Quanto ricevuto oggi dall'amico Antonio Barrese.
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Open source_Arte cinetica_mercato dell'arte
Antonio Barrese
In informatica, il termine inglese open source (che significa sorgente aperta) indica un software di cui gli autori (più precisamente, i detentori dei diritti) rendono pubblico il codice sorgente, favorendone il libero studio e permettendo a programmatori indipendenti di apportarvi modifiche ed estensioni. Questa possibilità è regolata tramite l'applicazione di apposite licenze d'uso.
Il fenomeno ha tratto grande beneficio da Internet, perché esso permette a programmatori distanti di coordinarsi e lavorare allo stesso progetto.
Alla filosofia del movimento open source si ispira il movimento open content (contenuti aperti): in questo caso, ad essere liberamente disponibile non è il codice sorgente di un software, ma contenuti editoriali quali testi, immagini, video e musica ... Attualmente, l'open source tende ad assumere rilievo filosofico, consistendo in una nuova concezione della vita, aperta e refrattaria ad ogni oscurantismo, che l'open source si propone di superare mediante la condivisione della conoscenza.
(Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.)
Provate a sostituire alla terminologia informatica il linguaggio dell’arte e capirete immediatamente l’autentica natura dell’Arte cinetica, e la sua potenza anticipatrice e poetica.
È facile prevedere che questa introduzione non sia gradita ai collezionisti, per motivi più che evidenti. Desidero tranquillizzarli: non bisogna confondere la teoria con le necessità pratiche... Anche cose “poeticamente” proposte come Bene comune, sono oggetti concreti a disposizione di chi desidera acquistarli.
In questi giorni, uno dei maggiori collezionisti italiani di arte moderna e contemporanea, sta mettendo in asta una ventina di opere del Gruppo MID.
Questa circostanza riapre lo spinoso problema che già ho trattato un paio di anni fa in un articolo citato da tutti coloro che hanno interesse per il nostro lavoro (“Autenticità e datazione delle opere. Parla il Gruppo MID”. Artribune, 1 agosto 2015 ) nel quale esplicito la mia posizione riguardo a date, storicità e altre cose che interessano a galleristi e collezionisti.
Scrissi quel testo perché mi resi conto che ciò che resta dell’Arte cinetica – e che ne costituisce il mercato – è cosa ben lontana dal pensiero e dai modi degli artisti che dell’Arte cinetica sono stati i protagonisti. Specialmente noi del Gruppo MID eravamo, e siamo, su posizioni diametralmente opposte, come limpidamente dimostrano le nostre istanze poetiche e ideologiche, oltre che le nostre opere. A tali posizioni sarebbe bene si riferissero tutti coloro che in vario modo si interessano al nostro lavoro e a quello del movimento cinetico e di “Nuova tendenza”.
L’Arte cinetica non è morta cinquant’anni fa, lasciando un mesto ricordo e l’eredità di rimasugli e reperti da collezione, da trattare come l’ampolla del sangue di san Gennaro o come le migliaia di schegge della Croce, gli ossicini e le unghie dei santi: cascami anatomici, trasformati in reliquie, proprio come la maggior parte delle opere cinetiche esposte in gallerie, musei e mostre che anticipano le aste.
Il mercato ha, lentamente ma inesorabilmente, tramutato opere concepite e realizzate per essere prototipi e modelli di momenti di ricerca, in “pezzi unici”, quasi fossero prodotti da quei “pittori” per opporsi ai quali l'Arte cinetica è nata.
È opportuno ricordare che negli anni Sessanta i protagonisti dell’Arte cinetica erano tutti giovanissimi (e forse scapestrati, certamente poco attenti alle conseguenze di quel che facevano).
Noi del Gruppo MID eravamo ventenni eccitatissimi e felici di vivere nel decennio più bello che abbia vissuto l’Italia, partecipavamo a centinaia di mostre, vivevamo nell’euforia permanente di una creatività terrificante e meravigliosa, producevamo incessantemente e lavoravamo venti ore al giorno. Facevamo opere su opere, di ogni tipo e dimensione, ci dedicavamo a molte ricerche contemporaneamente: oggetti, ambienti, fotografie, cinematografia, estetica sperimentale. Facevamo e disfacevamo le nostre opere... e poi casse, dogane, presenze alle inaugurazioni.
Non ci siamo mai preoccupati di “firmare” le opere, perlomeno con quelle belle e dichiarative etichette che i collezionisti pretendono e che spesso sono elegantemente e diligentemente riprodotte nei cataloghi ed esibite dai venditori.
Neppure si può pretendere che nutrissimo un amore preventivo per quelli che sarebbero diventati i collezionisti e i futuri acquirenti delle nostre opere, dedicandoci a realizzare e a conservare le opere che cinquant’anni dopo ci avrebbero chiesto.
Tutto questo è umanamente impossibile e, quando qualcuno fa credere che sia stato vero, racconta bugie.
Come dicevo poche righe sopra, il mercato ha preteso di tramutare prototipi e modelli di momenti di ricerca, in “pezzi unici”. Ho scritto “prototipi e modelli” perché i nostri Oggetti e le nostre Strutture erano frammenti non di un’Attività Puntuale (la produzione di pezzi unici realizzati per il mercato), ma di un’Attività Flusso, cioè di una Ricerca incessante.
La continuità del nostro lavoro non consentiva di isolare e di datare le opere, per questo abbiamo deciso di attribuire a quelle che stiamo immettendo nel mercato, una datazione convenzionale, basata non tanto sull’effettivo giorno e anno di realizzazione (che nessuno ricorda o può ricostruire), ma sull’anno di inizio di quel particolare filone di ricerca:
– Generatori stroboscopici: 1965
– Generatore di interferenze: 1966
– Lampeggiatori: 1966
– Generatori di linee traccianti: 1967
– Immagini sintetiche: 1965/1972
– Film sperimentali: 1965/1972
Noi del Gruppo MID non abbiamo mai prodotto per il mercato anche se abbiamo venduto a collezionisti e a musei. Eravamo artisti ideologicamente legati al mondo della scienza, della tecnica, dell’industria, della riproducibilità.
Con molta ingenuità ¬ ma con altrettanta coraggiosa sagacia – auspicavamo un mondo tanto “democratico” da permettere a chiunque lo volesse di riprodurre le nostre opere: anticipavamo, cioè, l’attuale open source.
La fiducia che si nutriva nei confronti di quell’idea di mondo si dilatava in speranze da cui nascevano progetti. Eravamo perfettamente al corrente di come sarebbe stato di lì a pochi anni il mondo e di come sarebbe stato trasformato dall’informatica, dall’automazione e dallo sviluppo mediatico. Non ho timore nell’affermare che il mondo nel quale adesso viviamo (noi, i collezionisti e l’umanità tutta) è stato progettato dalla mia generazione, e modellizzato specialmente dall’Arte cinetica.
Anche il nostro modello economico era diverso da quello degli artisti contemporanei. Non abbiamo mai voluto avere come unici interlocutori i collezionisti, persone che ancor oggi ci rinfacciano di essere loro a permettere la vita degli artisti e a pagare il manifestarsi dell’arte (sic). Certamente anche noi abbiamo venduto a collezionisti e a musei, ma in genere guadagnavamo con le sponsorizzazioni (Philips, Osram, Ferrania, 3M, Ideal Standard, Acciaierie Falk, Pierrel, Sandoz, Mondadori Le scienze e altri) e col lavoro di design, che consideravamo essere la stessa cosa dell’Arte, tant’è che teorizzai la completa identità tra Arte e Progetto.
In questo siamo stati ben più innovativi di chiunque altro, e lo rivendico.
Inoltre bisognerebbe che chi è interessato a capire cosa sia stata l’Arte cinetica e l’Arte programmata italiana, anche negli aspetti economici e nel modello di produzione della ricchezza che essa prefigurava, si rendesse conto di cosa fosse l’Italia e Milano in quegli anni e che si sforzassero di capire il profondissimo rapporto esistente tra arte e design...
Bisognerebbe anche avere la dignità e il rispetto di non omologare ai miseri interessi del mercato quella che è stata la più grande forma di pensiero del Novecento e rispettare la profonda diversità che l’Arte cinetica dimostrò nei confronti dell’arte precedente, contemporanea e successiva.
L’Arte cinetica non era come il mercato sta cercando di far credere, non era merce da collezione e nessun artista (perlomeno i migliori) si è mai dedicato alla produzione di souvenir.
Il mercato – adeguandosi alla banale logica di spaccio di quadretti a olio da appendere in anticamera tra un’applique e il ritratto della nonna – ha cancellato l’Arte cinetica.
L’alibi è ricco e articolato, e tutto basato sulla negazione delle caratteristiche distintive dell’ Arte cinetica, che diventa così colpevole di essere quella che è:
– raramente può essere appesa al muro,
– spesso necessita di alimentazione elettrica,
– predilige l’ombra o il buio,
– dev’essere manipolata prestandosi all’usura e al guasto,
– richiede adeguamenti, pesanti restauri. Rifacimenti e sostituzione di parti.
– le opere motorizzate o luminose (che sono le più tipiche rappresentanti del cinetismo) per essere esposte nei musei o nei luoghi pubblici italiani e non, devono essere adeguate alle normative vigenti riguardo la componentistica elettrica (cosa che rende necessaria la tanto vituperata sostituzione di cavi e spine).
– eccetera.
Tutto questo ha condotto i collezionisti a preferire le opere di artisti minori, che furono solo tangenti al main stream dei protagonisti più significativi, opere statiche che non presentano inconvenienti e che sono più adatte ai desideri di collezionisti.
Il mercato opportunisticamente crede che l’Arte cinetica sia morta alcuni decenni fa, senza lasciare tracce o eredi, ma solo epigoni di secondo e terzo piano. Insomma, chiede solo ciò che non è mai esistito r, siccome non è mai esistito, lo produce esso stesso. Tutto questo all’interno di un sistema di classificazione temporale limitato agli anni Sessanta (con poche eccezioni) che non lascia spazio alle opere di artisti che hanno continuato a produrre anche dopo gli anni Sessanta.
Forse è lecito concludere che il mercato dell’arte si basa su taciti accordi, allo scopo di creare e sostenere valori che tali rimangono fino a quando qualche impertinente non punge il palloncino.
Per quanto riguarda l’Arte cinetica il mercato ha imposto regole ad hoc senza tenere in alcun conto l’identità degli artisti e delle opere, ma basato esclusivamente sul proprio tornaconto e su un modello culturale opposto a quello dell’Arte cinetica.
Ecco i parametri che si devono rispettare se si vuole vendere qualcosa.
— Datazione.
“Storica” o “doppia data”: naturalmente la prima ha maggior valore.
— Componenti sostituiti.
Stabiliscono se un’opera è da considerare storica o rifatta e devono essere limitati entro certe percentuali, peraltro variabili a piacere che, decise dal collezionista, diventano un potente mezzo di contrattazione.
— Tipologia delle opere.
Sono i collezionisti a decidere cosa sia stata l’Arte cinetica. Dev’essere stata fatta di opere simili a quelle dei pittori dell’Ottocento, così la si espone senza noie; basta un chiodo per appenderla al muro.
Peccato che uno dei pilastri dell’Arte cinetica fosse proprio il superamento del quadro, tant’è che le opere erano definite Oggetti. L’Arte cinetica era sperimentazione anche riguardo alle tipologie delle opere (oggetti da terra, ambienti, video, installazioni ecc.).
Solo gli artisti minori realizzavano “quadri” di facile fruizione, oggi preferiti e valorizzati.
Il maggior tradimento elaborato, allo scopo di ridurre l’Arte cinetica a oggetto da collezione, è far credere che il valore risieda nel manufatto, nella scatola o nella superficie usati per manifestare un effetto visivo, come se il valore di un quadro di Picasso risiedesse nella tela e nei tubetti dei colori, e non nella potenza espressiva dell’articolazione formale: un paradosso!
Per questo nei musei si vedono malconci e non funzionanti cadaverini polverosi, proposti come se fossero stati concepiti così, opere cinetiche immobili per guasto mai riparato o per divieto di toccare! Ho visto nostri Dischi stroboscopici, nati per essere attivati dallo spettatore e fatti girare illuminati dalla luce stroboscopica, esposti immobili, senza illuminatore col cartello “Si prega di non toccare”: una meravigliosa opera cinetica declassata a quadretto optical.
Nonostante questo i collezionisti chiedono opere che siano giunte fino ai giorni nostri come gli artisti le anno fatte cinquant’anni prima. Questo è materialmente impossibile.
Come fanno a pretendere che un meccanismo, una serigrafia, elementi incollati, materiali plastici di ogni tipo, superfici metalliche, saldature artigianali, ruotismi, lampadine e minuteria metallica, fili elettrici, spine, verniciature, nastri eccetera possano durare intatti per cinquant’anni? Neppure una Mercedes ne avrebbe la forza!
Insomma, nella stragrande maggioranza dei casi gli stessi collezionisti che hanno codificato le regole dell’autenticità, le tradiscono, acquistando evidenti “falsi” col patto di considerarli autentici.
E pensare che sarebbe facile non cadere in questo tranello. Basterebbe riconoscere che ciò che nell’arte conta e che ne determina il valore, non è il meccanismo, la parte oggettuale, ma il risultato, l’effetto da esso generato (non a caso noi del MID definivamo i nostri oggetti “Generatori”) che può essere fatto e rifatto in ogni momento e da chiunque, senza per ciò perdere il suo valore estetico e di mercato. Quest’ultima affermazione è ancora più valida se a riproporre il proprio lavoro sono gli stessi artisti e non i volgari falsari che hanno inquinato il mercato dell’arte convenzionale.
Ridurre la straordinaria innovazione artistica dell’Arte cinetica a ossessione per il reperto è cosa che riguarda il mercato, non l’Arte cinetica che anzi si opponeva a cose del genere.
Secondo questi parametri di autenticità (basati su criteri adatti alla pittura convenzionale: la “mano”, lo stile, il tipo di pennellata ecc.) tutta l’Arte cinetica sarebbe da considerare falsa!
Per questo, i soliti collezionisti, hanno tacitamente deciso di considerare autentica quella che Arte cinetica non è, cioè le opere simili a quelle della pittura tradizionale: opere ferme e tipologicamente riconducibili al quadro che invece fanno parte di altre poetiche (Op Art, pittura Analitica, post Costruttivisti eccetera).
Se qualcuno volesse ancora sollevare obiezioni, potrei essere ancora più preciso, se non altro perché ho vissuto in prima persona quell’Arte cinetica che oggi fa così fatica a essere accettata per le sue reali intenzioni e identità.
Riguardo le opere che stiamo mettendo in circolazione tramite musei e gallerie (Valmore, Kanalidarte, Denise René e altre) sono relativamente poche e tali resteranno. Chi vuol capire capisca, naturalmente.
Noi, all’epoca, per far fronte alle centinaia di mostre a cui partecipammo nei nostri sette di attività (1965/1972) ne realizzammo molte, che in questi anni stiamo recuperando.
L’Arte cinetica, almeno per noi del Gruppo MID, era ed è:
— un’arte di progetto,
— le opere erano esemplari di un’auspicabile produzione seriale,
— i mezzi e le tecniche usate erano di tipo industriale e perciò ripetibili e moltiplicabili.
Le “opere” (parola che usiamo adesso, per adeguarci allo slang del mercato (allora le chiamavamo “Oggetti” o “Strutture”, secondo la loro dimensione) potevano essere, e furono, manipolate, adattate, trasformate... senza l’ossessione del “pezzo unico e irripetibile”.
Sarebbe più utile capire l’evanescente confine che separa un’opera considerata autentica da una considerata a rifatta se non retrodatata.
A mio parere questa separazione non dovrebbe esistere, perché giustificata da argomenti inconsistenti e per opporsi ai quali l’Arte cinetica è nata.
Noi abbiamo accettato di definire le nostre opere:
— Storiche, quando realizzate negli anni Sessanta e riproposte con gli adeguamenti tecnici necessari alle mutate normative o a rendere presentabile un oggetto restaurando e/o sostituendo entro limiti decisi da noi e non certamente quelli imposti da percentuali decise da chi non sa come sia fatto un oggetto cinetico.
— Doppia data, le opere che, pur essendo realizzate negli anni Sessanta, necessitano di un ripristino radicale (una ventina di anni fa uno dei nostri depositi subì un’alluvione nella quale furono disperse quasi tutte le nostre Strutture e seriamente danneggiati molti oggetti).
Sono a “doppia data”, anche le opere rifatte in anni recenti su modello e progetto degli anni Sessanta.
— Data contemporanea, le opere realizzate dopo gli anni Sessanta, in continuità delle ricerche iniziali. Esse non sono necessariamente firmate da tutti i membri del Gruppo, ma da quelli che le hanno materialmente costruite. Spesso sono firmate solo da uno.
— Data stravagante!. Alcune opere realizzate in tempi recenti riportano date degli anni Sessanta. Questa anomalia è dovuta al fatto che fino a pochi anni fa nessuno era consapevole della problematica della datazione “storica” piuttosto che di quella a “doppia data”. Noi eravamo certi di poter datare 1967 un’opera rifatta nel 2001, perché la poetica dell’Arte cinetica prevede la serialità dell’opera e negava il pezzo unico da trasformare in reperto collezionabile (e mercificato).
Tali poche opere – non più di una decina, credo – sono in circolazione perché acquistate da grandi collezionisti che nulla hanno eccepito, perché anche loro convinti della correttezza di quella datazione concordata con loro.
Per la tranquillità di tutti, assicuro che, man mano che si renderà possibile, rettificheremo la datazione.
Detto questo ho finito, e auguro buon lavoro a tutti.