistic picture of Israel’s war in Gaza and its overall situation. As this is not an “opinion piece” but written by the newspaper’s “Political Correspondent”, it is fair to say that this paper represents the viewpoint of Haaretz.

Let us first reproduce the most important parts of this remarkable article.

“We have lost. The truth must be told. The inability to admit it sums up all that needs to be known about Israel’s individual and mass psychology. There is a clear, clear and predictable reality that we should begin to probe, process, understand and draw conclusions from for the future. It is no fun to admit that we have lost, so we lie to ourselves.
[…] We can’t say it, but we have lost. People have a tendency to believe for the best and be optimistic, hoping that tomorrow everything will be fine, that we will be in a process that will be more successful in the end. That is the most fundamental flaw in human thinking: the notion that the direction we are going is good, that we simply have to get there now, that in a little more time, with a little more effort, the hostages will be returned. Hamas will surrender and Yahya Sinwar will be killed. After all, we are the good guys and good will triumph.
It is the same mentality that leads to the notion that “the Iranian regime will soon implode” and other notions that have more to do with Hollywood scripts than with life itself. They are not the truth and relate to something that is uncomfortable. After all, it is uncomfortable to tell the truth to the public.
[…] No cabinet minister will restore our sense of personal security. Every Iranian threat will make us tremble. Our international standing suffered a severe blow. The weakness of our leadership was revealed to the outside world. For years we managed to fool them into believing that we were a strong country, a wise people and a powerful army. In reality, we are a village with an air force, and that is on condition that they wake up in time.
[…] Rafah is the latest bluff the spokesmen are plotting to fool us into thinking that victory is only minutes away. By the time they enter Rafah, the real event will have lost its significance. There may be an incursion, perhaps a small one, sometime, say in May. After that, they will peddle the next lie, that all we have to do is ____ (fill in the blank), and victory will be on the way. The reality is that the war aims will not be achieved. Hamas will not be eradicated. The hostages will not be returned through military pressure, and security will not be restored.
The more the spokesmen shout that “we are winning,” the clearer it is that we are losing. Lying is their trade. We need to get used to that. Life is less secure than it was before October 7. The beating we took will hurt for years. The international ostracism will not go away. And, of course, the dead will not return. Neither will many of the hostages. For some of us, life will return, with the petrifying fear of an imminent repetition. And for some of us, life will not get back on track. Those people will walk among us like the living dead. That’s what we voted for. That’s the way it is. We need to get used to the sad reality of our homeland.”
Basically, the article acknowledges that Israel has lost the war. Of course, Israel’s armies have not been eradicated. But in a war between the world’s fourth strongest official army against the guerrilla forces of the Palestinian resistance in the tiny enclave of Gaza (population 2.3 million), the standards for success are different.

It is true that Israel has “succeeded” in committing genocide against the Palestinian people in Gaza, massacring tens of thousands of people, destroying most of the homes and displacing most of the population. But despite all these horrible war crimes and despite the fact that Israel is waging the longest war in its history, it has not been able to defeat the heroic Palestinians!

In fact, Israel’s all-powerful army – with total superiority in air, sea and land, with artificial intelligence-driven killer programs, the latest missiles and bombs, and with unlimited financial, political and military support from US imperialism – failed to conquer the strip, failed to defeat the resistance forces and failed to bring back their hostages. What a remarkable achievement for the resistance forces, as my comrade Yossi Schwartz, an anti-Zionist Jew in Israel and a Trotskyist for six decades, pointed out some time ago.

Not only this: never before has Israel been so isolated in international politics, it has become a country hated and despised by the masses of people all over the world. The genocidal war of the Zionists has provoked an unprecedented pro-Palestine solidarity movement that continues to mobilize relentlessly against the Apartheid and Terror State. Several trade unions have already taken active boycott actions against military and economic supplies to Israel.

Under pressure from the masses, an increasing number of bourgeois governments feel compelled to criticize and distance themselves from the Zionist entity. The same pressure has pushed the ICJ to open an investigation into Israel’s genocide in Gaza and even the UN Security Council felt obliged to vote in favor of a cease-fire, against the furious resistance of Israel and its US masters.

This is not to deny all the difficulties and dangers ahead, not at all, as the murderers will continue to kill and the traitors will continue to betray. Still, it is fantastic to see the heroic Palestinian people inflict a political defeat on the Zionist state!
 
ICJ Ruling on Plausible Genocide Obligates States to Individually and Collectively (UNGA) End Complicity and Impose Sanctions on Israel

Following the binding ruling of the International Court of Justice (ICJ) on 26 January 2024 confirming the plausibility of Israel’s genocide against 2.3 million Palestinians in the occupied and besieged Gaza Strip and ordering it to stop and prevent all genocidal acts:

  • Israel has openly defied the court’s order, intensifying its genocide and use of starvation as a weapon, leading to a rising death toll among Palestinians, especially children.
  • The US, Germany, UK and other Western powers have continued to arm, fund and otherwise enable Israel’s genocide (including another US veto), even defunding UNRWA to further Israel’s starvation war, an act condemned by genocide experts as “direct involvement in the intensification of genocidal acts against the Palestinian people.”
  • UN human rights experts have called for an “immediate” arms embargo on Israel and for “sanctions on trade, finance, travel, technology or cooperation.”
  • Governments and corporations have started to review and stop arms transfers and military relations with Israel and its complicit military industry, but the UNGA is called upon to reflect the growing global consensus and bypass the US-led UNSC paralysis.
  • Despite the domination of Israel’s genocide-justifying propaganda in the mainstream US media, the majority of US voters, like most of humanity, support halting or conditioning military funding and arms shipments to Israel.
In both the prolonged occupation case and the genocide case against Israel at the ICJ, a large number of states, regional organizations, human rights lawyers, and international law experts have condemned Israel’s system of apartheid against Palestinians and its genocidal war. They’ve affirmed that Israel’s “total impunity,” as the UN Secretary-General has described it, presents a threat not just to Palestinians but also to the international legal system and world peace.

Israeli forces have committed several massacres against starving Palestinians seeking the very limited food aid arriving, while continuing its wanton bombing campaign, killing over 3,500 Palestinians since the ICJ order (with the total since October 2023 exceeding 31 thousand, mostly children and women).

On 21 February, following a repeated call by the UN inter-agency committee for a ceasefire, UNRWA chief Phillip Lazzarini warned again: “there is no safe place in gaza; Diseases are rampant; Famine is looming; Water is at a trickle; Food production has come to a halt; Hospitals have turned into battlefields; One million children face daily traumas.” That same day, the US, again, vetoed a UN Security Council resolution calling for a ceasefire in Gaza.

The Genocide Convention, according to international law experts, obligates states “to refrain from being complicit through aid or assistance … the moment the state becomes aware of the existence of a serious risk that genocide will be committed.” Failing to prevent genocide, let alone providing aid or assistance to Israel while plausibly perpetrating it, makes states complicit.

Global South states have largely supported South Africa’s ICJ genocide case against Israel, with growing support for imposing lawful sanctions against it. The ICJ ruling as well as mass solidarity mobilizations, peaceful disruptions and other creative pressure against Israel’s live-streamed genocide have prodded states, corporations and institutions worldwide to take action:

  • Bolivia fully suspended diplomatic relations with Israel, while Chile, Colombia, Chad, Honduras, Turkey, and Jordan downgraded relations with it.
  • The African Union effectively suspended Israel’s observer status.
  • Norway’s pension fund, the world’s largest, fully divested from Israel Bonds (almost $500m).
  • On February 29th, Colombian President Gustavo Petro announced the full suspension of arms purchases from Israel.
  • On February 12th, a Dutch court ordered the government to suspend the export of F-35 fighter-jet parts to Israel.
  • Belgium’s regional government of Wallonia suspended two arms export licenses to Israel.
  • On February 29th, the Spanish Socialist Workers’ Party, the main ruling party in Spain, voted in parliament, along with other parties, in favor of an immediate suspension of Spain’s arms trade with Israel.
  • Deputy PMs of Belgium and Spain called for “suspending the EU Association Treaty with Israel, imposing a general arms embargo, or even imposing sanctions under the EU’s global human rights sanctions regime” to compel Israel to accept a ceasefire in Gaza.
  • Malaysia has prevented Israeli ships and ships headed to Israel from using its ports.
  • On March 1st, Nicaragua filed a case against Germany at the ICJ under the Genocide Convention accusing it of “facilitating Israel’s genocide” against Palestinians and of complicity in its other crimes, including apartheid.
  • Also on March 1st, over 200 politicians and MPs from over 12 countries issued a statement committing to “immediate and coordinated action” in their parliaments to stop their countries from arming Israel.
  • EU leader Josep Borrell, having previously made statements that greenlighted Israel’s genocide, recently called on allies of Israel, particularly the US, to stop arming it.
  • The West Asia Football Association called on FIFA to suspend Israel’s membership.
Some large corporations are also acting to circumvent being criminally liable for complicity in genocide. On February 5th, Itochu Aviation, a division of Japan’s Itochu Corporation, and Nippon Aircraft Supply Co. ended their respective partnerships with Elbit Systems, Israel’s main arms manufacturer, explicitly citing the ICJ ruling.

States and corporations aside, senior government officials may also be held criminally responsible for their complicity in genocide following the ICJ ruling, according to international law experts.

The World Court’s finding of plausible genocide puts states, institutions, corporations and officials on urgent notice: stop complicity in Israel’s Gaza genocide or be held criminally liable. Until Israel ends its genocide and fully complies with its obligations under international law, States must unilaterally, regionally, and collectively at the UNGA within the framework of reconvening the 10th UNGA Emergency Session under the Uniting for Peace procedure:

  1. Impose lawful and proportionate economic sanctions and other countermeasures on Israel, particularly a two-way military embargo; canceling free-trade, cooperation agreements and energy deals; banning goods from companies implicated in Israel’s illegal settlement enterprise; etc., and pass a UNGA resolution to this effect.
  2. Take immediate action to expel Israel from international fora including the UNGA (and other UN bodies such as ECOSOC), International Olympic Committee, FIFA, and others, as apartheid South Africa was.
  3. States Parties to the International Criminal Court (ICC) must pressure the Prosecutor to swiftly advance investigation into all war crimes, crimes against humanity and acts of genocide carried out by Israeli perpetrators against the Palestinian people, and to immediately issue arrest warrants for the case files before the Court since 2014.
  4. Arrest and prosecute, including by applying Universal Jurisdiction, Israeli officials who have carried out genocidal acts against Palestinians, incited genocide, or supported it.
  5. Ensure that corporate entities and institutions domiciled in their territory or under their jurisdiction cease and desist from supporting Israel’s genocide and other crimes under international law, including apartheid, and hold them accountable for any complicity.
  6. Join the large and increasing number of states in the Global South supporting South Africa’s genocide case against Israel at the ICJ.

Since 2020, Palestinian civil society has demanded:

  1. Support efforts at the UN to reconstitute the UN Special Committee against Apartheid and the UN Centre against Apartheid to investigate Israeli apartheid.
  2. Investigate and prosecuting individuals and corporate actors responsible for war crimes/crimes against humanity in the context of Israel’s regime of illegal occupation and apartheid.
  3. Ban arms trade and military-security cooperation with Israel.
  4. Suspend trade and cooperation agreements with Israel.
  5. Prohibit trade with the illegal Israeli settlements and terminating corporate business with Israel’s illegal settlement enterprise.
 
La fiducia nelle istituzioni e i dividendi di guerra

‘La morte dell’Occidente non ci ha privato proprio di nulla di vivo e essenziale e la nostalgia è quindi fuori questione.’ (Giorgio Agamben)

Anche se quasi nessuno lo vuole ammettere, il nostro “sistema” è obsoleto, e per questo si sta trasformando in “sistema chiuso”, ovvero totalitario. È altrettanto evidente che i pochi che continuano a trarre vantaggio materiale dal sistema capitalistico – il famigerato 0,1% – sono disposti a tutto pur di prolungarne l’obsoleta esistenza. Alla radice, il capitalismo contemporaneo funziona in modo molto semplice: si emette debito da una porta e lo si riacquista da un’altra grazie all’emissione di nuovo debito; un loop all’apparenza inattaccabile da cui origina la maggior parte dei fenomeni distruttivi con cui ci troviamo a convivere.

Gli esecutori del meccanismo sono una classe di funzionari-profittatori il cui principale tratto psicologico è la psicopatia. Sono talmente devoti al meccanismo da esserne diventati delle estensioni – come automi, lavorano indefessamente per il meccanismo, senza rimorso alcuno per la devastazione di vita umana che dispensa. La dimensione psicopatica (disinibita, manipolatoria, e criminosamente antisociale) non è però una prerogativa esclusiva della cricca finanziaria transnazionale, ma si estende a macchia d’olio sia sulla casta politico-istituzionale (dai vertici dei governi agli amministratori locali), che sull’apparato cosiddetto intellettuale (esperti, giornalisti, scrittori, filosofi, artisti, nani e ballerine). In altre parole, la mediazione politico-culturale della realtà è oggi interamente mediata dal meccanismo stesso. Chi entra nel sistema non solo deve aprioristicamente accettarne le regole ma, ipso facto, ne assume lo specifico carattere psicopatologico. Così, la folle oggettività capitalistica (il suo spietato congegno riproduttivo) diventa indistinguibile dal soggetto che lo rappresenta.

Proprio in virtù del disturbo della personalità che li contraddistingue, i tecnocrati tendono a sovrastimare la loro capacità di imporre un sistema chiuso e autosufficiente che possa esorcizzare il tramonto della socializzazione capitalistica. La tragica farsa pandemica prima, e ora il vento gelido del warfare permanente, mettono a dura prova la fiducia incondizionata del cittadino medio nelle care vecchie istituzioni rappresentative. Se è stato relativamente facile silenziare dubbi e dissenso a colpi di “lockdown umanitari” e DPCM – grazie ai quali la classe politica più opportunistica della storia moderna si è rifatta una breve verginità – la complicità nel genocidio di Gaza e, in contemporanea, l’affannosa costruzione neomaccartista del “fronte democratico contro il mostro russo”, con annessa corsa al riarmo, cominciano a minare le certezze della silent majority. ‘Produrre armi come i vaccini!’ tuona ora Ursula von der Leyen (involontariamente dicendo il vero sulla funzione di entrambi); mentre a Fantozzi comincia a salire un leggerissimo sospetto.

Nel nuovo totalitarismo in fieri, la realtà non entra nei giornali o in televisione. Prende il suo posto l’iperreale teorizzato da Jean Baudrillard, che non è né reale né finzione, ma il contenitore narrativo che ha sostituito entrambi. Così la pulizia etnica di Gaza avanza a pieno regime nell’iperreale di accorati distinguo e telegeniche perorazioni contro tutti gli estremismi, per poi defluire nelle balle spaziali dell’imminente cyberattacco nucleare russo, condite in salsa piccante dall’omicidio politico del dissidente (xenofobo e ultranazionalista) Alexej Navalny. Senza fare un plissé, chi accusa di complottismo diventa complottista. La centrifuga di informazioni e intrattenimento induce un’ipnosi collettiva che si rivela più efficace della tradizionale censura, poiché elimina ex ante la richiesta di un referente reale, con il suo portato di radicale ambiguità.

L’iper-mediazione del mondo, in altri termini, ambisce a costituirsi come unico mondo di riferimento. Gli eventi narrati dai media corporativi non vengono più pensati come altro dalla narrazione, perché, nel capovolgimento iperreale, è la narrazione stessa che pensa il soggetto. Così l’informazione massmediatica s’impone come infinito spettacolo autoreferenziale che mira a sterilizzare ogni pensiero critico. Il dibattito ufficiale su Gaza o Ucraina, per esempio, si trasforma in dibattito sul dibattito stesso, gestito da schemi binari confezionati a monte (democrazia/terrorismo, ecc.). Questa tendenza a liquidare il referente dev’essere intesa in senso etimologico come tendenza a renderlo liquido. Essa si è imposta, storicamente, come conseguenza di un processo di virtualizzazione economica basato sulla sostituzione della profittabilità del lavoro salariato (valorizzazione reale) con la profittabilità simulata del capitale speculativo.

Viviamo in un mondo in cui i listini dei mercati azionari di Giappone e Regno Unito raggiungono i massimi storici in concomitanza con l’entrata in recessione ufficiale delle loro economie; mentre gli Stati Uniti salvano le apparenze grazie a un debito monstre protetto dall’egemonia monetaria del dollaro quale riserva globale. Al netto dell’inevitabile tonfo o drastica correzione prossimi venturi, il grande party (con pochi invitati) dei mercati è frutto di giochi di prestigio degni del mago Otelma. È su questo falsopiano che dovremmo collocare l’attuale euforia bellica. Il collasso delle società del lavoro occidentali fa sì che la produzione militare per “impegni di sicurezza a lungo termine” sia ormai supporto imprescindibile di PIL sempre più mosci. Il 64% dei 60.7 miliardi di dollari destinati all’Ucraina nell’ultimo pacchetto di aiuti, per esempio, verranno assorbiti dall’industria militare USA. La fonte non è la TASS ma il Wall Street Journal, che sottolinea inoltre come dall’inizio del conflitto russo-ucraino la produzione industriale statunitense nel settore della difesa sia aumentata del 17,5%.

Ma, soprattutto, l’eccitazione tecno-militar-industriale continua a soffiare nelle vele di un settore finanziario palesemente ipertrofico, gonfiato a dismisura dell’AI mania dell’ultima ora – la frenesia speculativa nel campo dell’intelligenza artificiale. L’attuale bolla dell’S&P 500 (indice che traccia l’andamento delle azioni di 500 tra le più grandi società quotate nelle borse statunitensi) è frutto dalla sopravvalutazione isterica di un pugno di potentati tech, le cosiddette Magnificent Seven (Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Nvidia e Tesla; oggi peraltro ridotte a “magnifiche due”, Nvidia e Meta). Questo forte squilibrio ricorda da vicino la bolla tecnologica di fine secolo scorso, quando l’entusiasmo legato all’avvento di internet portò alla sopravvalutazione di Microsoft, Cisco, Amazon, eBay, Qualcomm ecc. Se è vero che queste aziende salvarono la pelle, moltissime start-up furono spazzate via dall’esplosione della bolla dot.com. In breve, il mondo clamorosamente sollevato dalla leva dell’intelligenza artificiale (poco intelligente perché poco artificiale, diceva Baudrillard) farebbe meglio a prepararsi a un botto altrettanto clamoroso.

Teniamo presente che il rischio oggi è infinitamente più alto rispetto a venticinque anni fa. Nel frattempo, infatti, siamo entrati a tutti gli effetti in un contesto globale che è ostaggio della creazione di liquidità dal nulla (e relativi capri espiatori), finalizzata a rifinanziare la massa di debito in essere su cui si reggono deficit statali e bolle speculative popolate da miriadi di aziende zombie. Un crollo dell’azionario di circa l’80%, come quello del dot.com a fine 2000, equivarrebbe ora a una raffica di esplosioni atomiche, metaforiche e non solo. Perché la psicopatia bellica targata USA-NATO-UE è, in ultima istanza, un’estensione della psicopatia finanziaria: la conseguenza reale di un rischio speculativo ormai fuori controllo. Bombe e cannoni sono il cerbero messo a guardia di un capitalismo che nella sua accezione tradizionale, cui ancora tendiamo ingenuamente a far fede (il fantastico mondo del lavoro, del consumo, della crescita, e del progresso), è morto e giace sepolto da almeno un paio di decenni.

Ecco allora che l’obiettivo non dichiarato degli USA (e vassalli) è mantenere l’egemonia militare sia in quanto spina dorsale di quella monetaria (dollaro come riserva globale) che a protezione di un ammasso di debito tossico già virtualmente insostenibile. In questo senso non stupisce affatto che il primo ministro estone, Kaja Kallas, invochi per l’UE la medesima strategia monetaria attuata durante il Covid: l’emissione di 100 miliardi in eurobond (rispetto ai 750 mobilitati per il Coronabond) al fine di rilanciare l’industria militare europea in attesa delle invasioni barbariche. Fare debito per fronteggiare “emergenze apocalittiche,” debitamente impacchettate dai media, è il modello economico da ultima spiaggia del capitalismo di crisi. Il limite interno (collasso del modo di produzione) viene subdolamente denegato attraverso la sua proiezione esterna, incarnata da provvidenziali nemici assetati di sangue democratico. Il war bond, insomma, fa da baluardo fiscale a un “mondo” in piena fase implosiva.

La corsa al finanziamento per il riarmo è iniziata un po’ ovunque. In Gran Bretagna il generale Patrick Sanders, capo dell’esercito di Sua Maestà, invoca un massiccio reclutamento di cittadini da mandare al fronte (ovviamente russo), mentre il nuovo ministro della Difesa, Grant Schapps, non prova neppure a dissimulare l’opportunismo economico legato all’impegno militare:

‘L’era dei dividendi di pace è finita. Tra cinque anni potremmo trovarci davanti a numerosi teatri di guerra in Russia, Cina, Iran e Corea del Nord. […] Per prima cosa, dobbiamo rendere la nostra industria più resiliente affinché ci permetta di riarmarci, rifornirci e innovare più rapidamente dei nostri nemici. Qui c’è un’enorme opportunità per l’industria britannica. Il Regno Unito è da tempo sinonimo di tecnologie pionieristiche. Abbiamo dato al mondo il radar, il motore a reazione e il world wide web. Non abbiamo perso quella scintilla creativa. Al contrario, oggi il Regno Unito è una delle sole tre economie tecnologiche da mille miliardi di dollari. Ma immaginate cosa potremmo fare se riuscissimo a sfruttare meglio quell’ispirazione, ingegnosità e creatività latenti, per la difesa della nostra nazione?’

Istruiti a puntino come ai tempi del Covid, i tecnocrati EU leggono dallo stesso copione. Come i bambini all’asilo ripetono all’unisono la filastrocca del ‘prepariamoci alla guerra.’ Se Germania, Polonia e paesi baltici hanno alacremente accelerato la propaganda bellica, persino in Austria (paese fuori dalla NATO) e Svezia (tradizionalmente neutrale) la politica vuole mettere l’elmetto ai cittadini. E per non sentirsi da meno, il ministro Guido Crosetto fa sapere che occorre predisporre un esercito di 10mila riservisti.

La crociata antirussa ci proietta dunque in un’epoca caratterizzata da crescente indebitamento militare per il monopolio sulla violenza nei teatri di guerra che, proprio perché legati alla deriva economico-finanziaria, non devono mai venir meno (come disse Julian Assange nel 2011 in riferimento alla guerra in Afghanistan, ‘l’obiettivo è una guerra senza fine, non una guerra di successo’). Ciò comporta decadenza socioeconomica e culturale, intensificazione del controllo dell’informazione, repressione del dissenso, e manipolazione coercitiva delle plebi impoverite. Plebi, per giunta, costrette a sorbirsi l’esibizione cabarettistica di un ex comico ora “leader della resistenza” che gira mezzo mondo mendicando armi e denaro per spedire al macello una generazione di compatrioti. Ma saremmo degli illusi, oltre che degli idioti, a credere di poter comodamente assistere alla tragicomica messinscena del “nobile impegno militare” come se fosse una serie Netflix, magari lavandoci la coscienza con qualche generico slogan pacifista. Perché più il modello del capitalismo finanziario vacilla, più chi continua a spremerlo non esiterà a sacrificare sotto “bombe giuste” non solo i “dannati della terra e i forzati della fame” di cui scriveva Franz Fanon (popolazioni, come quella palestinese, da tempo relegate a condizione di subumana miseria e sopruso); ma anche i placidi abitanti del mondo di sopra, di cui i potenti hanno una considerazione pari a quella di una mandria di bovini pascolanti con lo smartphone a un dito dal naso.

Per chi insiste a rovistare tra i bidoni di spazzatura in cui è stata esiliata la realtà, unire i puntini diventa un giochetto da ragazzi. L’“all’armi!” permanente (contro Virus, Putin, Hamas, Houti, Iran, alieni, e tutti i cattivi a venire) funziona da disperato oltreché criminale parafulmine per una logica economica fallimentare in balia della propria degenerazione finanziaria; che a sua volta dipende da incessanti somministrazioni di credito partorito dai computer delle Banche Centrali. La drammaturgia emergenziale dev’essere continuamente rilanciata, pena l’esplosione del pallone aerostatico su cui viaggia la logora e sempre più incivile civiltà del profitto. Perché la profittabilità del casinò finanziario, che ha sostituito la profittabilità del lavoro di massa, è in perenne debito d’ossigeno – e questo è il punto dirimente. Chi ancora non ha rinunciato a pensare sa che l’allarme, quello vero, è suonato da tempo.

Finito il metadone monetario garantito dalla psico-pandemia, i nodi stanno nuovamente arrivando al pettine. Gli equilibrismi di politica monetaria (relativi ai tassi di interesse) dei banchieri centrali rischiano un tragicomico flop, specie se, come sembra, a metà marzo verrà meno il combinato di reverse repo della Fed (che drena liquidità e funge da indicatore primario delle riserve bancarie complessive) e il BTFP (Bank Term Funding Program, programma di prestiti emergenziali creato dalla banca centrale USA nel marzo 2023 per far fronte alla crisi bancaria innescata dal fallimento di Silicon Valley Bank). Come nel settembre 2019, a rischiare il bagno di sangue sarebbero in primis i mercati del debito. Qui è d’obbligo far notare che i prestiti delle banche tradizionali allo shadow banking system (il sistema finanziario ombra, poco regolamentato e frequentato da fondi pensione, assicurazioni, hedge funds, asset manager, ecc.) ha recentemente superato la soglia record del trilione di dollari. Le società “a leva finanziaria”, destinatarie dei prestiti, li investono sotto forma di credito a soggetti sempre più rischiosi. Questo aumento del leverage nel sistema ombra, già al centro della crisi del 2008, è, evidentemente, indice di crescente volatilità sistemica. Secondo i dati del Financial Stability Board (Autorità di Vigilanza USA) a oggi gli attivi dello shadow banking sono pari a 218 trilioni di dollari, circa il 50% degli asset finanziari globali. Si tratta principalmente di cartolarizzazioni ad alta leva finanziaria e pronti contro termine (repo). Come anticipato, l’essenza dell’odierno sistema finanziario è proprio la catena di debito strutturato in altro debito: una fuga in avanti di speculazioni a base debitoria prive di sottostante reale. La fragilità di questo meccanismo è intrinseca, perché basta l’insolvenza di un player per far crollare l’intera piramide, innescando poi un contagio su larga scala. Per questo motivo il castello di carta (costruito su una pozza di benzina) è perennemente assetato di liquidità. Ecco allora che la profezia viene facile: in un contesto già dominato da un QT (riduzione del bilancio della banca centrale) sostanzialmente fasullo, perché reso possibile da programmi emergenziali a termine come il BTFT, la Fed (e consorelle) avrà presto bisogno di nuove grandi emergenze per tagliare i tassi d’interesse e iniettare liquidità fresca di conio nel sistema che le gravita attorno.

È interessante osservare come le istituzioni governative occidentali, anche quando aspramente criticate per scarsa propensione deontologica, vengano raffigurate dai media come in un quadro dell’alto medioevo: senza contesto. Esistono eo ipso, in una sorta di cornice metafisica autoreferenziale che le immunizza dal rapporto con la realtà. Se singolarmente i politici possono essere esposti al pubblico ludibrio, l’istituzione in quanto tale (teoricamente preposta allo svolgimento di compiti di interesse pubblico) è intoccabile, essendo manifestazione del vertice assoluto nella scala dei “migliori mondi possibili”. Eppure, oggi basta collegare i proverbiali due neuroni per capire che il carattere quasi sacrale conferito all’istituzione liberal-democratica ha come unico scopo offuscare la sua totale dipendenza dai movimenti sussultori del capitale finanziario.

La classe media occidentale è prigioniera del proprio passato, convinta che il capitalismo social-liberal-democratico del dopoguerra sia un modello di organizzazione sociale non solo fondamentalmente giusto, ma anche eterno e inscalfibile. Questa illusione ottica, che ha fin qui comportato una fiducia pressoché incondizionata nelle istituzioni (anche quando aspramente criticate), è comprensibile: la classe media occidentale, o aspirante tale (piccola borghesia, proletariato socialdemocratico, ecc.), è stata per qualche decennio oggetto delle più amorevoli attenzioni del grande capitale organizzato attorno al lavoro e al consumo di massa. I capitali privati hanno plasmato e insieme sfruttato un mondo del lavoro fabbricato sullo “standard ideale” (medio, appunto) del consumatore gratificato dal sogno dell’arrampicata sociale, che si è illuso di essere ontologicamente rilevante ma che in realtà è stato comprato da quattro lire peraltro insanguinate (perché il boom del dopoguerra fu figlio della “distruzione creativa” di due guerre mondiali). Ma il punto è che quel mondo – o, se si preferisce, l’illusione di quel mondo – è durato una trentina d’anni (e solo per l’Occidente), che sono il battito d’ali di un colibrì rispetto alla storia secolare di un modo di produzione che, per dirla con Marx, ‘viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro’.

La nebbia di guerra in cui ora ci siamo nuovamente persi nasconde alla vista il reale oggetto del contendere: non il nemico da combattere ma la dipendenza tossica dal pusher che mantiene in vita artificiale l’illusione madre di tutta la modernità: l’illusione, cioè, che il capitale (l’ossessione per il profitto come irragionevole “ragione di vita”) ingeneri spontaneamente un legame sociale civilizzatore. La civiltà cui mi riferisco è la stessa che oggi giustifica lo sterminio dei palestinesi; sterminio tanto più atroce quanto più conforme alla matrice razzistica di un “modello di sviluppo” che ha costruito i suoi nobili valori sulla distruzione di chi non vi si conforma – in specie, la figura del povero, che da sempre testimonia, con la sua dolorosa diversità, il fallimento della stessa socializzazione capitalistica. Le nostre nobili istituzioni sono quelle che, agendo come psicotici sicari per conto del grande capitale, partecipano allo sterminio degli “animali umani” palestinesi. È ancora possibile averne fiducia?


La fiducia nelle istituzioni e i dividendi di guerra | La Fionda
 
La guerra (non dichiarata) tra Stati Uniti e Europa

Il detto latino “dagli amici mi guardi Iddio…”, è stato applicato alla geopolitica odierna da Henry Kissinger con la famosa battuta “Essere nemici degli Stati Uniti può essere pericoloso, ma esserne amici è fatale”.

Ed è proprio così che può essere definito l’attuale rapporto tra gli USA e l’Europa.

Dentro lo scontro palese con l’Ucraina alberga infatti, un conflitto non dichiarato ma, appunto, fatale che vede l’Europa soccombere alla prepotenza d’oltreatlantico con danni immensi e di lungo periodo alla sua economia e alla sua popolazione.

Nessuno parla dei veri termini della questione dei rifornimenti di energia. Troverete centinaia di articoli su quanto siamo stati bravi a ridurre le importazioni di gas e petrolio dalla Russia dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, senza che quasi alcuno di essi parli dei folli prezzi della bolletta energetica, che sono il costo vero della guerra.

Pressando l’Ucraina a combattere invece di concludere un accordo già quasi negoziato dopo poche settimane dallo scoppio delle ostilità, spingendo gli alleati europei verso sanzioni estreme contro Mosca, e distruggendo il gasdotto Nord Stream nel settembre 2022, gli Stati Uniti si sono assicurati il primo posto tra gli esportatori di gas liquefatto verso l’Europa e verso il mondo. L’Europa è divenuta la prima destinazione del loro petrolio: 1,8 milioni di barili al giorno contro 1,7 verso l’Asia e l’Oceania.

Tutto ciò a prezzi tripli e quadrupli rispetto a quelli pagati da Bruxelles prima della guerra. Grazie ad un contratto-capestro tra Biden e la von der Leyen, ci siamo impegnati ad importare dagli USA gran parte del gas che prima ricevevamo dalla Russia, pagandolo 4,5 volte il prezzo cui viene venduto negli Stati Uniti. Da qui le patetiche richieste della Meloni a Biden di uno sconto in nome delle industrie italiane ad alto consumo di energia che vanno in malora per via dei costi insostenibili delle produzioni.

È stato lo stesso Mario Draghi, in un impeto di lucidità, a definire le conseguenze disastrose di questa impennata dei prezzi dell’energia sul futuro della stessa Unione europea, che rischia secondo lui di crollare per tornare ad essere “un semplice mercato”.

I costi di produzione di tutte le merci del nostro continente sono di colpo cresciuti, in parallelo all’aumento di competitività dell’economia americana. La Germania è il paese che ha pagato più degli altri, data la sua dipendenza dalla produzione e dall’esportazione di prodotti manifatturati. La mitica Germania si è trovata perciò a diventare la nazione con la peggiore performance tra tutte le economie avanzate: PIL a -0,3% nel 2023-24. Mentre il Fondo monetario prevede una quasi stagnazione dell’economia dell’eurozona (+0,9%) nel 2024, contro un +2,6% della Russia.

Pino Arlacchi - La guerra (non dichiarata) tra Stati Uniti e Europa]
 

Esplosione in una base militare in Iraq, un morto e 8 feriti​

La struttura ospita truppe dell'esercito ed ex paramilitari filoiraniani. Nessun aereo o drone in zona. Usa e Israele negano ogni responsabilità

Il punto della situazione

Una forte esplosione ha scosso durante la notte scorsa una base militare che ospita truppe dell'esercito ed ex paramilitari filoiraniani di Hachd al-Chaabi a Calso, a circa 20 chilometri a sud di Baghdad.
Fonti della sicurezza irachena hanno informato che l'esplosione ha lasciato un bilancio di "un morto e otto feriti" tra le forze della base.

Le stesse fonti spiegano che finora i responsabili della base non sono riusciti ad identificare i responsabili del fatto e successivamente il governo iracheno ha affermato che al momento dell'esplosione non c'erano droni o aerei in volo. Citando "un rapporto del comando della difesa aerea" e l'ispezione dei radar, le forze di sicurezza hanno assicurato che "non c'erano droni o aerei da combattimento nello spazio aereo del governatorato di Babil prima o durante l'esplosione".

Israele non è coinvolta nelle notizie di esplosioni in Iraq, hanno detto fonti ufficiali alla Cnn. E, da parte loro, le forze del Comando Centrale degli Stati Uniti hanno spiegato su X che "gli Stati Uniti non hanno condotto raid aerei in Iraq oggi". In un breve post, il Centcom ha spiegato di essere a conoscenza di "rapporti secondo i quali gli Usa avrebbero condotto attacchi in Iraq". "Queste informazioni sono false", aggiunge il Comando.

Anche così, però, la Resistenza Islamica in Iraq - in un video diffuso sui social - ha annunciato di aver lanciato alcuni droni contro "un obiettivo vitale" a Eliat, nel sud di Israele, al confine tra Egitto e Giordania.

"L'attacco - afferma il gruppo che riunisce una serie di forze irachene filo-raniane - è la risposta alla violazione della sovranità irachena da parte del nemico sionista e al suo attacco contro le Forze di Mobilitazione Popolare irachene (Pmf)".

Nel frattempo, a Gaza almeno 10 persone, tra cui sei bambini, sono state uccise in attacchi aerei notturni contro la
città di Rafah, nel sud della Striscia . Aerei da guerra israeliani hanno preso di mira una casa appartenente alla famiglia Radwan, nel quartiere Tal Al-Sultan, provocando la morte di nove persone, tra cui sei bambini e donne. Contemporaneamente, un civile è rimasto ucciso nel bombardamento di una casa a est della città di Rafah.

Esplosione in una base militare in Iraq, un morto e 8 feriti - Notizie - Ansa.it
 
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