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La guerra e lo smarrimento Ue: così la Nato si è “ripresa” l’Europa

25 FEBBRAIO 2023
La guerra in Ucraina ha avuto un impatto sensibile sulla politica europea. Il Vecchio Continente è stato infatti tramortito da un conflitto che non solo ha modificato la percezione della Russia, ma che ha anche radicalmente mutato il quadro strategico europeo. Tutto questo ha innescato, rallentato o anche accelerato dei processi che erano già in corso da diversi anni e che hanno riguardato non soltanto l’Europa intesa come insieme di Stati geograficamente presente nel continente, ma anche l’Europa intesa come costruzione comune, e quindi l’Unione europea.

Dalla “morte cerebrale” alla resurrezione​

Per comprendere questo complesso meccanismo politico avviato con l’invasione, va compreso innanzitutto il periodo precedente a essa. Dal punto di vista strategico, il continente europeo arrivava da una fase di profondo ripensamento rispetto alla concezione stessa dell’Alleanza Atlantica. Va ricordato, infatti, che appena pochi mesi prima delle grandi esercitazioni russe al confine con l’Ucraina, il veloce e confusionario ritiro dall’Afghanistan aveva messo ancora più in dubbio la leadership di Joe Biden così come la sinergia tra partner Ue e Nato. Emmanuel Macron aveva definito il blocco euro-atlantico in “morte cerebrale” già dai tempi della guerra in Siria. E nel frattempo, il dibattito sull’autonomia strategica europea (insieme a quello sulla difesa comune) sembrava essere una forma di espressione di desiderio di essere potenza da parte di un’Unione europea che aveva assaggiato una parvenza di unità successivamente al trauma del coronavirus.
Molti Paesi, inoltre, temevano che le richieste di aumento del budget per la Nato fossero eccessive per le proprie casse, esangui da una stagione di profonda crisi economica. Infine, si notavano forti divergenze in seno alla stessa Alleanza sia per i rapporti dei singoli Paesi rispetto alla Russia, da molti vista come un partner imprescindibile, sia per i dossier ritenuti prioritari. Questa contrapposizione interna tra alleati si univa, inoltre, a un complesso sistema di rivalità tra i partner che aveva in qualche modo scalfito la sinergia all’interno dell’Alleanza. I vari blocchi che compongono l’Europa e le singole più importanti potenze hanno sempre gestito in modo molto diverso la politica estera. E questo ha comportato inevitabilmente agende diverse sia nei rapporti con le alleanze di cui si fa parte, sia verso i partner continentali sia nei confronti delle superpotenze.

Dal punto di vista europeo, la scelta di Putin di avviare la sua “operazione militare speciale” ha quindi rappresentato una sorta di vaso di Pandora e allo stesso tempo un cambio di rotta di fondamentale. Sotto il primo aspetto, l’attacco russo all’Ucraina ha palesato quelle “ambiguità” strategiche che da tempo gli Stati Uniti riteneva prioritario ridurre. Washington non ha mai nascosto l’enorme difficoltà nel vedere gli idrocarburi russi arrivare in Europa mentre la Nato costituiva l’ombrello a protezione proprio di un’eventuale escalation con Mosca, né ha mai digerito i rapporti privilegiati di alcune potenze Ue con la Russia in una fase di notevole distanza tra le due superpotenze. E questa concezione era condivisa anche da diversi alleati nella Nato e della stessa Bruxelles.

I limiti dell’Ue​

Contemporaneamente a questi problemi strategici, si univa poi un altro tema, che poi è palesato in modo evidente sin dalle prime fasi dell’escalation tra Russia e Ucraina, e cioè la debolezza strutturale dell’Unione come soggetto politico in grado di incidere sui destini del continente. Va infatti ricordato che, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito avevano continuato a lanciare allarmi sull’invasione ormai prossima negando fondamento alle proposte russe, Francia e Germania, le due “superpotenze” Ue, hanno provato fino all’ultimo a far desistere Putin dai suoi propositi. Macron e Olaf Scholz hanno anche fatto visita al presidente russo a Mosca per cercare di trovare una mediazione, ma il risultato è stato sostanzialmente un nulla di fatto, lasciando anzi intendere che gli Usa erano di fatto stati gli unici a capire la situazione e a evitare di rimanere “appesi” al dialogo con il Cremlino. In quel momento dunque si mostravano due debolezze: quella dei singoli Paesi, incapaci di dialogare con Mosca, e quella dell’Europa intesa nel suo insieme, lacerata da diverse visioni e soprattutto mai considerata davvero come un interlocutore né come un “game changer”.

Ecco dunque che con la guerra in Ucraina, la debolezza di questi soggetti e le diversità di vedute, unita all’inevitabile riconquista di leadership da parte degli Stati Uniti hanno fatto sì che l’Ue, di fatto, uscisse di scena come soggetto capace di incidere. Washington, e con essa la Nato, avevano dimostrato di sapere comprendere prima degli “europei” il destino dell’Ucraina, e la guerra scatenata a febbraio 2022 aveva invece portato a cancellare ogni ipotesi di dialogo e di collaborazione con Mosca.

Questo ha costretto l’Ue e con essa i singoli Paesi a compiere una serie di modifiche ai propri piani. Innanzitutto il dibattito sull’autonomia strategica si è di fatto annullato per via dell’evidente forza diplomatica e bellica rappresentata da Oltreoceano. Il vento atlantico ha surclassato le aspirazioni europeiste e ha rafforzato chi, all’interno dell’Ue, non vi aveva mai creduto: a partire dalla Polonia e dagli altri membri del gruppo di Visegrád fortemente antirussi (a eccezione della sola Ungheria). Lo confermano anche le iniziative militari e politiche sul fronte orientale, che hanno certificato una sorta di cesura tra un passato distensivo e un presente, e probabilmente un futuro, in cui la Nato ha assunto un peso estremamente rilevante sia sotto il profilo infrastrutturale (Trimarium docet) che sotto quello delle nuove forniture militari a tutti i Paesi coinvolti nel sostegno militare all’Ucraina.

Dal punto di vista energetico, le sanzioni contro la Russia e il graduale stop agli accordi sulle forniture hanno inoltre condotto a un enorme cambiamento strategico di tanti Paesi che avevano fatto affidamento, in larga parte, sulle garanzie fornite da Mosca. La modifica delle rotte del gas e del petrolio ha riacceso il dibattito sull’autonomia strategica ma solo in chiave energetica. E, immediatamente dopo lo scoppio della guerra, l’impressione che si è avuta è che l’unica vera carta europea da giocare nel conflitto sarebbe stata quella energetica. Oltre a spezzare l’asse che legava i partner continentali alla Russia, le rotte del gas e del petrolio sono mutate contestualmente a sanzioni e stop alle forniture. I Paesi europei più dipendenti da Mosca hanno modificato – almeno parzialmente – le proprie importazioni, tanti hanno virato sul Gnl e su altri fornitori per colmare il vuoto russo.

l simbolo di tutto questo è quanto avvenuto nel Baltico: la fine del Nord Stream 2, le falle nelle condutture, la virata verso il gas naturale liquefatto di tutti i Paesi della regione e l’attivazione del gasdotto Baltic Pipe dalla Norvegia alla Polonia. Una rivoluzione dell’area che però può essere letta anche come cartina di tornasole di tutto quanto avvenuto in Europa, con nuovi grandi fornitori di gas, nuove rotte e nuove difficili sfide per quanto riguarda il costo dell’energia, soprattutto legato alla stagnazione economica in corso e alla crisi dell’industria (già colpita dalla pandemia, dalle restrizioni e dai problemi alla catena di approvvigionamento).

La supremazia americana​

In tutto questo, il corso della guerra ha anche prodotto due altri processi all’interno dell’Europa. Se infatti tutti i Paesi si sono resi conto dell’importanza ancora fondamentale della Nato rispetto alle aspirazioni continentali, questo ha significato d’altro canto un evidente spostamento del baricentro europeo verso occidente. Un cambiamento che ha reso sempre più chiaro come nessuno degli Stati membri potesse fare più finta di non vedere quanto accaduto in Ucraina ma nemmeno tergiversare sulle richieste di Usa e Nato, oltre che di Kiev. I tentennamenti, pur con vari negoziati, si sono sempre risolti nel graduale e progressivo sostegno militare all’esercito ucraino, e lo conferma anche la decisione di inviare i carri armati alle truppe di Volodymyr Zelensky nonostante all’inizio vi fossero addirittura dubbi se inviare o meno semplici mezzi per evitare l’escalation con Mosca. La trattativa tra Scholz e Biden per l’invio dei Leopard è stata in questo senso esemplare.

Infine, un secondo processo è stato di fatto l’esautoramento delle forze europee come interlocutori per la Russia o come eventuali mediatori. Al netto della volontà delle parti in guerra di giungere a un negoziato – cosa che al momento appare molto remota – va sottolineato che tutti i Paesi che si sono proposti di intercedere tra Kiev e Mosca e che hanno agito come potenziali ponti anche nei confronti del Cremlino sono sempre stati esterni all’Ue. Escludendo l’Ungheria di Viktor Orban, che non ha mai avuto un ruolo realmente da protagonista, gli unici Stati a svolgere un ruolo riconosciuto in qualche modo anche dallo stesso Putin sono stati Israele, Turchia, Città del Vaticano, India o al limite la Cina.

L’Unione europea, schierata apertamente a favore dell’Ucraina, si è di fatto inevitabilmente posta in una posizione di piena sintonia con gli Stati Uniti, rendendo in sostanza la Nato il vero contenitore della strategia europea. I singoli Stati membri, per errori, ambiguità, inadeguatezza o anche semplicemente per difficoltà oggettive nel parlare con la Russia, non hanno mostrato alcun tipo di reale peso diplomatico. Lo confermano le inutili, lunghissime ed estenuanti telefonate di Macron con Putin, così come in vani tentativi di Scholz, su cui pesa anche la pensate (e criticata) eredità merkeliana. E anche il fatto di dipendere dall’esterno sotto il profilo energetico, prima con la Russia e poi con altri partner, si è tradotto in un pesante fardello diplomatico, tagliando larga parte dell’autonomia rimanendo invece in balia dell’evoluzione bellica.
 
Primo anniversario della guerra....

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La guerra in Ucraina inizia il 24 febbraio 2022. Le operazioni militari vengono avviate dalla Russia subito dopo un discorso, trasmesso alla Tv di Stato poco prima dell’alba, pronunciato dal presidente russo Vladimir Putin. È il secondo importante discorso tenuto in quei giorni. Il primo, trasmesso la sera del 21 febbraio, viene visto come vero preambolo del conflitto per via della comunicazione della scelta di riconoscere le due repubbliche separatiste filorusse di Donetsk e Lugansk.

Le due entità cioè sorte nel 2014, a seguito dell’arrivo a Kiev di un governo filo occidentale dopo la rivolta di Euromaidan. I separatisti controllano porzioni della regione nota con il nome di Donbass, lì dove la maggior parte della popolazione viene segnalata come russofona. I disordini del 2014 sono parzialmente frenati dagli accordi di Minsk, siglati tra il 2014 e il 2015. Con quel documento, Mosca e Kiev si impegnano nel far rispettare il cessate il fuoco e a lavorare per la creazione di un’Ucraina federale, dove il Donbass è destinato ad avere maggiore autonomia. Con il riconoscimento delle due repubbliche, la Russia rompe la linea tracciata dagli accordi di Minsk. E tre giorni dopo, rispondendo a formali richieste di aiuto da parte di Donetsk e Lugansk, inizia l’operazione militare contro l’Ucraina.

Ore 5:51 del 24 febbraio: Mosca annuncia l’avvio dell’operazione militare​

Il 23 febbraio, nel cuore della tarda serata, arriva la richiesta ufficiale, da parte delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, di aiuto alla Russia. I due governi riconosciuti dal Cremlino, in stato di emergenza già dal 17 febbraio, dichiarano di temere un attacco ucraino. Si inizia a capire a livello internazionale che il conto alla rovescia prima dell’attacco russo è prossimo allo zero.

Sono le ore 3:51 del 24 febbraio in Italia, le 5:51 a Mosca, quando Vladimir Putin ricompare in tv. Lo scenario è lo stesso del discorso del 21 febbraio, per molti la televisione russa sta solo trasmettendo un altro stralcio del video registrato pochi giorni prima. Uno stralcio però destinato a cambiare la storia. Putin infatti annuncia ufficialmente di aver iniziato un’operazione militare in Ucraina, volta a preservare la sicurezza della popolazione russofona del Donbass.

Ma negli obiettivi si spinge anche oltre: il presidente russo parla anche di demilitarizzazionee soprattutto “denazificazione” dell’Ucraina. Ammonendo l’occidente di non intromettersi, pena “una risposta ancora mai vista nella storia”. Mentre Putin è in onda, a Kiev si sentono le prime esplosioni. La città non comprende subito di essere in guerra: fino alla prima mattinata del 24 febbraio il traffico è ancora intenso, gli uffici sono aperti. Il suono delle sirene antiaeree riporta tutti alla realtà. Il conflitto è appena iniziato.

Le prime operazioni via terra​

Le prime immagini che arrivano dall’Ucraina mostrano soprattutto dei bombardamenti. Vengono attuati a Kiev, a Kharkiv, a Odessa, a Mariupol, persino a Leopoli, principale città della parte occidentale del Paese, lontana geograficamente e non solo dal Donbass. Video ufficiali russi, ma anche video amatoriali ucraini mostrano le esplosioni e le deflagrazioni provocate dai raid. Anche i giornalisti presenti in Ucraina annotano i continui allarmi aerei e la presenza di mezzi russi sui cieli del Paese.

Ma dopo le prime luci dell’alba si capisce subito che l’operazione russa non è solo aerea. Il ministero della Difesa ucraino denuncia l’ingresso di truppe russe dal confine con la Bielorussia, dalle frontiere orientali e dalla Crimea. Un attacco a tutto tondo quindi da nord, da est e da sud. Si parla anche di un possibile sbarco anfibio a Odessa e Mariupol, ma la notizia viene smentita.

La prima vera operazione militare segnalata è quella di Gostomel, lì dove sorge il principale aeroporto a nord di Kiev. I russi inviano qui paracadutisti, l’obiettivo sembra essere quello di conquistare subito lo scalo e farne una base per i soldati entrati dalla Bielorussia e proiettati verso la capitale ucraina. A metà mattinata l’aeroporto viene dato per conquistato dalle forze di Mosca. In realtà ne nasce una cruenta battaglia dall’esito incerto: per giorni le due parti rivendicano il controllo della zona. Ad ogni modo, i russi sembrano sorpresi dalla reazione ucraina a Gostomel. Ai parà russi non riesce infatti l’effetto sorpresa, mesi dopo viene rivelato da alcun fonti di intelligence che gli Usa, a conoscenza dei piani di Mosca, avvisano il governo ucraino dell’operazione attorno lo scalo.

Contestualmente, a poco più di 100 km di distanza verso nord, i russi entrati dalla Bielorussia marciano verso Kiev. Nella serata del 24 febbraio viene conquistata l’ex centrale nucleare di Chernobyl, aprendo così la strada verso l’area a nord della capitale ucraina.

Da est invece i russi premono subito su Kharkiv. La seconda città del Paese ha al suo interno un’importante presenza di popolazione russofona. Mosca spera di fare leva su questo per avere dalla propria parte i cittadini. I soldati inviati dal Cremlino non puntano solo su Kharkiv, ma anche sulle ampie zone di campagna dell’oblast di Lugansk, considerato dall’omonima repubblica separatista come parte integrante del proprio territorio.

L’altra direttrice di attacco segnalata il 24 febbraio è quella meridionale. Le truppe di Mosca entrano dalla Crimea, penisola annessa nel 2014 subito dopo la rivolta di Piazza Maidan. Si dirigono verso nord conquistando subito Nova Kakhova e spingendo a est verso Melitopol e Mariupol e a ovest verso Kherson. Qui l’avanzata russa è più lineare e importante che altrove. Il 3 marzo la bandiera russa sventola già su Kherson, primo capoluogo di regione conquistato dalle forze di Putin.

L’assedio di Kiev e i tentativi di prendere Kharkiv​

Anche se il fronte più importante, sotto il profilo politico, sembra quello del Donbass, in realtà i russi provano da subito ad arrivare nella capitale ucraina. L’obiettivo, mai ammesso ufficialmente dal Cremlino, è mozzare la testa allo Stato ucraino. E quindi mettere i piedi a Kiev e porre fine all’esperienza politica del governo guidato dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Quest’ultimo, a partire dal 24 febbraio, si presenta costantemente in video su Telegram e sui social con una maglietta che ricorda l’uniforme militare. Zelensky chiarisce di non voler lasciare Kiev e di continuare a guidare il governo e le istituzioni ucraine assieme ai suoi fedelissimi.

La capitale viene bersagliata dai raid, soprattutto in periferia. Via terra, avanzano le truppe entrate dalla Bielorussia e dal nord, tramite le regioni di Sumy e Chernihiv. I militari di Mosca provano una manovra a tenaglia: dal lato nord occidentale si prova ad avanzare dal quadrante di Gostomel, Bucha e Irpin, mentre dal lato nord orientale l’obiettivo è avanzare da Sumy e prendere Brovary.

Nel primo caso, i russi non riescono a raggiungere il centro di Irpin, ultima località prima dei confini amministrativi della città di Kiev. Nel secondo, le truppe inviate da Putin hanno difficoltà nella gestione delle retrovie per via del mancato pieno controllo del territorio, caratterizzato da foreste che appaiono terreno fertile per le imboscate ucraine. È in questo settore che i russi subiscono le prime importanti perdite della guerra.

Occorre poi considerare anche la reazione popolare. Nonostante una popolarità calante per Zelensky prima del conflitto, l’attacco russo determina l’appoggio incondizionato della popolazione all’esercito e alle istituzioni ucraine. A Kiev vengono organizzate barricate in attesa dell’arrivo dei russi, il parlamento autorizza l’applicazione della legge marziale con conseguente inizio della mobilitazione. In molti si arruolano e vengono creati anche gruppi di difesa territoriale.

Emblematica la situazione a Kharkiv. La presenza di una grande comunità russofona non coincide con l’appoggio della popolazione all’operazione militare russa. Il 27 febbraio le truppe di Mosca sono alle porte della seconda città ucraina, ma vengono respinte dopo una feroce battaglia in periferia. Nessuno tra i cittadini dà manforte ai soldati del Cremlino, non c’è alcun appoggio popolare verso le truppe avversarie. Kharkiv rimane in mano a Kiev e viene costantemente bombardata anche in centro. Circostanza che amplifica il sostegno dei cittadini ai soldati ucraini. E che crea forse per la prima volta una forte identificazione della città con la causa ucraina.

Le truppe russe avanzano però a sud di Kharkiv. Tra febbraio e aprile vengono prese alcune località strategiche, considerate come via di accesso al Donbass. Tra queste figurano Kupyansk, Izyum e Lyman.

30 marzo: Mosca annuncia il ritiro dall’area di Kiev​

Dopo un mese di guerra, la situazione sul campo vede le truppe russe avanzare soprattutto a sud. La presa di Kherson e dell’area compresa tra la Crimea e il fiume Dnepr, permette a Mosca di dilagare verso Melitopol e Berdiansk. In questo modo l’intera costa del Mar d’Azov è in mano russa e i soldati iniziano ad assediare Mariupol. Ossia uno dei principali obiettivi militari e politici, essendo la città inclusa all’interno dell’oblast di Donetsk e rivendicata dai separatisti.

A Kiev invece i russi vanno incontro a un pesante stallo. Le vie di comunicazione tra il confine ucraino e l’area della capitale sono di difficile controllo: saltano i rifornimenti, vengono uccisi diversi importanti generali, oltre che a numerosi soldati. Molti di questi, come ricostruito inseguito con il ritrovamento dei documenti, sono giovanissimi.

Nel frattempo, anche con la mediazione della Turchia, si apre un canale di dialogo. Il 30 marzo due delegazioni russe e ucraine si incontrano a Istanbul, alla presenza del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Proprio quel giorno Mosca annuncia un riposizionamento dei soldati. Alle proprie truppe viene dato l’ordine di lasciare l’area a nord di Kiev, comprese le proprie postazioni nelle regioni di Chernihiv e Sumy. Se il Cremlino parla di riposizionamento, l’Ucraina invece usa il termine ritiro e parla di prima vittoria contro il nemico.

Tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile, i soldati russi rientrano nelle postazioni in Bielorussia e in territorio russo. Gostomel, Bucha, Irpin, Brovary, Borodyanka, Chernobyl, vengono evacuate e ritornano nel pieno possesso delle forze ucraine. Kiev denuncia massacri e fosse comuni, soprattutto nella località di Bucha. Zelensky accusa la Russia, alcune inchieste giornalistiche curate anche dal New York Times parlano di uccisioni contro civili effettuate da alcuni battaglioni provenienti dall’oriente russo. Mosca smentisce e parla di mera propaganda ucraina.

La città di Kiev intanto ad aprile riesce a tornare lentamente alla normalità. Molte barricate vengono tolte, molti cittadini rientrano a casa ed escono dai rifugi di fortuna. La presenza della guerra però è resa palese dai continui allarmi aerei che scuotono la metropoli.

Gli occhi si spostano su Mariupol​

Nel secondo mese di guerra tutte le attenzioni sono su Mariupol. La città costituisce il principale porto ucraino sul Mar d’Azov ed è uno degli obiettivi principali della campagna avviata dai russi. Già nel 2014 il suo territorio è passato di mano più volte tra Kiev e i separatisti, fino alla definitiva riconquista da parte ucraina. Anche per questo Mosca punta molto sulla presa della città.


Mariupol risulta circondata già dai primi giorni del conflitto e questo grazie alla rapida avanzata delle truppe russe sul fronte meridionale. Inoltre, separatisti e regolari russi riescono tra febbraio e marzo ad avanzare da est stringendo i soldati ucraini in una morsa. Tra le forze di Kiev, figurano i combattenti del Battaglione Azov. Si tratta di uno dei gruppi nazionalisti più noti nel Paese, attivo già dal 2014 e formato da movimenti che spesso non hanno nascosto simboli neonazisti. Mosca, così come anche alcune organizzazioni internazionali, accusano il gruppo di azioni criminali compiute a danno dei separatisti nel 2014.

Il Battaglione ha sede proprio a Mariupol e anche se dal 24 febbraio i comandanti iniziano a inviare propri membri in altre regioni dell’Ucraina, è in questa città che Azov mantiene il più solido radicamento territoriale. L’impressione quindi è che all’interno della città ci si prepari a una cruenta resa dei conti.

La Russia, oltre ai propri soldati regolari e ai separatisti, schiera a Mariupol anche i combattenti ceceni inviati dal presidente ceceno Ramzan Kadyrov. Presenti anche a Kiev, dopo l'abbandono delle aree attorno alla capitale i ceceni vengono dirottati sulle sponde del Mar d'Azov. La loro esperienza nei combattimenti urbani da subito appare decisiva.

La vera battaglia ha inizio il 18 marzo, quando i russi conquistano l'aeroporto. Ma già da prima Mariupol capisce di essere destinata al ruolo di vera martire del conflitto. I bombardamenti sono infatti incessanti e il 12 marzo un raid colpisce il teatro dell'opera, uno dei simboli della città e in quel momento rifugio per tante famiglie scappate da casa. La situazione umanitarie scivola velocemente verso il collasso. Manca l'acqua, manca la luce, il cibo arriva a singhiozzo. Si prova a far evacuare i civili, ma i corridoi umanitari concordati tra Kiev e Mosca spesso falliscono con accuse reciproche da entrambe le parti.

È in questo terribile contesto che dalla seconda metà di marzo e fino all'intero mese di aprile va avanti la battaglia urbana. I russi avanzano quartiere per quartiere e isolato per i solato. I ceceni conquistano ogni singolo palazzo delle zone nevralgiche, a volte anche entrando negli edifici con grandi scale di legno. Tanto è vero che viene coniato il termine di “battaglia medievale” di Mariupol.

La svolta arriva il 21 aprile. Quel giorno Putin e il ministro della Difesa, Sergej Shoigu, si incontrano al Cremlino con il titolare del dicastero che annuncia al presidente la conquista della città. Manca però soltanto una zona: è quella delle acciaierie Azovstal. Di proprietà dell'oligarca ucraino Rinat Akhmetov, l'impianto prima della guerra era il più grande nel suo genere in Europa. Al suo interno si trincerano gli ultimi combattenti del Battaglione Azov decisi a non arrendersi. Putin dispone l'accerchiamento dell'acciaieria e la sospensione dei combattimenti. Una situazione destinata ad andare avanti per un mese.

Dopo molteplici trattative, mediate dalle Nazioni Unite e soprattutto dalla Turchia, si decide per l'evacuazione dei membri di Azov all'interno dell'acciaieria. Le loro condizioni sono al limite, molti sono feriti e ustionati, senza cure e senza cibo da giorni. Mosca parla di resa, Kiev di azione volta a limitare i danni. Il 22 maggio l'evacuazione viene completata: i combattenti ucraini vengono portati nel territorio di Donetsk in attesa di processi o di scambi di prigionieri. Mariupol viene considerata definitivamente conquistata dai russi.

Dalla conquista di Mariupol alla presa di Severodonetsk e Lysychansk​

La presa della città sul Mar d'Azov è un punto importante per Mosca. Il prezzo pagato è però salato: sono morti migliaia di combattenti, la città è in rovina e soltanto il 10% degli edifici è agibile. Ad ogni modo, nei piani del Cremlino c'è adesso l'avanzata in altre parti del Donbass. A partire dalla città di Severodonetsk e della “gemella” vicina Lysychansk.

Severodonetsk, in particolare, rappresenta l'obiettivo politico più importante. Con la caduta di gran parte dell'oblast di Lugansk in mano ai separatisti nel 2014, è qui che Kiev ha spostato il capoluogo regionale. È quindi una delle città più strategiche del Donbass in mano all'Ucraina.

L'avanzata verso Severodonetsk ha luogo tra fine febbraio e aprile. I 30 km che separano la città dalla linea di contatto con i separatisti vengono lentamente conquistati dai russi, i quali avanzano sia da Lugansk che dai propri confini. A fine aprile viene conquistata la città di Rubizne, vera porta di accesso verso Severodonetsk. La caduta di questa località, segna l'inizio della prima fase di assedio del capoluogo provvisorio dell'oblast di Lugansk.

Tuttavia con le proprie truppe ancora impegnate a Mariupol, Mosca decide di rinviare l'assalto finale. A dare manforte ai soldati del Cremlino, ci sono sia i separatisti che ancora una volta anche i ceceni. Così come vengono segnalati mercenari della Wagner, l'agenzia di contractors di Evgenij Prigozin. Per gli ucraini, oltre ai soldati regolari, ci sono membri del Battaglione Donbass e alcuni combattenti stranieri.

Nove giorni dopo la definitiva caduta di Mariupol, inizia la battaglia urbana per la presa di Severodonetsk. Ad annunciarlo è lo stesso governatore ucraino di Lugansk, Sergy Hayday. I combattimenti vanno avanti per l'intero mese di giugno, ma già entro la prima decade si intuisce che la battaglia volge nettamente a favore dei russi. Oltre che per Severodonetsk, si combatte anche per la vicina Lysychansk, strategica in quanto situata su una collina da cui si può avere il controllo del fuoco delle zone limitrofe.

Il 20 giugno i russi annunciano la presa del centro di Severodonetsk, alcuni combattenti ucraini sono rifugiati e assediati all'interno dello stabilimento chimico Azot. Da Kiev il 24 giugno arriva l'ordine agli ultimi soldati ucraini rimasti di indietreggiare ed evitare ulteriori perdite. Severodonetsk cade quindi definitivamente nelle mani di Mosca, sorte toccata il 2 luglio successivo a Lysychasnk.

Lo stallo estivo​

A quel punto Mosca sembra nelle possibilità di attaccare gli ultimi due grandi obiettivi del Donbass: Kramatorsk e Slovjansk. Si tratta delle ultime due grandi città della regione in mano a Kiev. L'avanzata da Izyum e Lyman da nord e da Severodonetsk da est, pone i russi nella possibilità di oltrepassare il fiume Siversky Donetsk e proiettarsi verso le due località.

Tuttavia l'avanzata russa si arresta. Le forze russe e filorusse sembrano voler in questa fase consolidare le proprie conquiste a est e rinforzare le proprie linee di rifornimento. Si parla più volte di una possibile offensiva su Odessa, città pesantemente bombardata già da febbraio ma mai raggiunta né via mare e né via terra. L'offensiva di Mosca si arresta infatti poco più a ovest di Kherson e non riesce a sfondare a Mykolaiv.

Anzi, gli ucraini più volte durante l'estate parlano di un possibile contrattacco in questo settore. Il governo di Kiev più volte annuncia di essere pronto a passare da un'azione meramente offensiva a una offensiva. I raid su Kherson e l'arrivo di truppe nella zona sembrano confermare questa intenzione. Per tutta l'estate tuttavia non avvengono importanti cambiamenti sul fronte.


Il primo vero contrattacco ucraino​

Con l'arrivo di settembre tuttavia, Kiev prova una manovra a sorpresa nell'est del Paese e non a Kherson. Le informazioni ricevute dai servizi segreti occidentali, così come gli aiuti militari di molti Paesi della Nato, permettono all'Ucraina di pianificare un'azione nell'area a sud di Kharkiv. Tra il 7 e l'8 settembre i militari ucraini si muovono in direzione di Balakleya, prendendo il centro della cittadina. Da qui poi, i soldati si spingono sempre più verso est riconquistando Kupiansk e costringendo i russi a ripiegare a est del fiume Oskil.

Il contrattacco ha successo: Kiev è a conoscenza delle scarne difese russe nell'area e l'effetto sorpresa riesce pienamente nel suo intento. Gli ucraini avanzano così anche verso Izyum e Lyman, città riconquistate nel giro di pochi giorni. Contestualmente, le truppe di Kiev si muovono anche attorno Kharkiv, allontanando definitivamente i russi dalla seconda città del Paese. In 5 giorni, gli ucraini riprendono l'intero oblast di Kharkiv e allontano i russi da Slovjansk e Kramatorsk. Per Mosca una disfatta che costringe, da qui a poche settimane, il presidente Putin ad annunciare una mobilitazione parziale.

Gli ucraini riprendono Kherson​

I piani per l'attacco su Kherson non vengono però accantonati. Sfruttando l'inerzia del momento e l'inferiorità numerica dei russi nella regione, il 4 ottobre i soldati di Kiev sfondano il fronte a nord del capoluogo e, in particolare, nella parte a ovest del Dnepr. I russi preparano una lenta e ordinata ritirata, con gli ucraini che avanzano verso Kherson per tutto il mese di ottobre.

Non si hanno grandi combattimenti in questo settore, proprio perché Mosca opta per un ritiro sapendo di non poter difendere a lungo il capoluogo dell'oblast. Una provincia, è bene ricordare, da alcune settimane considerata dalla Russia annessa al proprio territorio assieme a quelle di Zaporizhzhia, Donetsk e Lugansk. Il 12 novembre, le truppe ucraine entrano così nel centro di Kherson, riprendendo ufficialmente la città.

I bombardamenti russi sulle centrali elettriche​

La risposta russa alla controffensiva ucraina arriva con dei massicci bombardamenti su tutto il Paese. Il principale dei quali è del 10 ottobre, quando tutte le province dell'Ucrainasono bersagliate da un continuo lancio di missili che va avanti per diverse ore. La stessa Kiev viene colpita con dei raid più intensi della prima parte di guerra. Il bombardamento in questione appare come una risposta al sabotaggio che l'8 ottobre porta al parziale danneggiamento del viadotto sullo stretto di Kerch, ossia la principale infrastruttura di collegamento tra la Crimea e la Russia continentale.

I danni sono ingenti, soprattutto perché a essere prese di mira sono le centrali elettriche. Si calcola che più della metà delle infrastrutture energetiche ucraine risulta seriamente o parzialmente danneggiata. Nei giorni seguenti vanno avanti altri bombardamenti, sempre contro le centrali elettriche. Il governo di Kiev viene quindi costretto a razionare la distribuzione di energia elettrica e a ricorre a frequenti blackout. Per diverse settimane, nella capitale e nelle città principali l'energia viene erogata solo per due o tre ore al giorno.

L'Ucraina affronta così l'inverno al buio e con pochi riscaldamenti. La strategia dei raid contro le centrali si attenua solo con l'avvento del nuovo anno. I tecnici ucraini provano a riparare quanto possibile, ma la logistica civile risulta al momento ben lontana da livelli normali.

La battaglia di Bakhmut​

Nel 2023 per il momento l'unico fronte dove si combatte in modo intenso è quello di Bakhmut, nell'est del Paese. La città dell'oblast di Donetsk non è lontana da Kramatorsk. Una sua conquista permetterebbe di avanzare nel cuore dell'ultima parte del Donbass rimasta in mano a Kiev.

Per provare a smuovere la situazione, i russi hanno premuto sull'acceleratore nel quadrante di Soledar, cittadina conquistata a metà gennaio. Qui a entrare in azione sono soprattutto i contractors della Wagnar. La battaglia è ancora in corso e sta causando un numero elevato di vittime. Un inferno capace di travolgere tanto gli ucraini quanto i russi.
 
discorso del 1 ottobre 2014 già ben chiaro la situazione nell'area geopolitica e già dopo il colpo Maidan del 20 febbraio 2014


cambiamento di veduta per la Meloni. discorso del 21 febbraio 2023

 
"Quando tutti pensano nello stesso modo, nessuno pensa molto" diceva il giornalista statunitense Walter Lippmann, noto per la sua pionieristica analisi sul condizionamento operato dai mass media sui pregiudizi mentali.

Non abbiate paura di sentirvi una minoranza, aggiungo io. Di pensare diversamente. Di essere voci fuori dal coro. C'è da andarne fieri... soprattutto di questi tempi.

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Dopo che la Russia ha deciso di recedere dal trattato new start non c'è più nessuna tipologia contrattuale che lega Russia -USA nell'arsenale nucleare.

ricordando che il trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) già stato recesso dalla casa bianca il 1 agosto 2019.

Camera dei deputati Dossier ES0106.html

La storia del Trattato​

Il Trattato INF (( Intermediate-Range Nuclear Forces) fu sottoscritto a Washington l'8 dicembre 1987 dal presidente USA Ronald Reagan e dal presidente sovietico Michail Gorbačëv a seguito di un vertice svoltosi a Reykjavík l'11 ottobre dell'anno precedente.

Già nel 1972 e nel 1979 le due superpotenze erano già giunte a sottoscrivere delle intese per la limitazione di certi tipi di armamenti nucleari e dei loro sistemi di lancio (SALT – Strategic Arms Limitation Talks). Nel contesto della corsa agli armamenti degli anni Settanta, l'Unione sovietica iniziò a schierare nel 1977 un nuovo tipo di missile a medio raggio a testata multipla (i cd. SS-20), in grado di colpire l'Europa occidentale in pochi minuti. Dopo una tornata di negoziati senza successo, la decisione statunitense di schierare nel 1983 sul suolo europeo missili Pershing II e Cruise contribuì ad alzare il livello di tensione, portando alla "crisi degli euromissili", in cui anche l'Italia fu coinvolta. Le tensioni andarono stemperandosi con l'avvento al potere di Michail Gorbačëv; i dialoghi anche ad alto livello cambiarono passo e condussero all'incontro finale di Washington dell'8 dicembre del 1987, nel corso del quale si procedette alla sottoscrizione del Trattato INF.

L'accordo prevedeva la totale eliminazione dei missili balistici e convenzionali, dispiegati a terra, dalla portata compresa tra i 500 e i 5.500 km, la rimozione e la distruzione di 1.846 testate sovietiche e 846 americane, oltre all'eliminazione dei dispositivi di lancio, altri componenti e materiale per i test; il tutto, in tre anni.
Venivano proibiti unicamente i missili lanciati dalla piattaforma terrestre, non dall'aria o dal mare, permettendo dunque che sottomarini e aerei continuassero a dotarsi di armamenti di quel genere.
Il Trattato aveva una portata largamente innovativa perché prevedeva un piano per verificare l'aderenza all'accordo delle parti, comprendente ispezioni di basi missilistiche e infrastrutture, depositi e altri siti, per un periodo di 13 anni a partire dell'entrata in vigore del testo (giugno 1988), sulla base del principio " doveryai no proveryai – trust but verify".
Rimanevano aperte questioni nevralgiche come i sistemi ABM ( Anti-Ballistic Missile) e la Strategic Defense Initiative (lo scudo di difesa anti-missilistica, le cd. "Star Wars" annunciato dal presidente Reagan nel 1983). Inoltre, va considerato che gli armamenti vietati dal Trattato INF costituivano soltanto il 5% circa del totale degli arsenali nucleari.
In seguito, nel 1991, poco prima del crollo dell'Unione sovietica, le due superpotenze sottoscrivevano lo START I ( Strategic Arms Reduction Talks), per la riduzione degli armamenti strategici, dopo che era già intervenuta a Parigi, il 19 novembre 1990 la firma tra l'Alleanza atlantica ed il Patto di Varsavia del Trattato per la riduzione e la limitazione delle forze armate convenzionali in Europa (il cd. Trattato CFE) dal quale nel 2015 la Russia si è ritirata.


La crisi del Trattato​

Nel luglio del 2014, nel pieno della crisi ucraina, gli Stati Uniti accusavano la Federazione russa (succeduta all'URSS come Stato parte del Trattato INF) di violare l'accordo testando armamenti tattici nucleari (missili SSC-8 dalla portata di 2.000km).
Nel febbraio del 2017 Washington ne denunciò ufficialmente lo schieramento operativo, procedendo a fare pressione su Mosca perché la violazione rientrasse, anche tramite l'imposizione di sanzioni.
La Federazione russa ha sempre respinto le accuse, chiedendo agli Stati Uniti di mostrare le prove, ma non ha mai fornito elementi che smentissero in modo sostanziale le tesi americane. Al tempo stesso Mosca ha stigmatizzato l'installazione di sistemi di lancio anti-missilistici in Polonia e Romania e l'impiego di aeromobili senza pilota dotati di armamenti tattici nucleari.
Il 5 febbraio 2018, il presidente della Commissione Difesa della Duma di Stato, Vladimir Shamanov, ha confermato il loro dispiegamento permanente nell'exclave russa di Kaliningrad di vettori Iskander-M 9K720 (nome in codice NATO SS-26 "Stone"), con gittata compresa tra i 400 e i 500 km, riproponendo con tale iniziativa criticità simili a quelle che furono all'origine della "crisi degli euromissili".
Nell'ottobre del 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l'intenzione statunitense di recedere dal Trattato INF a causa delle continue violazioni russe, dopo che le autorità di Mosca avevano provato a difendersi pubblicamente dalle accuse americane nel luglio dello stesso anno.
Il 1° febbraio scorso è stato pubblicato l'annuncio ufficiale della Casa Bianca in cui si dà conto della volontà di sospendere il Trattato a partire dal giorno successivo ed avviare il procedimento di denuncia dell'accordo,nel caso in cui la Russia non proceda ad eliminare i propri armamenti proibiti.
In reazione a ciò, anche le autorità russe il 2 febbraio hanno espresso la volontà di denunciare il Trattato INF: "Partiamo dal presupposto – ha detto il presidente Putin - che il nostro Paese non dispiegherà missili a gittata intermedia e inferiore, se tali armi non appariranno, né negli Usa, né Europa o in altre regioni del mondo. Non dovremmo farci trascinare e non ci faremo trascinare in una costosa corsa agli armamenti". Il Presidente russo ha però aggiunto che Mosca è pronta a sviluppare nuovi razzi anche ipersonici.
L'11 marzo scorso, infine, il Dipartimento della Difesa statunitense ha reso noto che gli Stati Uniti inizieranno a produrre componenti di ground-launched cruise missile systems vietati dalle disposizioni del Trattato INF.


Le ragioni della scelta statunitense​

L'annuncio americano del ritiro dal Trattato ha sollevato molte critiche tra i partner europei dell'Alleanza atlantica, che avrebbero preferito la prospettiva di una revisione del Trattato.
Tra le motivazioni addotte da Washington per il ritiro - fortemente sollecitato da "falchi" dell'Amministrazione presidenziale come il consigliere per la sicurezza nazionale, J.R. Bolton spiccano, accanto alle asserite violazioni russe dei termini dell'accordo, alcune valutazioni sul ruolo che stanno assumendo potenze nucleari, come la Cina, non vincolate dal Trattato.
Lo stesso Presidente USA, parlando mesi fa del Trattato, aveva citato la Cina: "Se la Russia lo fa e la Cina lo fa, è inaccettabile che noi continuiamo a rispettare l'accordo". Nel 2017 il comandante delle forze militari americane nell'oceano Pacifico, l'ammiraglio Harry Harris (attualmente ambasciatore americano a Seoul), aveva detto al Congresso che circa il 95 per cento dei missili cinesi avrebbe violato il trattato INF, se la Cina ne avesse fatto parte.
È noto che da un lato gli Stati Uniti non dispongono di molte basi nel quadrante del Pacifico nel quale schierare un arsenale di missili senza il consenso degli alleati (Giappone, Sud Corea, Australia) e dall'altro che programma USA di realizzazione di nuovi armamenti missilistici richiede ancora anni prima di diventare operativo, ci vorranno comunque diversi anni perché se ne vedano i frutti.
È opinione condivisa, tra gli esperti statunitensi, che la Federazione russa abbia acquisito una posizione di primato nella ricerca e nello sviluppo di quella specifica categoria d'armamenti.
Se la scelta di denunciare il Trattato sembra agevolare il Cremlino che può accusare l'Amministrazione Trump di attentare alla stabilità internazionale, evocando le inquietudini della Guerra fredda, è altrettanto vero che la cessazione degli effetti dell'accordo sembra danneggiare più la sicurezza degli alleati europei che quella statunitense.
In termini strategici, gli analisti paiono essere concordi nel rintracciare ben pochi vantaggi nella denuncia del Trattato da parte degli USA, ma ne sottolineano la coerenza con le principali direttrici ideologiche della Presidenza Trump, quali il superamento di qualsiasi trattato inteso a limitare la sovranità degli Stati Uniti, la contrarietà di "falchi" ad accordi di non proliferazione e limitazione degli armamenti (ricordiamo, ad esempio, che Bolton fu sottosegretario di Stato dell'Amministrazione George W. Bush, impegnandosi per la denuncia, nel 2002, del Trattato anti-missili balistici del 1972 (Trattato ABM).
Vi è infine, sul piano dell'agenda politica interna, l'esigenza di dimostrare all'opinione pubblica americana un approccio più assertivo nei confronti di Mosca, in risposta alle accuse avanzate verso l'Amministrazione presidenziale di essere troppo conciliante o addirittura complice con il vecchio nemico dei tempi della Guerra fredda.


La posizione russa​

Mosca si è mostrata insofferente nei riguardi del Trattato INF, sin dagli esordi della Presidenza Putin: l'accordo era da più parti considerato una concessione troppo generosa e arrendevole fatta ai tempi al termine della Guerra fredda, non più sostenibile di fronte all'atteggiamento aggressivo e muscolare degli Stati Uniti nel contesto unipolare sorto dopo la caduta del Muro (in proposito valga, uno fra tutti, il noto discorso del presidente Putin pronunciato a Monaco di Baviera nel 2007).
La Russia nel corso di questi ultimi anni ha spessp accusato gli Stati Uniti d'incrinare i rapporti tra le due potenze e di assumere un atteggiamento troppo aggressivo nei propri confronti, accerchiando Mosca ai suoi stessi confini anche attraverso un'ingerenza diretta in quello che Mosca considera il suo "Estero vicino".
In particolare, la Russia si sente minacciata, come accennato, dall'European Phased Adaptive Approach (EPAA), parte di un sistema globale di difesa missilistica statunitense, lanciato dall'Amministrazione Obama e in via di schieramento operativo in Polonia e Romania.
Il sistema anti-missilistico statunitense schierato in Europa, motivato prevalentemente dall'esigenza di difendersi da attacchi provenienti dal Medio Oriente, potrebbe mettere in dubbio anche il potenziale russo di deterrenza strategica, e perciò è considerato da Mosca una diretta minaccia.
Infine, occorre valutare il rilievo che assume per i decisori russi la considerazione che alcune potenze situate lungo i confini meridionali ed orientali della Federazione russa (Cina, Corea del Nord, India, Pakistan) hanno sviluppato un arsenale balistico e convenzionale, non essendo vincolate dal Trattato INF (India, Pakistan, Cina, Iran, Nord Corea).
Questa percezione si somma ad una costante "ansia di accerchiamento" che caratterizza le élite di governo russe e che sarebbe gestito attraverso il ritorno alla retorica intimidatoria della deterrenza nucleare.
Non è un caso che nel recente passato molti analisti occidentali abbiano sostenuto che Mosca faccia propria una cosiddetta Escalate to De-escalate doctrine (EdED), basata sull'uso di armi nucleari entro il contesto di un conflitto convenzionale, in modo da impedire all'avversario ulteriori mosse e garantirsi una rapida vittoria. Altri analisti sottolineano tuttavia come manchino segni inequivocabili di una EdED russa: l'analisi delle ultime dottrine strategiche elaborate dal Cremlino nel 2010 e nel 2014 rileva piuttosto come il ricorso alle armi nucleari sia strettamente limitato a scopi ritorsivi ed in caso di minaccia esistenziale.


Possibili sviluppi​

È importante ricordare come rimanga ancora in vigore il trattato bilaterale russo-americano per il controllo dell'arsenale nucleare, il cd. New START, (New Strategic Arms Reduction) firmato a Praga l'8 aprile 2010 dal presidente americano Obama e dal presidente russo Medvedev nel 2010 per il controllo dei missili a lungo raggio. Con il venire meno del Trattato INF, tale accordo rimane l'ultimo accordo nucleare esistente tra le due potenze.
Il New START dovrebbe essere rinnovato nel 2021, ma le tensioni innescate dalla denuncia del Trattato INF potrebbero comprometterne gli esiti, basti tenere presente, ad esempio, che già nel 2010 la componente repubblicana nel Senato degli Stati Uniti aveva opposto resistenza alla ratifica dell'accordo.
Se anche tale trattato dovesse venire meno, per la prima volta dal 1972 non sarebbero più in vigore alcun accordo sulla limitazione o sulla verificabilità degli arsenali nucleari tra le due potenze.
La fine del Trattato INF potrebbe inoltre influenzare negativamente l'andamento della Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare, che si terrà nel 2020.
Nel quadrante europeo, la denuncia del Trattato INF potrebbe mutare gli equilibri militari nel vecchio Continente, a tutto svantaggio delle posizioni occidentali nei bacini del Mar Nero e del Mar Baltico e porterebbero ad un'acutizzazione delle posizioni "russofobe", assai forti in alcuni settori dell'opinione pubblica dei paesi dell'Europa centrale, già condizionati dall'installazione dei missili Iskander e, in prospettiva, dal dispiegamento di nuovi vettori a medio raggio.
Alcuni analisti internazionali hanno inoltre espresso serie preoccupazioni sulla possibilità che le controversie sorte sulla cessazione Trattato INF possano dare luogo, sia pure non nel breve periodo, ad una nuova corsa agli armamenti su scala globale, in assenza di un quadro di cooperazione multilaterale che ne definisca i limiti.
Il deterioramento delle relazioni russo-americane, acuita dalla vicenda della denuncia del Trattato INF, può contribuire a disarticolare ulteriormente l'ordine internazionale, segnato dalla postura aggressive di nuove potenze a vocazione globale.
Nella prospettiva di un accelerato processo di disarticolazione dello scenario mondiale sotto la spinta di un programma generalizzato di modernizzazione dell'apparato militare, i parametri abituali di valutazione della situazione appaiono inadeguati sotto il profilo della sicurezza. A determinare l'andamento delle relazioni fra gli Stati, in un quadro di diffusa conflittualità che va dal Medio Oriente all‘Asia centrale, contribuisce il processo di evoluzione in direzione del multipolarismo.
Gli interrogativi circa il grado di stabilità di un ordine globale caratterizzato dalla presenza di una pluralità di grandi potenze sono al centro del dibattito fra gli esperti di dottrine strategiche. Ai vertici di un sistema internazionale rigidamente gerarchico figurano gli Stati Uniti, in posizione preminente, ma non più dominante, affiancati da Russia, Cina, India e Unione europea.
Fatta eccezione per l'Unione europea, si tratta di Stati sostenuti da un forte senso della propria ritrovata identità nazionale, determinati, se del caso ricorrendo anche all'uso della forza, ad affermarsi nel ruolo di soggetti riconosciuti a tutti gli effetti indipendenti.
La Russia e la Cina, principali fautori di una revisione dell'ordine mondiale, portano avanti – ciascuno seguendo una specifica linea strategica – una politica di contrasto all'egemonia degli Stati Uniti.
Per quanto il rapporto Mosca–Washington non costituisca più l'asse portante del gioco politico strategico globale è a questo livello che si manifesta più evidente il rischio di escalation in un conflitto generale. In un clima di accentuata ostilità, Stati Uniti e Russia, le due superpotenze nucleari, risultano impigliate in un groviglio di contrasti lungo l'intero arco degli interessi e dei valori.
Al confronto politico-diplomatico correlato alla contrapposizione strategico militare si somma la competizione economico commerciale, per arrivare – fattore particolarmente insidioso – alla campagna di delegittimazione dell'assetto istituzionale dei rispettivi regimi.
All'origine di un antagonismo di lunga data riemerso con particolare virulenza negli ultimi anni figura una concezione idealizzata del proprio status di grande potenza fondata sull'"eccezionalismo".
Epicentro del confronto russo-americano si conferma, nonostante il crescente rilievo strategico dell'Asia orientale, ancora una volta l'Europa: è in questa area, infatti, ai confini dello spazio post-sovietico e dove gli schieramenti militari sono a diretto contatto, che la Russia si trova a fronteggiare la politica di contenimento statunitense condotta attraverso la NATO.
Non è certo casuale, infatti, che a innescare la crisi attuale nei rapporti fra Washington e Mosca sia stata la competizione per assicurarsi l'allineamento dell'Ucraina, il cui controllo geopolitico assicura una posizione di vantaggio sul continente.
Assodato, come dimostra proprio il salto di tensione suscitato dalla denuncia del Trattato INF, che su questo fronte l'impegno delle parti appare particolarmente risoluto, è evidente che solo mantenendo lo status quo a livello regionale sia possibile garantire anche nelle nuove condizioni una situazione di stabilità strategica.
L'enfasi posta sia da parte russa che statunitense di operare da una posizione di forza, facendo affidamento eventualmente sull'arma nucleare, non sembra lasciare spazio a concessioni in grado di portare a un'attenuazione del confronto Stati Uniti–Russia.
La fiducia, in assenza della quale viene meno ogni possibilità di normalizzazione, non rappresenta un obiettivo realistico, ma non per questo va esclusa la prospettiva di rilanciare un negoziato volto a evitare un conflitto fra le due grandi potenze dalle conseguenze catastrofiche.
 
Il “promemoria” della Cina sulla crisi che incombe

La scorsa settimana la Banca centrale cinese ha iniettato nel sistema 835 miliardi di yuan (121 miliardi di dollari) in contratti reverse-repo a 7 giorni.

Sinceramente, l’unica parte del discorso di Vladimir Putin che realmente mi preoccupa è quella in cui ha citato chiaramente l’Italia come Paese beneficiario dell’aiuto russo nella fase iniziale e più grave del Covid. Tutt’intorno, un’indistinta e generica Europa sostenuta da un asse franco-tedesco che si è sempre ben guardato dal rompere i rapporti con il Cremlino. Tanto Occidente. Nel mirino però, citati apertis verbis, solo noi italiani. Quello del Covid era un altro mondo, ha dichiarato Giorgia Meloni. Come dire, la riconoscenza ha dei limiti. E, forse, degli interessi a cui pagare il conto.

Detto questo, attenzione a scomodare l’isolamento russo come ragione dell’innalzamento dei toni – a livello quasi millenaristico – da parte della Russia. Quando ancora risuonavano nell’aria le minacce contrapposte, il Wall Street Journal confermava come Xi Jinping si recherà a Mosca nelle prossime settimane per incontrare Vladimir Putin, in quella che appare una mossa di diplomazia ai massimi livelli per imporre la mediazione del Dragone. Il Vaticano taceva, quindi acconsentiva. E, anzi, pareva benedire. Peppone e Don Camillo docet, quando c’è da risolvere guai che nessuno vuole affrontare.

Ma attenzione. Il fatto che solo 24 ore dopo l’emissario ufficiale del ministero degli Esteri cinese, Wang Yi, fosse a Mosca per incontrare sia Vladimir Putin che Serghei Lavrov confermava come l’asse fra Russia e Cina sia mai come oggi forte e presente. Non ditelo a Corriere e Repubblica, i cui sopraffini analisti lo danno per morto da settimane. E mentre accadeva tutto questo, il prezzo del carbone europeo tracciato dall’Emission Trading System sfondava quota 100 euro per tonnellata. Per l’esattezza, 100,70 euro. Un sobrio +20% di aumento da inizio anno.

Ovviamente, tutti si focalizzeranno sul bicchiere mezzo pieno: sintomo di domanda economica in ripresa, quindi un proxy di un possibile e sostenuto rimbalzo della produzione industriale. Tradotto, ci venderanno la narrativa del soft landing come negli Usa. Anzi, qui esageriamo e giochiamo direttamente la carta della recessione evitata. Tout court. Ma ecco che quest’altro grafico ci mostra altro. Un qualcosa che unisce i puntini come un marcato e deciso tratto di penna, disvelando un quadro che dovrebbe farci riflettere.

(https://cdnx.ilsussidiario.net/wp-content/uploads/2023/02/23/China_LNG-e1677159169433.png)

Se infatti persino il solitamente pessimista Presidente di Nomisma Energia ha guadagnato l’apertura di prima pagina del Sole24Ore, preconizzando risparmi record sulla bolletta nel 2023, ecco che il combinato di prezzo del carbone alle stelle e Cina che sta letteralmente divorando il mercato Lng globale con uno shopping di lungo termine e lunga fornitura pare tratteggiare uno scenario differente. Al netto di deliranti e autolesionisti bandi sui motori endotermici, quando contemporaneamente la domanda di carbone in Europa è degna di un romanzo di Charles Dickens, ecco che la commodities weaponization del Blocco che fa riferimento alla Cina sembra crescere di volume. E di impatto, soprattutto politico, stante la nemmeno troppo sotterranea mediazione del Brasile di Lula.

Il Sud del mondo, insomma, pare stanco di subire decisioni unilaterali degli Usa. L’Europa, invece, no. Mosca, chiaramente, anela a un nuovo ordine energetico che veda il suo alleato come tenutario del banco. E l’India, dopo lo scherzetto degli short sellers Usa contro il primo conglomerato industriale del Paese, sicuramente se potrà far male, lo farà. Tutt’intorno, un mondo parzialmente in fiamme e parzialmente in cerca d’autore. Mentre l’Africa con il suo tesoro di materie prime è ormai provincia di Pechino.

Siamo davvero sicuri che tutto quanto accaduto nelle ultime 72 ore vada ricondotto soltanto a un trailer fra il pacchiano e il demenziale di Thirteen days? Riflettiamo. Solo due settimane fa, la narrativa era quella in base alla quale la Cina inviava mongolfiere-spia in Usa e Canada. Di colpo, però, il paradigma social-mediatico ha virato verso il più gestibile universo degli Ufo. I quali, essendo frutto di fantasia, appaiono assolutamente in linea con le versioni ufficiali statunitensi. Forse per nascondere che per abbattere un pallone da 500 dollari si è utilizzato un missile da 200.000. Poi, la narrativa vira nuovamente. Antony Blinken, numero uno del Dipartimento di Stato Usa, non ha dubbi: Pechino sarebbe a sua volta pronta ad armare Mosca. Peccato che appaia l’unico soggetto realmente impegnato a cercare una soluzione diplomatica, mentre l’Occidente appare un supermarket a cielo aperto di missili e tank. Nel frattempo, il blazer blu della destabilizzazione a orologeria noto al mondo come Corea del Nord, spara un paio di missili. Così, tanto per togliere un po’ di polvere di dosso a quell’armamentario inutile chiamato Onu. E gettarla negli occhi dell’opinione pubblica. Alla fine, ciò che conta è solo quanto rappresentato nel grafico.

(https://cdnx.ilsussidiario.net/wp-content/uploads/2023/02/23/China-e1677159198986.png)

La scorsa settimana, in piena pantomima globale da rialzo dei tassi, la Banca centrale cinese ha iniettato nel sistema 835 miliardi di yuan (121 miliardi di dollari) in contratti reverse-repo a 7 giorni. Di fatto, alla luce del netting, qualcosa come 632 miliardi di yuan messi in circolazione, la più ampia iniezione su base quotidiana addirittura dal 2004.

Cosa ci dice, questo? Primo, la Cina fa ciò che vuole. E il mondo tace, perché storicamente l’impulso creditizio cinese si trasforma in lubrificante per l’intero sistema finanziario con un ritardo di 3 mesi. Tradotto, Pechino ha appena allentato i timori del Qt di Fed e Bce a livello di liquidità globale. Secondo, la Cina ha appena scritto sul muro che la recessione non solo ci sarà, ma sarà brutale. Non a caso, si interviene. Terzo, proprio l’altro giorno la medesima Pboc ha inviato ai principali istituti creditizi del Paese la cosiddetta window guidance, invitando tutti a rallentare il ritmo dei prestiti per il rimanente periodo che fa riferimento al mese di febbraio, stante un eccesso di credito registrato in gennaio. Ulteriore sintomo di cautela verso il futuro prossimo. E in attesa che Evergrande faccia default (così come la Russia con i suoi bond), ecco che le autorità di Pechino stanno silenziosamente abbandonando un’altra restrizione legata alla bolla immobiliare: quella inerente le vendite di terreni da parte dei governi locali. Insomma, un palese incentivo per il mercato real estate. Il quale interviene proprio nel momento in cui il taglio dei tassi sui mutui cominciava a mordere la voce earnings delle banche, stante la corsa ai prepayments. E con un muro di scadenze colossale per il debito degli enti locali, ecco che il cap salta: chi pensa che ancora a Pechino si ragioni con una logica da kolchoz staliniano, forse dovrebbe levarsi i paraocchi ideologici. In Cina non si attende più che la bolla arrivi al punto di esplodere, ci si muove prima. Ma con una magnitudo che fa capire quale livello di sfida macro abbiamo di fronte.

Come sussurra il superbonus, d’altronde. Ma guarda caso, Kiev ha coperto tutto. E l’allarme per la bolla del secolo è scivolato dalla prima alla dodicesima pagina dei quotidiani. Per ora. Ma lo spread continua a ballare. E fra emissione del Btp Italia e board Bce, marzo si prefigura già come il mese della verità.

-di Mauro Bottarelli-

#TGP #Cina #Economia #Finanza

[Fonte: SPY FINANZA/ Il "promemoria" della Cina sulla crisi che incombe]
 
perche-cina-ha-aumentato-spesa-militare.html
DIFESA /
Federico Giuliani
6 MARZO 2023
Pil, occupazione e budget militare: la Cina ha fissato i primi obiettivi del 2023 in occasione dell’apertura delle cosiddette due sessioni, le riunioni dei rappresentanti della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (Cpcpc) e dell’Assemblea Nazionale del Popolo (Anp), e cioè rispettivamente il principale organo consultivo e il ramo legislativo del parlamento cinese.
L’asticella del prodotto interno lordo è stata fissata dalla leadership cinese intorno al +5% – un traguardo inferiore alla stima del Fondo Monetario Internazionale del +5,2% – mentre sul fronte lavorativo il governo dovrà creare 12 milioni di nuovi posti di lavoro.
Obiettivi importanti, a maggior ragione dopo gli anni di congelamento figli della pandemia e della Zero Covid Policy, che vanno di pari passo con il rafforzamento militare, che quest’anno vedrà un +7,2% in concomitanza con l’intensificarsi delle minacce internazionali.
Nel 2023 la spesa militare cinese crescerà al ritmo più veloce degli ultimi quattro anni. Calcolatrice alla mano supererà altre categorie di spesa – come il +5,7% della spesa pubblica generale – sottolineando, a detta del Financial Times, la riponderazione di Pechino verso la sicurezza rispetto allo sviluppo.

L’aumento del budget militare cinese​

Il budget militare dichiarato della Repubblica Popolare Cinese ammonta ufficialmente a circa 225 miliardi di dollari, una cifra quattro volte inferiore rispetto a quella registrata dagli Usa. Eppure, ogni minima oscillazione cinese crea ansie e preoccupazioni tra i corridoi della Casa Bianca.

Nell’ultimo decennio, la spesa per la difesa della Cina è aumentata di circa il +10% ogni anno, con il 2014 che ha visto l’aumento più elevato, pari al +12,2%. Il premier uscente Li Keqiang ha inoltre scritto nel rapporto presentato ai delegati che “i tentativi esterni di sopprimere e contenere la Cina sono in aumento” e che “le forze armate dovrebbero intensificare l’addestramento e la preparazione militare su tutta la linea”.

In ogni caso, l’aumento delle spese militari cinesi arriva in un momento particolare, in cui i legami tra Pechino e Washington si stanno deteriorando, sia a causa della diatriba sulla guerra in Ucraina sia per via della vicenda del pallone spia. Per non parlare, poi, dei ripetuti allarmi lanciati da funzionari e alte sfere militari statunitensi sul rischio che la Cina possa invadere Taiwan da qui ai prossimi anni.

La crescita continua​

Anche se, come detto, la spesa militare della Cina vale un terzo di quella statunitense, il think tank Csis ha fatto notare come questa sia comunque cresciuta di cinque volte negli ultimi due decenni e superi adesso il budget combinato delle 13 maggiori spese militari nell’Indo-Pacifico. Il rafforzamento cinese sulla difesa supera anche significativamente le voci di bilancio relative ad altri campi, come l’istruzione, la sicurezza sociale e la ricerca scientifica. Attenzione però, perché i confini tra i vari ambiti sono molto sfumati.

Come se non bastasse, gli analisti sostengono che la messa in servizio della terza portaerei cinese, prevista per questa estate, la rapida produzione di nuovi cacciatorpediniere e aerei da combattimento, nonché gli investimenti nella tecnologia spaziale e nell’intelligenza artificiale per i sistemi di puntamento missilistico, saranno probabilmente le principali aree di spesa quest’anno.

Il governo cinese fornisce pochi altri dettagli sulla sua spesa per la difesa, oltre ad offrire una ripartizione per personale, addestramento, manutenzione e attrezzature. Tutto ciò rende pressoché impossibile tracciare determinati acquisti o cambiamenti nell’attività militare di Pechino. Certo è che l’aumento delle attività di esercitazione e pattugliamento dell’esercito cinese nei pressi di Taiwan ha generato importanti costi aggiuntivi.

Nel frattempo, Olaf Scholz ha lanciato un chiaro avvertimento alla Cina: ci sarebbero “conseguenze” se Pechino inviasse armi alla Russia per la guerra in Ucraina. In una intervista alla Cnn, il cancelliere tedesco si è però detto abbastanza ottimista sul fatto che Pechino si asterrà dal farlo. Alla domanda se potesse immaginare di sanzionare la Cina nel caso aiutasse Mosca, Scholz ha risposto: “Penso che avrebbe delle conseguenze, ma ora siamo in una fase in cui stiamo mettendo in chiaro che ciò non deve accadere e sono relativamente ottimista che avremo successo con la nostra richiesta, ma dovremo verificare”.
 
L'industria delle armi Usa non è pronta per una guerra con la Cina

DIFESA /
Federico Giuliani
26 GENNAIO 2023
La guerra in Ucraina ha acceso i riflettori sull’industria della Difesa Usa. Dall’inizio del conflitto ad oggi gli Stati Uniti si sono impegnati ad inviare a Kiev oltre 27 miliardi di dollaritra attrezzature e rifornimenti militari. Nei pacchetti di auti autorizzati da Joe Bidentroviamo di tutto: dagli elmetti agli Humvee passando per gli Himars. Se da un lato è vero che il sostegno del blocco occidentale ha consentito agli uomini di Volodymyr Zelensky di tener testa alle forze del Cremlino, dall’altro lato il fatto che i combattimenti stiano lasciando spazio ad una estenuante guerra di logoramento potrebbe complicare, e non poco, la situazione.
Il continuo afflusso di armamenti che dall’Occidente si dirige sul territorio ucraino comporta, infatti, un pericolo strategico che non dovrebbe essere sottovalutato. In primis dagli Stati Uniti, impegnati in una “nuova guerra fredda” con la Cina, alla Casa Bianca considerata la vera rivale sistemica contro cui competere per il dominio del XXI secolo. Si tratta, nello specifico, della possibilità, di questo passo e in proiezione futura sempre meno astratta, che gli inventari di armi Usa possano scendere ad un livello troppo basso. E che, di conseguenza, le società impegnate nel settore della Difesa non siano abbastanza attrezzate per rimpinguare le scorte ad un ritmo sostenuto.
Secondo uno studio scritto da Seth Jones, vice presidente del Center for Strategic and International Studies, un think tank con sede a Washington, la guerra in Ucraina avrebbe semplicemente messo in luce i problemi diffusi nell’industria americana degli armamenti che potrebbero ostacolare la capacità delle forze armate statunitensi di combattere un conflitto di lunga durata contro la Cina.

Il report, intitolato Empty Bins in a Wartime Environment: The Challenge to the U.S. Defense Industrial Base, sostiene che la base industriale della Difesa Usa non sia preparata per l’attuale contesto della sicurezza globale. E questo perché la stessa industria sta operando ormai da troppi anni in un modo più adatto ad un ambiente in tempo di pace. Lo studio, tra l’altro, ha mostrato quanto velocemente le forze armate statunitensi esaurirebbero le loro munizioni in un potenziale conflitto con la Cina nell’Indo-Pacifico. “Come si fa a scoraggiare in maniera efficace se non si dispone di scorte sufficienti del tipo di munizioni di cui si avrà bisogno per uno scenario simile allo Stretto di Taiwan?”, si è chiesto Jones.

Le criticità dell’industria militare Usa​

Negli ultimi 20 anni, ha ricordato il Wall Street Journal, gli Stati Uniti hanno combattuto una guerra di insurrezione in Iraq, una in Afghanistan e altre, minori, altrove. In tutti i casi, Washington ha sempre usato una strategia ben precisa, affidandosi ad un’alta intensità di truppe. Il punto è che l’attuale conflitto ucraino è una guerra diversa, in gran parte convenzionale, e che si basa per lo più su armi pesanti. Peggio ancora, sostiene il paper, anche se un eventuale scontro con la Cina nel teatro indo-pacifico sarebbe ancora differente rispetto alla guerra in Ucraina, richiederebbe comunque agli Stati Uniti di attingere in profondità alle proprie scorte di armamenti.

Ebbene, i problemi con la base industriale, in parte il risultato di procedure di appaltomilitari obsolete nonché di una burocrazia lenta, stanno compromettendo la capacità di creare un credibile deterrente nell’Indo-Pacifico e di affrontare la Cina in un conflitto militare. “Queste carenze renderebbero estremamente difficile per gli Stati Uniti sostenere un conflitto prolungato. Sottolineano anche che la base industriale della Difesa Usa dispone di un’adeguata capacità di intervento per una grande guerra”, si legge nel rapporto.

Il tasso di consumo di armi da parte degli ucraini ha acceso i riflettori sulle sfide che la base industriale statunitense potrebbe affrontare in un nuovo conflitto. Basta considerare alcuni dati. Il numero di missili Javelin inviati in Ucraina dallo scorso agosto, ad esempio, è pari a circa sette anni di produzione sulla base dei tassi di produzione dell’anno fiscale 2022. Il numero di sistemi Stinger antiaerei forniti a Kiev rappresenta all’incirca lo stesso numero di sistemi esportati all’estero negli ultimi 20 anni.

Le munizioni da 155 mm fornite agli uomini di Zelensky da Washington, oltre un milione, hanno ridotto le scorte delle forze armate Usa, adesso considerate scarse dal documento. Anche gli inventari del sistema Javelin, dell’artiglieria obice e dei radar di controartiglieria sono considerati bassi. Le piattaforme, come il sistema di difesa costiera Harpoon, teoricamente fondamentale nella strategia di difesa di Taiwan, sono invece considerate medie, anche se le scorte attuali potrebbero non essere sufficienti per il tempo di guerra. “La storia della mobilitazione industriale suggerisce che ci vorranno anni prima che la base industriale della Difesa produca e fornisca quantità sufficienti di sistemi d’arma critici e munizioni e ricapitalizzi le scorte che sono state esaurite”, ha evidenziato il paper.

Gli errori del governo Usa​

I leader militari americani hanno espresso una crescente frustrazione per la base industriale e pure per alcune scelte della politica. L’ammiraglio Daryl Caudle, il capo del comando delle forze della flotta degli Stati Uniti, ha chiamato in causa l’industria della Difesa per il ritardo nella fornitura di armi. Altri hanno fatto notare come, a differenza della questione ucraina, gli Stati Uniti e i loro alleati si aspettano che Taiwan non possa essere facilmente rifornita dopo l’inizio di un conflitto, dal momento che le forze cinesi probabilmente bloccherebbero l’isola. Come se non bastasse esiste già un arretrato di oltre 19 miliardi di dollari di armi statunitensi a Taipei, sulla base delle vendite approvate dal 2019.

Scendendo nei dettagli, lo studio del CSIS ha puntato il dito contro il governo degli Stati Uniti che non è riuscito ad adattarsi, rimanendo “avverso al rischio, inefficiente e pigro” in relazione alla sua base industriale. I regolamenti governativi che disciplinano le vendite militari all’estero, inoltre, sono ritenuti obsoleti, visto che l’attuale processo può richiedere dai 18 ai 24 mesi. “Nel tentativo di impedire che la tecnologia militare possa cadere nelle mani degli avversari, gli Stati Uniti hanno messo in atto un regime normativo troppo lento per funzionare con i Paesi critici in prima linea”, si legge ancora nel report.

Lo studio ha citato un esempio in cui la decisione di fornire un sistema d’arma X a Taiwan, utilizzando l’attuale processo di vendita militare all’estero degli Usa, ha aggiunto due anni alla data di consegna. Significa che, in condizioni simili, servirebbero quattro anni per far arrivare sull’isola l’arma X, contando il tempo di produzione di due anni.


Il governo cinese, al contrario, ha investito un’ingente quantità di denaro nella sua Difesa e nella modernizzazione militare. Una serie di wargames condotti dal CSIS ha infine dimostrato che gli Stati Uniti, in caso di conflitto con la Pechino, potrebbero esaurire alcune armi, comprese munizioni a lungo raggio e guidate con precisione, in meno di una settimana. Lo studio suggerisce infine agli Usa di rivalutare i requisiti per il rifornimento delle proprie scorte, la creazione di una riserva strategica di munizioni e la determinazione di un piano sostenibile di approvvigionamento di munizioni.
 
La produzione bellica Usa è insufficiente a sostenere un ritmo di guerra

DIFESA /
Paolo Mauri
14 MARZO 2023
L’amministrazione Biden ha proposto, per il 2024, un aumento del bilancio per la Difesa pari a circa il 3% (25 miliardi) che porterà la spesa complessiva a 842 miliardi di dollari.
Se verrà mantenuta questa tendenza, il risultato sarà il più alto budget militare dalla fine della Seconda guerra mondiale, molto più alto rispetto ai picchi raggiunti durante la guerra di Corea, quella del Vietnam o al culmine della Guerra fredda. “Il bilancio dà la priorità alle risorse per gli investimenti critici che consentono al Dipartimento (della Difesa ndr) di continuare l’attuazione della Strategia di Difesa Nazionale, incluso il raggiungimento del giusto mix di capacità per difendersi dalle minacce attuali e future”, ha affermato in una nota il Segretario alla Difesa Lloyd Austin.
Oltre alla Cina, che l’amministrazione statunitense definisce come “sfida incalzante”, la richiesta di finanziamenti prevede anche una serie di misure per contrastare la Russia attraverso il sostegno militare all’Ucraina. La richiesta della Casa Bianca si sofferma principalmente sull’acquisizione di tecnologie e sullo sviluppo di settori chiave della base industriale statunitense come la microelettronica, la costruzione di sottomarini e la produzione di munizioni. Proprio queste ultime hanno rivelato una lacuna strutturaledell’industria bellica statunitense e, più in generale, di quella occidentale.
Nel documento ufficiale, redatto in collaborazione col Pentagono, si afferma che le nuove spese serviranno a modernizzare ed espandere la capacità produttiva nazionale per garantire che l’esercito possa soddisfare le richieste di munizioni che sono vertiginosamente aumentate da quando è iniziato il conflitto in Ucraina, per via del supporto militare statunitense a Kiev.
Si calcola che, all’incirca, siano state fornite scorte di armi per un valore di oltre 32 miliardi di dollari, tra cui più di un milione di proiettili da 155 millimetri, 1600 missili spalleggiabili antiaerei “Stinger”, 8500 missili guidati anticarro “Javelin”, 1800 droni “Phoenix Ghost” e 38 M-142 Himars.

Come detto, il contrasto alla Cina rappresenta il dossier principale per la Casa Bianca, infatti nella proposta di bilancio sono stati stanziati 9,1 miliardi di dollari per la Indo-Pacific Deterrence Initiative, ma il conflitto in Ucraina ha determinato una spesa imprevista che ha portato a 6 miliardi i fondi destinati al contrasto alla Russia attraverso il sostegno a Kiev.
Questo doppio onere finanziario sta evidenziando tutta la fragilità del sistema industrialestatunitense: uno studio del Center for Strategic and International Studies (Csis) mostra che l’attuale produzione di armamenti Usa potrebbe essere insufficiente per evitare l’esaurimento delle scorte di articoli chiave che Washington sta fornendo a Kiev. Inoltre, anche a tassi di produzione accelerati, è probabile che ci vorranno almeno cinque anni per recuperare il numero in inventario di missili “Javelin”, “Stinger” e di altri armamenti inviati. Il Csis lancia anche un altro allarme: l’industria della difesa degli Stati Uniti non è adeguatamente preparata per il contesto di sicurezza internazionale che esiste ora, e in caso di un grande conflitto regionale, come una guerra con la Cina nello Stretto di Taiwan, l’uso di munizioni da parte Usa supererebbe probabilmente le attuali scorte. Secondo i risultati di una serie di giochi di guerra effettuati dall’istituto statunitense, probabilmente alcune munizioni, come quelle a lungo raggio e di precisione, si esaurirebbero in meno di una settimana in un conflitto del genere.

La guerra in Ucraina ha messo quindi in luce gravi carenze nell’industria bellica degli Stati Uniti e serve come promemoria del fatto che un conflitto prolungato rischia di essere una guerra industriale che richiede un sistema in grado di produrre abbastanza munizioni e armi per sostituire quelle esaurite.

Un dato è emblematico, e riguarda proprio i proiettili per l’artiglieria da 155 millimetri: in Ucraina ne sono stati sparati, in media 7700 al giorno – ora si stima che, con l’esaurimento delle scorte, il numero si aggiri intorno ai 5mila – mentre la loro produzione mensile statunitense è di 14mila colpi.

Il generale Mark Milley, capo di Stato maggiore della Difesa Usa, ha previsto che la rapida diminuzione delle munizioni disponibili nei magazzini potrebbe richiedere un ulteriore aumento della spesa del Pentagono oltre quanto già previsto.

In Europa, come sappiamo, i problemi sono altrettanto gravi. Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha avvertito a febbraio che la tempistica di consegna per le armi di grosso calibro è più che triplicata, il che significa che quello che viene ordinato ora non verrà consegnato prima di due anni. In Germania, che ha varato un piano per la ristrutturazione delle sue forze armate che stenta ancora a essere messo in atto, si ritiene che la scorta di munizioni sia sufficiente per due giorni di combattimenti, mentre in una simulazione effettuata dai britannici, le azioni belliche sono durate otto giorni.

Per affrontare questi problemi, i leader dell’Unione Europea stanno esplorando modi per accelerare la produzione, possibilmente utilizzando accordi di acquisto anticipato sul modello di quanto accaduto durante lo sviluppo dei vaccini contro il coronavirus, ma come abbiamo più volte anticipato, la situazione non è affatto promettente.

In Europa, infatti, si fatica a stanziare fondi adeguati – eccezion fatta per alcune nazioni come la Polonia o i Baltici – e di conseguenza gli ordini per l’industria arrivano con lentezza. Bisogna poi considerare che, sino a prima del conflitto, le linee di produzione venivano solitamente chiuse una volta evaso l’ordine, e proprio perché non esiste la necessità di avere un’economia di guerra, l’industria della Difesa si concentra sull’innovazione (anche perché più remunerativa per ordini medio/bassi).

Dall’altra parte della barricata, come sappiamo, non stanno meglio: la Russia a novembre ha interrotto il suo programma di sviluppo di nuovi armamenti per il quale negli ultimi 10 anni sono stati stanziati più di 20 trilioni di rubli dal bilancio federale. All’inizio di quel mese il presidente Vladimir Putin ha dato ordine di “adeguare gli standard per la fornitura delle Forze armate della Federazione russa” tenendo conto “dell’intensità di uso e usura dei beni materali” nel corso del conflitto in Ucraina e quindi portare l’approvvigionamento di armamenti “in linea con le reali esigenze” delle forze armate.

Tornando in Europa, la difficoltà di approvvigionamento – che è da considerarsi cronica – per quanto riguarda le munizioni o i sistemi d’arma, ha portato chi può spendere soldi ad affidarsi al mercato extra-europeo che garantisce, almeno in alcuni settori, pronta consegna: nel periodo 2017-2021 la Norvegia ha investito l’83% del suo budget in armamenti di fabbricazione Usa, il Regno Unito circa 77%, l’Italia il 72% e i Paesi Bassi addirittura il 95%, e scendendo in dettaglio la Polonia ha anche “fatto spesa” di armi in Corea del Sud con un’importante commessa del valore complessivo di 20 miliardi di dollari per la fornitura di 180 Mbt (Main Battle Tank) tipo K2, obici e 48 velivoli Fa-50. Non si tratta solo di soldi che hanno abbandonato il Vecchio Continente, ma anche di un duro colpo per l’expertise continentale che vede le commesse essere piazzate altrove.
 
Gli Usa aumentano la spesa militare: 858 miliardi nel 2023 - InsideOver

Gli Usa destineranno 858 miliardi di dollari alla spesa militare per l’anno fiscale 2023. Lo ha deliberato il Congresso approvando la consueta National Defense Authorization Act (NDAA), la legge che il parlamento statunitense deve approvare ogni anno per rinnovare i finanziamenti all’esercito e all’industria bellica. Il provvedimento è passato sia alla Camera sia al Senato, con maggioranze bipartisan in entrambe le camere. Per entrare in vigore, adesso manca soltanto la firma del Presidente.

«L’accordo di quest’anno – scrive la commissione Servizi Armati del Senato – si concentra sulle priorità più vitali per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, tra cui la competizione strategica con la Cina e la Russia; le tecnologie dirompenti come le armi ipersoniche, l’intelligenza artificiale, il 5G e l’informatica quantistica; l’ammodernamento delle nostre navi, dei nostri aerei e dei nostri veicoli; e il miglioramento della vita dei nostri militari e delle loro famiglie». Priorità grossomodo già ribadite dalla National Security Strategy proclamata dalla Casa Bianca lo scorso ottobre.

L’ennesimo record si prospetta all’orizzonte, oltre gli 800 miliardi del 2021, ma in linea con una tendenza ormai ventennale. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti iniziarono una vertiginosa corsa al riarmo che si era arrestata negli anni Novanta con Bill Clinton per ripianare l’ingente debito pubblico creato negli anni Ottanta dall’amministrazione Reagan con lo scopo di competere con l’Unione Sovietica, l’unico Paese che nell’ultimo secolo è stato in grado di sorpassare il budget riservato alla difesa degli Usa, pagando questi sforzi con un inesorabile crollo politico e sociale. La minaccia del terrorismo islamico e le guerre in Afghanistan e Iraq hanno riportato la readiness americana ai tempi della guerra fredda. Se però 858 miliardi possono sembrare una cifra spaventosa (lo sono), è pure vero che la spesa militare in percentuale al PIL degli Stati Uniti è più o meno stabile da un decennio, allineandosi di poco sopra il target NATO del 3% a cui, tra gli altri Stati membri, vi si avvicina solo il Regno Unito. A dimostrazione della straordinarietà della potenza economica statunitense, l’America spende per il suo esercito quanto Cina, India, UK (nazione alleata), Russia, Francia (nazione alleata), Germania (nazione alleata), Arabia Saudita, Giappone (nazione alleata) e Corea del Sud (nazione alleata) messi insieme.


Dagli stipendi alla guerra in Ucraina: le voci di spesa più ingombranti​

Degli 858 miliardi in programma, la quasi totalità (816) finirà al Pentagono e 30 saranno assegnati al Dipartimento dell’Energia per l’applicazione di alcuni “programmi di sicurezza nazionale”. Va precisato, comunque, che l’aumento in termini assoluti per il 2023 è dovuto principalmente all’inflazione, che dovrebbe segnare +7/8% alla fine del 2022. Una crisi da cui tuttavia potrebbe beneficiare l’esercito.

Nonostante la legislazione generale sul lavoro sia rimasta in alto mare durante questa legislatura, il Congresso ha dato il via libera a un aumento del 4,6% dei salari dei soldati, l’incremento maggiore dal 2002. Migliorano anche le condizioni generali del personale, con nuovi contributi alla rete di welfare di cui, a differenza della popolazione civile, gode l’esercito americano. Biden potrebbe però avere qualche riserva riguardo all’abolizione dell’obbligo di vaccinazione contro il Covid-19, inserita nella legge grazie a un emendamento dei parlamentari Repubblicani.

Un altro impulso alla spesa militare americana è stato dato senz’altro dalla guerra in Ucraina. Washington ha staccato numerosi “assegni in bianco” per soddisfare le richieste di Volodymyr Zelensky. Dall’inizio del conflitto, sono stati stanziati 68 miliardi di dollari in aiuti umanitari, finanziari e soprattutto militari. L’invio di sistemi d’arma sempre più complessi, un processo graduale ma perfettamente oculato, si sta rivelando decisivo, avendo permesso agli ucraini di bloccare le offensive russe in Donbass e grazie ai quali sono arrivati successi strategici a Izyum e a Kherson. Tornando ai numeri, l’NDAA per il 2023 prevede un altro stanziamento di 800 milioni per il governo di Kiev, 500 in più di quanti pensava in un primo momento di inviarne il Presidente.

C’è poi l’immancabile “pivot to Asia”. 11 miliardi e mezzo di dollari se li aggiudicherà la Pacific Deterrence Initiative, che raccoglie tutte le missioni Usa dalla difesa antimissile di Guam allo stretto di Formosa. Regna l’incertezza anche per quanto riguarda Taiwan. Come segnalato qualche giorno fa, Uncle Sam è in ritardo in una consegna di armi del valore di 19 miliardi all’arcipelago rivendicato dalla Cina comunista, ma dietro a queste apparenti calende greche ecco che spunta il Taiwan Enhanced Resilience Act of 2022, con il quale gli States si impegnano a investire 10 miliardi nella difesa di Taiwan.

Aviazione, cybersicurezza e nucleare​

L’Air Force potrà inoltre contare su fondi supplementari. Confermati gli ordini per quattro EC-37B Compass Call, velivoli da guerra elettronica nuovissimi di zecca, trentasei caccia F-35 e dieci elicotteri SAR di tipo HH-60W. Quasi mezzo miliardo sarà investito sui Boeing E-7, sistemi aviotrasportati di preallarme e controllo su cui gli Stati Uniti vogliono puntare per sostituire i modelli più vecchi. La scommessa del futuro però sono le armi ipersoniche e gli aeromobili senza pilota, i droni diventati protagonisti in Ucraina, che vedranno moltiplicarsi le risorse per la ricerca e lo sviluppo.

Sorridono anche marina ed esercito, con l’acquisto di altre navi e di sottomarini per la prima, veicoli corazzati da combattimento, munizioni, armi a lungo raggio e a corto raggio per la seconda; mentre CYBERCOM (il comando per la Cybersecurity) avrà un ruolo di primo piano ricevendo 44 milioni per l’operazione Hunt Forward in Ucraina, dove sta proseguendo la stretta cooperazione tra intelligence. Sempre CYBERCOM si occuperà di redigere un report ogni due anni fino alle presidenziali 2032 per garantire sull’integrità delle elezioni e la capacità di respingere le minacce provenienti dall’estero.

Infine, si potenzia la deterrenza, questione nevralgica negli ultimi tempi, con un aggiornamento alla triade nucleare, in particolare alla difesa missilistica di teatro e interna. Un po’ paradossalmente, verranno stanziati 354 milioni di dollari per lo storico programma Cooperative Threat, che ha come obiettivo la riduzione dell’arsenale nucleare, che consta di qualche migliaio di testate attive.
 
Aukus, trovato l'accordo per i sottomarini nucleari australiani: cosa prevede

A San Diego (California), durante un incontro al vertice tra il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il primo ministro britannico Rishi Sunak e quello australiano Anthony Albanese, è stato annunciato che all’Australia verranno consegnati entro il 2030 tre sottomarini da attacco a propulsione nucleare (SSN) della classe Virginia (di seconda mano) con l’opzione per altri due secondo quanto stabilito dall’accordo Aukus, sottoscritto tra le tre nazioni nel 2021.

Legami rinforzati tra Usa e Australia​

La nuova alleanza tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti si configura come un partenariato di “sicurezza trilaterale rafforzato” il cui scopo è quello “di approfondire la cooperazione diplomatica, di sicurezza e di difesa nella regione indo-pacifica”. Proprio uno dei punti fondamentali dell’Aukus, oltre a quello dell’acquisizione di sistemi missilistici da crociera per Canberra, è quello relativo alla cessione/costruzione di SSN per migliorare le capacità di deterrenza australiane con battelli in grado di restare in mare per lunghissimo tempo (il limite è dato fondamentalmente dalla resistenza dell’equipaggio) e quindi allargare il raggio di azione dei pattugliamenti.

La Casa Bianca ha reso noto che è stato identificato il percorso ottimale per fornire all’Australia un sottomarino a propulsione nucleare armato convenzionalmente attraverso un approccio in più fasi per permettere a Canberra di dotarsi di tale nuova capacità molto più rapidamente di quanto originariamente previsto quando è stata lanciata questa partnership. In particolare, tutte e tre le nazioni alzeranno il livello delle rispettive basi industriali dedicate alla costruzione di sottomarini e questo comporterà un livello di cooperazione tecnologica quasi senza precedenti.

Le fasi dell’accordo​

In dettaglio, è stato spiegato che la prima fase è già in corso con la prospettiva di accelerare gli sforzi congiunti nei prossimi anni: i sottomarini statunitensi e britannici visiteranno i porti in Australia con più frequenza a partire da quest’anno. I marinai australiani si integreranno quindi sempre più nelle forze sottomarine statunitensi e britanniche e nelle scuole di gestione della propulsione nucleare. La Casa Bianca ha riferito, in particolare, che quest’attività è già iniziata e che nei prossimi mesi operai australiani lavoreranno nei cantieri navali statunitensi, mentre a partire da quest’anno, l’Australia costruirà le sue infrastrutture per ospitare i sottomarini statunitensi e britannici e i prossimi australiani.

Una volta che l’Australia sarà pronta, nel 2027 verrà stabilita una forza di sottomarini statunitensi e britannici che a rotazione sarà basata in Australia, denominata Submarine Rotational Forces West. Questa forza di rotazione contribuirà a costruire la capacità di gestione australiana degli SSN e rafforzerà anche la deterrenza nell’Indo-Pacifico.

La seconda fase inizierà nei primi anni ’30. Una volta che gli australiani saranno addestrati e pronti, Canberra acquisterà dagli Stati Uniti tre sottomarini della classe Virginia armati con un’opzione per altri due se necessario. Ciò contribuirà a far crescere sistematicamente le capacità e la gestione degli australiani per i sottomarini a propulsione nucleare e contribuirà a garantire che l’Australia non subisca alcun divario capacitivo quando i suoi attuali sottomarini diesel/elettrici di classe Collins (SSK o hunter/killer) verranno ritirati a cominciare dal 2030.

La terza e ultima fase è prevista a cominciare dalla fine degli anni ’30, ma i lavori propedeutici per attuarla inizieranno a breve termine. Si tratta della questione più interessante ovvero quella della nascita di una nuova classe di SSN tutta australiana sfruttante il meglio delle tecnologie statunitensi, britanniche e nazionali nota, per il momento, come SSN-Aukus. Questi si baseranno su un progetto britannico e incorporeranno tecnologie dei battelli della classe Virginia ma saranno costruiti nel Regno Unito e in Australia. Londra intende consegnare il suo primo SSN-Aukus alla fine degli anni ’30, mentre l’Australia intende consegnare il primo battello di questo tipo costruito localmente all’inizio degli anni ’40. Questo progetto richiederà miglioramenti significativi nella capacità industriale in tutti e tre i Paesi partecipanti e infatti il presidente Biden ha promesso 4,6 miliardi di dollari per espandere la capacità di costruzione di sottomarini degli Stati Uniti e migliorare la manutenzione dei suoi classe Virginia.

Un avviso alla Cina (e alla Francia)​

Il primo ministro australiano ha affermato che il piano, che costerà a Canberra fino a 368 miliardi di dollari australiani (più di 228 miliardi di euro) in 30 anni, rappresenta “il più grande investimento singolo nella capacità di difesa dell’Australia in tutta la sua storia”. Il primo ministro britannico Sunak, durante la visita negli Stati Uniti, ha anche affermato che il Regno Unito aumenterà la spesa per la Difesa di quasi 5 miliardi di sterline (6 miliardi di dollari) nei prossimi due anni per contrastare le minacce degli Stati ostili, e quasi negli stessi giorni Londra ha pubblicato un aggiornamento della sua strategia di sicurezza (Integrated Review Refresh 2023) in cui viene data la priorità alla sicurezza collettiva nell’area Euro-Atlantica e si sottolinea la necessità di creare legami più forti nell’Indo-Pacifico, nel Golfo Persico e in Africa, in quanto regioni di crescente importanza per gli interessi del Regno Unito.

La Cina, a seguito delle dichiarazioni di San Diego, ha espresso forti critiche: martedì il ministero degli Esteri di Pechino ha accusato le tre nazioni di “camminare sempre più sulla via dell’errore e del pericolo”. Questo atteggiamento però non stupisce in quanto la Cina ha da sempre criticato aspramente la firma dell’Aukus avvisando che rappresenta anche un colpo per la non proliferazione nucleare, ma gli Usa e il Regno Unito hanno affermato che l’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) ha apprezzato la trasparenza dimostrata nel corso della definizione dell’accordo per i sottomarini nucleari australiani.

Proprio in merito alla proliferazione nucleare, il Cremlino ha fatto sapere, attraverso il portavoce Dmitry Peskov, che il piano per vendere all’Australia i sottomarini “solleva molte domande legate alla non proliferazione”, e che occorre “trasparenza” ed è necessario “rispondere a tali domande”. La questione, infatti, rappresenta un precedente mai visto sino a oggi: nessun Paese non dotato di armi nucleari ha mai operato sottomarini a propulsione nucleare.

Quanto pianificato per gli SSN australiani fa però tramontare la possibilità, per la Francia, di poter fornire degli SSK ad interim all’Australia dopo che, proprio con la firma dell’Aukus, Canberra aveva stracciato l’accordo per la costruzione di sottomarini con Parigi, generando ire in quel dell’Eliseo che si sono placate con difficoltà.
 
Cos'è e cosa prevede Aukus: il patto tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti

L’accordo tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti – noto come Aukus dalle iniziali dei nomi dei Paesi in lingua inglese – è un episodio che appare fondamentale nelle logiche dell’Occidente e nei rapporti di forza dell’Indo-Pacifico. Il patto tripartito, che prevede la condivisone di tecnologia militare, intelligence, capacità nell’intelligence artificiale ma soprattutto la dotazione di sottomarini a propulsione nucleare all’Australia apre la strada a due problemi.

Da una parte mostra l’interesse Usa verso il Pacifico e il disinteresse nei confronti degli Stati europei. In particolare della Francia, che si è vista cancellare un contratto da più di 40 miliardi di dollari. Dall’altra parte, la mossa di Londra e Washington per armare Canberra con questi sommergibili conferma una corsa al riarmo che preoccupa soprattutto la Cina, terrorizzata dall’idea che i rapporti di forza nella regione possano mutare in favore del blocco dell’Indo-Pacifico legato agli Stati Uniti. Washington, con Aukus, Quad, accordi Asean e cooperazione con l’India, sembra sempre più coinvolta nel quadrante Pacifico e intenzionata a fermare l’espansione verso est della Repubblica popolare cinese.

Cosa prevede Aukus

L’alleanza tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti è definita dai governi che l’hanno siglato come una partenariato di “sicurezza trilaterale rafforzato” il cui scopo è quello “di approfondire la cooperazione diplomatica, di sicurezza e di difesa nella regione indo-pacifica, anche lavorando con i partner, per affrontare le sfide del ventunesimo secolo”. Nella dichiarazione congiunta firmata da Boris Johnson, Scott Morrison e Joe Biden, si legge: “Promuoveremo una più profonda condivisione di informazioni e tecnologie. Promuoveremo una più profonda integrazione della scienza, della tecnologia, delle basi industriali e delle catene di approvvigionamento legate alla sicurezza e alla difesa. E in particolare, approfondiremo significativamente la cooperazione su una serie di capacità di sicurezza e difesa”.
Il primo passaggio dopo la nascita dell’alleanza Aukus è quello di dotare l’Australia di sottomarini a propulsione nucleare. Un obiettivo che ha scatenato l’ira della Francia – come spiegheremo più avanti – ma che rappresenta anche la chiave per comprendere l’importanza di questo accordo. “Sfrutteremo l’esperienza degli Stati Uniti e del Regno Unito, basandoci sui programmi sottomarini dei due Paesi per mettere in servizio una forza australiana alla prima data raggiungibile” fanno sapere da Canberra.
Questo, va ricordato, non implica il passaggio a sottomarini lanciamissili balistici, negati anche dalla nota pubblicata dopo l’annuncio del patto trilaterale. Anzi, nella nota dopo la firma di Aukus si conferma che “l’Australia rimane impegnata ad adempiere a tutti i suoi obblighi come Stato non dotato di armi nucleari, anche con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica”.
Ma Aukus non prevede solo la dotazione di sottomarini nucleari all’Australia. Sottomarini che saranno costruiti nei cantieri australiani, dando quindi modo a Canberra di aumentare i posti di lavoro e di realizzare in loco i nuovi gioielli della flotta. L’alleanza infatti prevede che i tre Paesi “si concentreranno sulle capacità informatiche, sull’intelligenza artificiale, sulle tecnologie quantistiche e su ulteriori capacità sottomarine”. Una sinergia che diventerà presto interoperabilità e che si inserisce nel quadro di due alleanze precedenti: i Five Eyes e il Quad. Inoltre, il governo australiano ha ribadito che nell’arco di un decennio le forze armate si doteranno di missili da crociera Tomahawk, missili Standoff, missili anti-nave a lungo raggio l’F/A-18F Super Hornet, missili teleguidati di precisione per le forze di terra. E a questo si aggiunge l’ulteriore scambio di tecnologie per la produzione di missili ipersonici.

Gli interessi dei firmatari

Australia, Regno Unito e Stati Uniti hanno interessi in comune, ma non per questo completamente aderenti.
L’Australia, che è da decenni considerato l’avamposto del blocco a guida Usa nel Pacifico, considera da tempo fondamentale controbilanciare (certo non da sola) l’avanzata cinese nell’area. Un interessamento che deriva non solo da una continua espansione delle forza militare di Pechino, ma anche dalle mosse della Repubblica popolare in tutta la regione dell’Indo-Pacifico. Canberra sa che l’unico freno a questo cambiamento epocale della strategia pacifica, e cioè la nascita di una potenza marittima cinese, è quello di stringere i legami con l’Anglosfera. Anche a costo di rompere un accordo pluridecennale con la Francia per la fornitura di sottomarini che ha provocato non poche tensioni con Parigi.
Il governo Morrison ha provato a spiegare che quel contratto concluso nel 2016 aveva già degli ostacoli che ne rendevano difficile l’attuazione. Ha parlato di cambiamenti radicali nella sicurezza della regione e che la tecnologia nucleare non era disponibile quando firmò l’accordo con Parigi, dal momento che fino ad allora il patto di condivisione era solo tra Regno Unito e Usa. Ma è chiaro che al netto dei documenti australiani la decisione è stata soprattutto politica: si è voluto spingere per sottomarini a propulsione nucleare e di matrice anglo-americana. Blindando in questo modo le relazioni con il blocco di Washington e Londra.
Per il Regno Unito, l’interesse sembra duplice. Da una parte c’è l’evidente motivazione di inserirsi in modo sempre più radicato nel quadrante dell’Indo-Pacifico per sviluppare quell’idea di Global Britain tanto cara nel post-Brexit. La decisione di Johnson è stata dettata anche dall’evidente necessità mostrata dal suo governo di presenziare, con la flotta e con la diplomazia, nei mari dell’Estremo Oriente. E nel patto Aukus prevede un intervento che potrebbe anche essere foriero della vendita dei suoi sottomarini classe Astute. C’è poi un profilo politico in chiave europea da non poter sottovalutare: uno sgarbo all’Ue e alla Francia interrompendo un contratto da decine di miliardi di euro è sicuramente un colpo importante nelle logiche mercantiliste che regolano i rapporti tra Londra e le capitale del Vecchio Continente.
Per gli Stati Uniti, invece, l’obiettivo appare quello di contenere l’avanzata cineseevitando un ulteriore dispiegamento di forze navali. Già ampiamente presenti tra Giappone e Corea del Sud. Washington sta cercando di sganciare gradualmente gli alleati Asean e pacifici dai rapporti stretti con la Cina, ma cerca anche di rafforzare questi partner in una logica quasi “federativa”. Aukus serve così non solo a imbrigliare Pechino, ma anche a far sì che gli alleati locali siano rafforzati al punto da poter competere, in sinergia con gli Usa, a questo contenimento. Una scelta quindi dettata da interessi strategici chiari nel quadro di quel rimodellamento strategico Usa che guarda sempre più diretto alle coste del Pacifico. È li che Washington gioca la sua vera partita. Ed è lì che vuole alleati forti, in grado di sostenere le missioni americane.

Le reazioni francesi e l'allarme in Europa

La firma di Aukus ha condannato il contratto del secolo siglato da Francia e Australia per la dotazione di sottomarini diesel-elettrici prodotti da Naval Group. Un accordo di decine di miliardi di euro, quantificato tra i 40 e i 55 miliardi, che per il campione della cantieristica francese equivaleva a mettere una pietra miliare nel mercato dell’Indo-Pacifico, oltre a vedere arrivare un fiume di liquidità dopo alcune commesse perse a scapito di rivali occidentali (europei e americani).
Emmanuel Macron si è mostrato su tutte le furie per quanto avvenuto tra Canberra, Londra e Washington. Il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian ha parlato di “pugnalata alla schiena”, “abbiamo costruito una relazione di fiducia con l’Australia, ed è stata tradita” ha detto il capo della diplomazia di Parigi. E su ordine del presidente, ha richiamato gli ambasciatori in Australia e Usa.
Una scelta di rottura molto significativa, cui si è aggiunta la levata di scudi di tutta l’Europa. Ursula von der Leyen ha stigmatizzato la firma di Aukus al pari del ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, il quale ha definito la mossa del Pacifico “irritante”. L’Unione europea, che da tempo discute di autonomia strategica, ha assistito inerte a un accordo che di fatto non ha solo cancellato un contratto tra l’Australia e un Paese membro Ue, ma ha anche dimostrato la scarsa considerazione degli Stati Uniti nei confronti dei partner europei. La strategia indo-pacifica dell’Ue, annunciata ironicamente lo stesso giorno dell’accordo tra i tre Stati dell’anglosfera, è estremamente debole e poco incisiva rispetto a quella proposta da Washington. Che di certo non vuoe tentennamenti da parte di Bruxelles e Stati membri dell’Ue.

L'irritazione cinese

La reazione di Pechino è stata ovviamente pessima. Con l’Australia i rapporti erano già estremamente tesi: ma è evidente che adesso la questione diventa non solo diplomatica ed economica, ma anche militare. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, ha condannato la scelta di Stati Uniti e Regno Unito di esportare tecnologia nucleare bollandola come atto di “estrema irresponsabilità”. E riferendosi all’Australia, il funzionario cinese ha detto: “Decida se vuole trattare la Cina come partner o come minaccia”. Parole dure che rivelano però la forte irritazione da parte della Cina per un accordo che è chiaramente orientato contro le mosse di Pechino.
Il portavoce dell’ambasciata cinese negli Usa, Liu Pengyu, ha chiesto che Stati Uniti, Regno Unito e Australia la facciano finita con questa “mentalità da guerra fredda fuori tempo massimo”. Secondo Shi Yinhong, professore dii relazioni internazionali alla Renmin University, Aukus potrebbe costituire l’inizio di “un atteggiamento intransigente”. E, come scrive Agenzia Nova, anche altri esperti seguono questa linea ribadendo il fatto che questa alleanza è esattamente ciò che Pechino non vuole per l’Indo-Pacifico. Un meccanismo di sinergia tra alleati del blocco Usa che appare molto più vicino a quanto richiesto dai partner del Pacifico rispetto ad altre aree del mondo.
 
sempre più vicina l'escaletion globale ma credo profondamente che sia stato un atto americano per provocare la Federazione Russa ad agire e per giustificare l'aumento della spesa militare e per ulteriore appoggio usa a Kiev.

US military drone crashes into Black Sea after Russian intercept

WASHINGTON, March 14 (Reuters) - A U.S military MQ-9 surveillance drone crashed into the Black Sea on Tuesday after being intercepted by Russian fighter jets, in the first such incident since Russia's invasion of Ukraine over a year ago.

The Pentagon said that one of the Russian Su-27 jets struck the propeller of the drone, making it inoperable, while Russia's defense ministry blamed "sharp maneuvering" of the unmanned drone for the crash and said that its jets did not come into contact with it.

NATO's Supreme Allied Commander Europe, U.S. Army General Christopher Cavoli, briefed NATO allies about the incident, which was roundly condemned by the White House and the Pentagon -- which warned of the risk of escalation. The State Department said it was summoning Russia's ambassador over the incident.

Two Russian Su-27 jets carried out what the U.S. military described as a reckless intercept of the American spy drone before one of them collided with it at 7:03 a.m. (0603 GMT).

Several times before the collision, the Russian fighter jets dumped fuel on the MQ-9 -- possibly trying to blind or damage it -- and flew in front of the unmanned drone in unsafe maneuvers, the U.S. military said.

"Our MQ-9 aircraft was conducting routine operations in international airspace when it was intercepted and hit by a Russian aircraft, resulting in a crash and complete loss of the MQ-9," U.S. Air Force General James Hecker, who oversees the U.S. Air Force in the region, said in a statement.

"In fact, this unsafe and unprofessional act by the Russians nearly caused both aircraft to crash."

Russia's defense ministry said the U.S. drone went into the water as a result of "sharp maneuvering" by it.

"The Russian fighters did not use their onboard weapons, did not come into contact with the UAV, and returned safely to their home airfield," the ministry said.

While the United States is not sailing warships in the Black Sea, it has routinely been flying surveillance aircraft in and around the area.

The U.S. military said the incident followed a pattern of dangerous behavior by Russian pilots operating near aircraft flown by the U.S. and its allies, including over the Black Sea, which lies between Europe and Asia and is bordered by countries including Russia and Ukraine.

The White House said the drone's downing was unique, however, and would be raised directly by the State Department with their Russian counterparts.

"We have been flying over that airspace consistently now for a year ... and we're going to continue to do that," said White House National Security Council spokesperson John Kirby.

"We don't need to have some sort of check-in with the Russians before we fly in international airspace. There's no requirement to do that nor do we do it," Kirby added.

The United States will on Tuesday afternoon summon Russia's ambassador to Washington over the incident, State Department spokesperson Ned Price said.

The U.S. ambassador to Moscow has conveyed a strong message to Russia's foreign affairs ministry, Price told reporters.

The MQ-9 "Reaper" drone, which is built by General Atomics, has a wingspan of 66 feet (20 meters) and is about 36 feet (11 meters) long. The drone weighs about 4,900 pounds (2,220 kg) when it is empty.
 
ovviamente l'occidente turbocapitalistico e guerra fondaio esprime l'assurdità inconcepibile che loro non hanno fatto saltare il gasdotto, quando a febbraio un giornalista indipendente, e ovviamente non un falco come quest'altri, ha affermato con prove schiaccianti che sono stati proprio gli Stati Uniti a progettare l'interruzione del nord stream2 che va da Russia in Germania.
E la propaganda capitalistica filo-occidentale prende le difese dell'Anticristo.

Putin says Nord Stream blasts carried out on 'state level'

Putin says Nord Stream blasts carried out on 'state level'
 
Explainer: Bakhmut: Why Russia and Ukraine are battling so hard for one small city

"The decision to defend Bakhmut is now a political one not a military one," Muzyka told Reuters, saying the scale and the costs of Ukrainian losses now outweighed the benefits of holding the city from a military point of view.

Rob Lee, who was on the same trip, said on Twitter that while there were still valid reasons for Ukraine to keep defending Bakhmut, its ability to inflict heavier losses on its enemy had weakened after Russian forces seized the northern flank last month.

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SPRINGBOARD FOR RUSSIA?​

A regional transport and logistics hub, Bakhmut would be useful for Russian forces although that depends on how much of its infrastructure is intact.

More importantly, it would provide a stepping stone for Russia to advance on two bigger cities it has long coveted in the Donetsk region: Kramatorsk and Sloviansk.

Both would be in easy range of Russian artillery. Moscow needs to control both to complete what it calls its "liberation" of the "People's Republic of Donetsk."

Zelenskiy told CNN this month that he feared Russian forces would have "an open road" to the two cities if they took Bakhmut, and said his order to hold it was a tactical decision.

The nearby town of Chasiv Yar, west of Bakhmut, would probably be next to come under Russian attack, though it is on higher ground and Ukrainian forces are believed to have built defensive fortifications nearby.

Western analysts and diplomats are sceptical that Russian forces could swiftly capitalise on Bakhmut's capture given how long they have been fighting there - shelling the city since May and having launched a ground assault in August.

Russia's chaotic withdrawal from Ukraine's northeast last year also deprived it of territory that would have made it easier for its forces to seize cities like Sloviansk once they had control of Bakhmut.

PSYCHOLOGICAL BOOST?​

For Russia, Bakhmut would be a morale-boosting battlefield win after a string of defeats last year.

For Ukraine, the loss of Bakhmut could sap morale, even if - as its allies say - it might not make much of a strategic difference.

Both Pentagon chief Lloyd Austin and NATO head Jens Stoltenberg have played down the potential fall of Bakhmut as symbolic, as have Western military experts.

In a sign of Bakhmut's importance for Kyiv, Zelenskiy presented the U.S. Congress with a battle flag signed by the city's defenders when he visited the United States in December.

Retaining the city helps sustain support from Western countries, proving it is making a difference, according to Michael Kofman, an expert on the Russian military at the U.S.-based CAN think-tank.

If the city does fall, Ukraine could take comfort from the fact that it held off Russian forces for so long and extracted such a high price for Bakhmut, suggesting any Russian attempt to take more territory would be similarly costly.

WIN FOR WAGNER?​

The city's capture would be a boost for Russia's most high-profile mercenaries - Wagner Group - and their publicity-hungry founder Prigozhin.

The 61-year-old former convict and catering tycoon, who is sanctioned in the West, has been trying to curry favour with Putin and parlay his outfit's battlefield success into political influence.

While mounting evidence suggests the Kremlin has moved to curb what it sees as his excessive political clout, nobody could dispute that Wagner mercenaries, including convicts recruited by Prigozhin, have played a major role as assault troops.

Some Western military experts believe Ukraine's goal is to destroy Wagner as a fighting force in Bakhmut and that it will be unable to swiftly replenish its ranks to pose a threat elsewhere anytime soon.

"If Bakhmut is taken, Wagner will be a significantly degraded force and its ability to sustain attacks on Ukrainian positions will be questionable," said Muzyka, the Polish analyst.

Colonel General Oleksandr Syrskyi, the commander of Ukraine’s ground forces, said on Saturday during a visit to Bakhmut that Kyiv had good reason to hold the city.

"The real heroes now are the defenders who hold the eastern front on their shoulders and inflict maximum losses on the enemy," he told troops fighting there.

"The defence of Bakhmut gives us a chance to accumulate reserves and prepare for the spring counter-offensive, which is not far off."
 
esattamente è questo il motivo del perché la Russia non puoi indietreggiare da questo conflitto che la Nato gli ha imposto in modo "indiretto". Quindi, essendo che la Russia non può permettersi di perdere o di ritirarsi l'unica cosa che può fare è combattere o se l'occidente, prima o poi glielo consentirà, di negoziare.

Putin says Russia is fighting for its very existence
 
Quindi come diceva, giustamente, Luciano l'europa è pronta ad inviare, oltre che armi e soldi, anche uomini che servono per addestrare i combattenti ucraini che combattano vs la Russia.
Quindi non si tratta più di un aiuto solo "indiretto" ma anche diretto visto che adesso ci sono anche soldati europei.
Anche se l' ucraina non fa parte della Nato de facto è protetta dagli stati-nato, quindi, l'occidente sta usufruendo dell'art. 5 senza che esso, l' ucraina, ne sia parte integrante.

Returning to frontline, Ukrainian Leopard crews see their 'cat' as game-changer
 
La guerra è nell’interesse dell’Italia? – fuoricollana

Essere cobelligeranti è nell’interesse nazionale? L’Italia si ritrova nelle condizioni di maggiore debolezza, perché è troppo grande per arrabattarsi e, allo stesso tempo, troppo piccola e fragile
Questo conflitto ha un punto di vista privilegiato, e indiscutibile: quello che guarda alla guerra che si sta conducendo sul suolo dell’Ucraina, alle distruzioni e sofferenze che provoca al suo popolo.
Ma questo conflitto non si ferma lì, coinvolge anche i paesi che vi partecipano in modo collaterale e su di essi produce conseguenze, di cui potrebbe sembrare gretto discutere in questo momento e che, però, non è il caso di trascurare, anche perché danno la misura dei guasti che si stanno producendo nell’ordine mondiale.
Quel che accade in Italia ha, per questo, un valore paradigmatico.
Credo che l’opinione pubblica italiana abbia già distintamente intuito quali siano gli interessi nazionali che questo conflitto mette in gioco: non a caso i sondaggi registrano che gli italiani sono contrari, in maggioranza e con percentuali ogni giorno crescenti, a questa guerra ed alla politica che il governo sta pervicacemente seguendo.
Fare un quadro di queste ragioni “nazionali” può, tuttavia, essere utile, perché giova a far chiarezza sull’orizzonte che, rimanendo così le cose, dominerà il futuro del Paese a partire già dai prossimi mesi. Questo quadro viene dalla doppia asimmetria che esibiscono gli effetti di questa guerra sui paesi che non vi sono direttamente coinvolti e che, tuttavia, operano, e si mostrano, ormai come reali cobelligeranti, ossia i paesi appartenenti alla NATO al di qua dell’Atlantico.

Le conseguenze economiche
La prima asimmetria è – come tutti sanno – quella che corre tra gli USA e i paesi europei: tanto i rischi di estensione del conflitto che le conseguenze economiche delle sanzioni già adottate non toccano gli USA se non marginalmente e, invece, coinvolgono pesantemente l’Europa. La seconda asimmetria è – come ben si è capito – quella che corre tra i paesi europei che dipendono dalle forniture russe di gas e petrolio e/o dall’import/export di materie prime e manufatti dei paesi in guerra e quelli che per le risorse naturali che possiedono e per le rotte dei loro commerci non ne dipendono o hanno facile ricorso ad altre alternative. L’Italia – come è evidente – appartiene al primo gruppo dei paesi europei e subisce, dunque, questa doppia asimmetria in una misura che non è inferiore a quella di nessun altro. Le conseguenze di questa doppia asimmetria si colgono bene su tre piani: quello economico, quello geopolitico e quello propriamente politico. Anche se questi tre piani, evidentemente, comunicano tra loro.


Sul piano economico – lo dicono tutti – le conseguenze sono, o saranno, abbastanza disastrose. L’approvvigionamento energetico dell’Italia dipende per oltre il 40% dalle forniture di gas russo. Ed è solo propaganda sostenere che alla sua mancanza si potrà ovviare attraverso l’importazione dall’Algeria e dalla Nigeria, se solo si pensa che l’Algeria dovrà far fronte alla accresciuta domanda della Spagna (con la quale è da sempre impegnata) e che l’utilizzazione del gas nigeriano (poco) richiede un gasdotto che non c’è e per costruire il quale (sempre che convenga) sono necessari un bel po’ di anni. E lo stesso è a dire del gas liquido statunitense per il quale ci vorrebbero impianti che in atto non esistono in misura sufficiente e per costruire i quali sono necessari anche in questo caso molti anni.
Quanto all’export, quello italiano verso la Russia non è molto grande ma è pur sempre significativo. Il punto reale, però, è che la inevitabile rottura del mercato internazionale procurerà, in generale, conseguenze piuttosto pesanti. Se solo si pensa che essa genererà, comunque, una contrazione dell’export occidentale ed accrescerà la concorrenza sui mercati accessibili. E nell’aspra contesa dei prossimi anni sull’Italia peseranno i deficit finanziari e di competitività che da decenni si trascina.
Tutto questo, ad esser seri, non si apprezzerà in termini di minor raffreddamento dei condizionatori degli italiani, bensì in termini di riduzione del PIL nazionale, di disoccupazione e cassa integrazione, di caduta dei redditi e di estensione delle diseguaglianze. Chi non lo dice nasconde e, perciò, inganna.

Le conseguenze geopolitiche



Sul piano geopolitico il quadro – se si può – è anche peggiore. La vittima principale – a parte l’Ucraina ed il suo popolo – di questo conflitto è l’aspirazione ad un ordine multipolare, ad un governo multilaterale del mondo. La cui eclisse ha ricadute pesantissime sulla pace e sull’economia.
La buona riuscita della strategia offensiva degli USA dipende dalla “umiliazione” (che in sé sarebbe anche meritata) della Russia. Ma questo può avere solo due esiti: o l’allineamento della Russia all’Occidente, che condurrebbe all’accerchiamento della Cina (che confina con la Siberia russa per oltre 6.000 km.) ovvero l’allineamento della Russia alla Cina con la costituzione di un blocco orientale che sommerebbe le enormi risorse naturali e la avanzata tecnologia militar-spaziale della prima al gigantismo economico e all’efficienza della seconda. Ma la polarizzazione del mondo, cui in un caso o nell’altro inevitabilmente si giungerebbe, sarà densa di conseguenze negative per la pace e per l’economia. Per la pace, perché è evidente già ora che il vero obiettivo degli USA non è la Russia ma la Cina e la sua economia, sicché si tornerà ad un equilibrio da guerra fredda su scala questa volta più larga (andando da sé che la Cina ha quasi un miliardo e mezzo di abitanti cui provvedere e non si può permettere di rinunciare allo sviluppo che li ha riscattati da fame e arretratezza). E per l’economia, perché ne seguirà, in un modo o nell’altro, la lacerazione del mercato internazionale, come lo si è conosciuto da qualche decennio in qua, ma rispetto a sviluppi delle produzioni che sono ormai impareggiabili a quelli di qualche decennio fa (e cosa generi la crescita delle produzioni in un mercato che si riduce lo può intuire chiunque).
Dunque, una crisi. Ma come sempre accade le conseguenze delle crisi si ripartiscono in modo diseguale e colpiscono le situazioni più deboli. E l’Italia si ritrova nelle condizioni di maggior debolezza, perché è troppo grande per arrabattarsi e troppo piccola (e fragile, anche per il suo debito pubblico) per farvi fronte. Visto che questa polarizzazione ne comporterà lo schiacciamento sulle politiche statunitensi e la conseguente impossibilità di aiutarsi con “aperture” verso i paesi del blocco contrapposto (come faceva un tempo: e l’esempio della Libia è eloquente).
D’altronde, di tutto questo, e cioè della politica USA e dei suoi effetti sulla politica estera dell’Italia e sulla sua economia, i prodromi si sono già visti: basti pensare alla rinuncia coatta alla “via della seta” e all’ostruzionismo imposto verso il 5G cinese e Huawei.
Mentre difficilmente l’Europa potrà dar protezione da questo scenario, poiché la stessa Unione, e non a caso, ne è vittima: la polarizzazione del mondo la coinvolge direttamente, le toglie ogni reale autonomia politica, la schiaccia sugli USA e ne compromette gli interessi commerciali e lo sviluppo futuro della sua economia. Dopo la Cina è proprio l’Europa come si era venuta costituendo dai tempi della Merkel a costituire il bersaglio di questa politica statunitense: questa guerra è stata dichiarata con la Brexit e si è sviluppata fino alle minacce tariffarie di Trump.
E tutto questo, ancora una volta, si computa in termini di riduzione del PIL nazionale, di disoccupazione e cassa integrazione, di caduta dei redditi e di estensione delle diseguaglianze. Ed anche in questo caso, chi non lo dice nasconde e, perciò, sfugge al vero.

Le conseguenze politiche

Il piano propriamente politico – ovverosia della condizione politica nella quale sta precipitando il paese – è quello di cui meno si tratta, ma è, forse, quello più importante.
In un recente articolo apparso su Il Corriere, Paolo Mieli, che certo è tutto meno che un putiniano, ha segnalato, con grande lucidità e in modo egregio, che in Italia questa guerra ha causato una grave “devastazione delle menti”.
Questa devastazione concerne tanto la politica e le istituzioni che i mass-media e l’estensione delle stesse libertà individuali.
La politica, perché questa guerra ha accresciuto il carattere “armato” dello scontro politico. Questo processo era in atto da tempo, dall’epoca di Berlusconi e dei suoi oppositori fino a giungere alle polemiche feroci tra “populisti” e “anti-populisti” ed alle diatribe prima tra sostenitori del lockdown e libertari e poi tra vaccinisti e no-vax. Ma ora oltre a mettere l’elmetto, ha anche imbracciato il fucile: chi non accetta l’ingiunzione di far seguire alla distinzione tra ”aggredito e aggressore” l’accettazione incondizionata dell’appiattimento della politica nazionale sugli USA è in mala fede, tradisce i valori della libertà e della democrazia, è un nemico dell’Occidente, attenta alla stabilità del paese, deve essere politicamente isolato e condannato, ecc. Anche al Papa è stata rivolta, dopo l’intervista a Il Corriere, l’accusa di “fare politica” e di esser trascinato dal suo “antiamericanismo argentino”, sol perché, invece di ripetere pedissequamente la narrazione dominante e “benedire le armi”, si interroga sulla guerra con le parole del Vangelo e dice di esser disposto ad andare da Putin per invocare la pace.
Questo non solo ha spaccato le forze politiche in un modo che difficilmente potrà essere ricucito, ma ha anche oscurato tutte le questioni che investono la vita quotidiana dei cittadini. E lo ha fatto istituendo un clima bellicoso mai prima conosciuto: salute, occupazione, eguaglianza, ecc. sono costrette a cedere il passo alla bandiera da impugnare in questa guerra, con la conseguenza che chi chiede di occuparsi di queste altre cose si ritrova esposto all’accusa di minare la stabilità del governo ed esporre l’Italia al disastro nel mezzo di una guerra.

Le conseguenze istituzionali

Le istituzioni ne escono malconce tanto dal punto di vista del loro rapporto con il popolo che dal punto di vista del loro funzionamento rispetto al parametro costituzionale. Per il primo aspetto, perché la crescente divaricazione tra l’opinione pubblica e politica governativa ripropone, e accresce, la distanza tra istituzioni e popolo già manifestatasi nel 2018, con la decisiva differenza che, ora, questa divaricazione non trova più una qualche canalizzazione politica. I guasti sociali che questo può provocare non solo difficili da immaginare: o rassegnazione o rivolgimenti, rispetto ai quali non si sa cosa sia il peggio. Per l’altro aspetto, perché le abbreviazioni costituzionali sperimentate (per lo più a ragione) durante la pandemia vengono estese, con incredibile disinvoltura, anche ai comportamenti governativi sullo scacchiere della guerra: il Parlamento non ne è investito se non una tantum e solo per rilasciare una delega in bianco e il Presidente del Consiglio si rifiuta di discutere della guerra innanzi alle Camere “perché non ci sono novità rispetto a quanto deliberato all’inizio”. Dov’è – verrebbe da chiedersi – la democrazia che andiamo a difendere in Ucraina se su decisioni come la guerra che investono la vita e il destino dei cittadini il Parlamento è silenziato. Qualcuno ha ricordato che lo stesso era avvenuto per l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra e poi nella Guerra Mondiale: come dire che la guerra è una cosa troppo seria per lasciare che il popolo interloquisca. Ma cento anni non dovrebbero essere passati inutilmente. E, poi, si è visto come sempre è finita: nel primo caso con 650.000 morti e il fascismo, nel secondo 400.000 morti tra militari, partigiani e civili e un intero paese distrutto.
Quel che avviene nella politica e nelle istituzioni si riflette nel trend negativo cui sta andando incontro il sistema dell’informazione. Anche in questo caso si tratta di un processo risalente. Ma mai prima si era dovuto registrare un suo schieramento così militante/militare. Accade, talvolta (fortunatamente), che si vedano i conduttori televisivi sentirsi in dovere di “reinterpretare” gli “esperti indipendenti” chiamati nei loro talk-show quando le loro narrazioni sembrerebbero prestarsi a “fraintendimenti” (“Lei sicuramente voleva dire che …”) e/o di fermare i loro “inviati” quando si avventurino in commenti un po’ eterodossi (“la strage dei sindacati ad Odessa è un aspetto troppo complesso di cui adesso non possiamo discutere …”). Accade, invece, quasi sempre che ai commenti “spiacevoli” dei partecipanti invitati per “rappresentare” le altre opinioni e fare dibattito seguano subito le immagini di un reportage che sembra voler mostrarne l’inaffidabilità e la faziosità. Ed accade anche che un giornalista sia censurato perché, intervistando il Ministro degli Esteri russo, non lo abbia “inchiodato” alle sue responsabilità: come se l’intervista dovesse essere un processo e il giornalista un P.M.

Informazione e propaganda

Questo, ovviamente, rischia di mutare l’informazione in propaganda. Ma l’insidia alla libertà del pensiero e della cultura non è minore. La proposta della Von der Leyen di oscurare i siti russi, per quanto spudoratamente faziosi ed unilaterali possano essere, difficilmente si può ritenere compatibile con le libertà fondamentali garantite dall’Unione e dalla nostra Costituzione. L’idea di una censura delle fake news potrebbe sembrare una cosa sensata, se non fosse che presuppone qualcuno legittimato a decidere dove stia il vero e dove stia il falso o – meglio – quando e fino a che punto si possa tollerare una mezza-verità o una mezza-falsità: un arbitro universale della veridicità e della giustezza designato da chi? La proposta di escludere gli atleti russi dalle competizioni sportive offende principi elementari della nostra civiltà giuridica. Come l’ostracismo ai classici della letteratura russa e ai suoi artisti offende la cultura e la sua universalità. Ma quel che, forse, è ancora più grave, e sembra intollerabile, è che tutto questo sta producendo il diffondersi di una crescente “prudenza” nel manifestare pubblicamente le proprie opinioni: chi non condivide anche aspetti marginali del mainstream o fa precedere il proprio pensiero da mille cautele (“premesso che c’è un aggredito e un aggressore e che l’aggressore è un macellaio, un animale, un criminale …”) oppure preferisce tacere.
Tutte queste cose, prese di per loro, possono sembrare, e sono, piccole cose rispetto alla gravità di quel che accade, ai morti ed alle distruzioni. Ma poiché non si sa dove giungerà quel che accade, non si può sapere fino a che punto giungeranno, cumulandosi, tutte queste piccole cose. E così un disagio crescente si impadronisce della nostra società e sembra annunciare che non c’è più spazio per tutti.
Della guerra e delle sue conseguenze sull’Italia si può discutere quanto si vuole, ed anche di queste considerazioni e del pessimismo che le attraversa si può discutere a lungo: anzi è bene che se ne discuta sempre di più. Ma proprio per questo fa specie sentir dire dal simpatico e sincero Alan Friedman che “Draghi è il più americano dei leaders europei” senza che in Parlamento se ne possa discutere.
 
Paolo desogus

L'articolo è molto lungo, ma è magnifico, vale davvero la pena leggerlo tutto. Trovate le note in fondo al testo
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PENSIERI MOSSI DALL’AMBIZIONE. L’OCCIDENTE E LA GUERRA IN UCRAINA
1. L’allargamento della Nato, che avrebbe dovuto promuovere «stabilità e pace nell’intera regione» 1, si è concluso con un terremoto geopolitico che ha travolto le fondamenta stesse dell’architettura di sicurezza europea. Generando profondissima instabilità geopolitica, economica e sociale nel cuore dell’Europa. Facendo precipitare il globo nella più acuta e pericolosa crisi sicuritaria dai tempi della seconda guerra mondiale. Rigurgito d’imperialismo russo, vuole la vulgata. Catastrofica eterogenesi dei fini implicita nelle premesse messianiche della dottrina dell’allargamento democratico, variante clintoniana dell’idealismo wilsoniano, secondo una prospettiva più realista. Inevitabile esito di pensieri mossi dall’ambizione di estendere allo spazio post-sovietico – Russia inclusa – la Pax Americana, dando anche a questo pezzo di mondo «il futuro che merita». Alla radice, l’idea di plasmare un ordine mondiale democratico, rendendo il globo un arcipelago di democrazie in rivoluzione permanente intorno al sole di Washington, «nella straordinaria presunzione che un mondo simile sia non soltanto possibile, ma naturale» 2.

2. L’universalismo morale (ri)abbracciato dall’America come scopo e giustificazione della propria potenza dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, estendendo in indefinitum i confini dell’alleanza politico-militare che era nata per contenerla, si è così scontrato – ancora una volta – contro le immutabili leggi della geopolitica. Non prima però di aver fatto sbocciare i fiori del male dell’odio etnico ai confini d’Europa, fomentando particolarismi nazionalistici che si contendono manu militari la primogenitura sulle terre di frontiera (Ucraina) abitate da popolazioni slave. Con il plauso di Bruxelles e il sostegno più o meno convinto delle cancellerie europee, che soffiano sul fuoco del conflitto fornendo armi e addestrando 30 mila militari ucraini in nome del principio di autodeterminazione nazionale, mentre fino a ieri invocavano la cessione di sovranità, radice di ogni guerra, cantando in coro le virtù sovranazionali di «Leuropa», nata per superare tutti i nazionalismi. Per nulla preoccupati che tanta disinvoltura nel rinnegare il proprio credo possa suscitare qualche dubbio sulla sua reale consistenza. Al contrario, ansiosi di giustificare la guerra in nome dell’Europa e dei suoi valori, derubricando la contesa in termini di scontro tra autocrazie e democrazie. Come se l’Ucraina fosse una novella Atene, anziché una cleptocrazia anarchica dove, semmai, la guerra ha accelerato il processo di concentrazione del potere oligarchico (per estromissione di quello non allineato), in perfetta analogia con quanto accaduto in Russia dopo l’ascesa di Putin.

3. Si compie così il trapasso dall’europeismo irenistico al fondamentalismo da crociata in nome dei valori assoluti (i nostri, ovviamente). E quando si tratta di valori supremi, Weber insegna, «nessun prezzo è troppo alto»: né il disordine mondiale né tantomeno il sacrificio – eroico quanto inutile – degli ucraini, immolati sull’altare della «guerra giusta» insieme alla pace e ai «condizionatori». La «brutale e ingiustificata invasione russa», secondo la formula ufficiale, diventa così la hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere: l’alibi per connotare la guerra di fosche tinte metafisiche, ovvero come scontro tra civiltà e barbarie anziché come banale conflitto di interessi. «I vecchi dèi risorgono dalle loro tombe e riprendono la loro antica battaglia, ma disincantati – e dobbiamo aggiungere oggi – con nuovi strumenti bellici, che non sono più armi convenzionali, bensì terrificanti mezzi di annientamento e metodi di sterminio» 3. E così, anziché aiutare ucraini e russi a ricomporre nell’alveo della diplomazia i loro confliggenti interessi, gli Stati Uniti e i loro corifei fomentano in modo interessato uno scontro all’ultimo sangue in nome della giustizia, «trasformando la nostra terra in un inferno, ma l’inferno in un paradiso di valori» (fiat iustitia, pereat mundus). Quella dei valori è infatti una tirannia che nasconde, più che svelare, le reali cause del conflitto in corso, ovvero il mondanissimo conflitto d’interessi che è la materia di cui è fatta la politica internazionale. Impedendo quindi di immaginare una sua soluzione che non sia l’annientamento o il collasso dell’avversario. Di fatto spingendo lo scontro lungo l’abissale sentiero – lastricato di assolutismi morali – che dopo le guerre di religione (1524-1697) e le due guerre civili europee (1914-1945) l’Europa aveva giurato a sé stessa di non voler ripercorrere: quello verso il nulla.

4. A poco vale ribattere, come fanno le anime belle dell’interventismo salottiero, che gli ucraini «lo vogliono». Ricorrere selettivamente al principio di autodeterminazione dei popoli (ovvero a quel principio che in generale non può valere per l’Italia, che deve rinunciare all’egoistico interesse nazionale, ma deve valere per l’Ucraina, anche se ovviamente non per le sue minoranze russe) suona più come circonvenzione d’incapace che come argomento a dimostrazione della bontà della causa 4. Anche fosse così, infatti, e tralasciando l’ovvia considerazione che lo stato di eccezione in vigore in Ucraina dal 24 febbraio ha ridotto al silenzio ogni voce dissidente rispetto alla martellante narrazione governativa (tutti i canali televisivi sono confluiti in un’unica piattaforma di «comunicazione strategica» gestita dall’esecutivo), sarebbe compito di noi occidentali tentare di spiegare agli amici ucraini (e ricordare a noi stessi) che le gioie della devastazione sono altezze che non vale la pena di sperimentare. Specie in nome dell’affermazione di un volere astratto e assoluto come quello di appartenere alla Nato a prescindere da ogni concreta considerazione strategica, oltre che di opportunità politica.
Negli scorsi anni nessuno ha pensato di ricordare alla giovane leadership ucraina quello che Hegel scriveva nei Lineamenti di filosofia del diritto: «Gli allori del puro volere sono foglie secche mai state verdi» 5. Nessuna comunità politica è incondizionata e gode in quanto tale di assoluta libertà di azione. Come gli individui, anche gli Stati patiscono una forma di heideggeriana gettatezza, gettati come sono sulla mappa geografica, in un contesto storico-geopolitico che non hanno scelto ma in cui si trovano di fatto a esistere e a progettarsi 6. Guai a quella comunità che, in preda a deliri di onnipotenza, pensasse di potersi astrarre da tali condizionamenti. Ovvero di poter trascendere la propria «storicità» sulle ali di cera della pura ambizione: così facendo essa condannerebbe sé stessa alla più tragica (e prevedibile) delle fini, come narra Tucidide a proposito dei Meli nella Guerra del Peloponneso. La stessa esperienza americana (e l’esito delle sconclusionate iniziative occidentali in Medio e Vicino Oriente) dimostra che, anche al culmine della potenza, per quei pochi che la raggiungono, la libertà d’azione, lungi dall’essere assoluta, deve misurarsi con vincoli geostorici che limitano di volta in volta l’orizzonte del politicamente possibile.

5. Tali condizionamenti non sono una scelta ma una realtà, che si può ignorare solo a proprio rischio e pericolo. È questa realtà che la classe dirigente ucraina stenta a comprendere, incoraggiata al contrario dai suoi alleati a giustificare le proprie politiche (racchiuse nel motto prebellico di «irreversibilità dell’integrazione euroatlantica») in base a ragionamenti astratti e al ricorso (inconsapevole) alla weberiana etica dei princìpi assoluti. Perfino quando tali politiche portano il proprio popolo allo scontro frontale contro l’Orso russo (in violazione dell’etica della responsabilità). Eppure, in un contesto come quello internazionale, che fino a prova contraria rimane anarchico, la volontà di un paese è di per sé tanto legittima quanto quella del suo vicino. È proprio il confliggere delle volontà, ovvero degli interessi, a definire l’essenza della politica in generale.
La diplomazia moderna nasce in Europa dopo le guerre di religione per ridurre l’attrito tra volontà assolute e inconciliabili, che avevano dissanguato il continente nel tentativo di eliminarsi a vicenda. Riconoscendo la legittimità dell’esistenza di un’altra soggettività politica e la tolleranza di punti di vista diversi – ovvero accettando l’esistenza di una molteplicità di Stati 7.

6. È quindi fondamentale, per immaginare una possibile via d’uscita dal conflitto in corso, far emergere dalle cose stesse il sostanziale conflitto di interessi tra le parti in causa, al di là delle ideologie che lo mascherano o lo alimentano. Impresa possibile solo abbandonando ogni sterile approccio ideologico – per definizione unilaterale, poiché autocentrato sulla comprensione che chi lo propone ha di sé e del mondo. Futile giudicare la storia in base ai propri valori, nell’infantile presunzione che la proiezione delle proprie convinzioni possa kantianamente valere come principio di una legislazione universale – e così spiegare l’altrui modo di stare nel mondo e nella storia. Utile invece tentare di comprendere le cause degli eventi, guerre comprese, che accadono sempre per qualche motivo («il reale è razionale», e come tale mai «ingiustificato»). Essenziale, per liberarsi dagli schemi ideologici oggi dominanti, ribadire che l’uomo si innalza veramente al rango di animale (geo)politico solo quando è capace di misurarsi con la potenza del negativo, ovvero con l’altro da sé, cui del resto è costitutivamente consegnato e destinato: esercizio refrattario a ogni dialettico superamento o scioglimento dell’alterità nella pura identità 8. Problema, per chi tende a considerare l’altro come un sé stesso in potenza, ovvero illusione di alterità. L’esperienza, però, dimostra che la storia degli uomini e dei popoli è distillatrice di singolarità. Nelle «cose stesse» va dunque ricercato il bandolo del presente, la chiave ermeneutica per comprendere il cruciale passaggio storico che stiamo attraversando. Riavvolgendo il nastro all’alba del momento unipolare, all’inizio degli anni Novanta. Quando i consiglieri di Clinton si trovarono, loro malgrado, a dover aggiornare la politica del contenimento, archiviata causa implosione dell’impero del Male 9.

7. È noto che la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991 e la non rielezione di George H. W. Bush nel novembre dell’anno successivo avevano messo una pietra tombale sul progetto di un nuovo ordine internazionale fondato sulla cooperazione tra Usa e Urss. Progetto che Gorbačëv e Bush avevano delineato a Malta nel dicembre 1989 e poi discusso a Helsinki nel settembre 1990 mentre si concludeva il processo che avrebbe condotto alla riunificazione della Germania. Come disse all’epoca il presidente americano al suo omologo sovietico, «io voglio lavorare con te come equal partner nell’affrontare questo tema (del nuovo ordine internazionale n.d.a.). Voglio ritornare dal popolo americano domani notte per chiudere il libro della guerra fredda e offrirgli la visione di un nuovo ordine mondiale in cui noi coopereremo» 10. La ratio dell’intesa raggiunta a Helsinki – di cui Henry Kissinger fu il segreto ispiratore, con la sua proposta di una Jalta II 11 – si fondava «sullo scambio tra la rinuncia sovietica alle posizioni del passato con la modifica concordata delle regole del sistema internazionale», creando un nuovo ordine mondiale centrato sull’interesse nazionale, riconosciuto quale «fondamento della politica estera e della sicurezza di ogni Stato» 12. Coerente con i princìpi del nuovo ordine che intendeva plasmare con Gorbačëv, Bush fece del suo meglio per gestire «con moderazione e saggezza» 13 il predominio americano, evitando di sfruttare le difficoltà in cui versava l’Unione Sovietica nelle convulse fasi seguite al suo frettoloso e incauto tentativo di ristrutturazione interna.

8. È in questo contesto che si colloca la promessa fatta dagli americani a Gorbačëv per la prima volta alla fine del 1989, e più volte reiterata, che la Nato non si sarebbe allargata «neanche di un centimetro» 14. Come ricorda un testimone sovietico del primo colloquio, avvenuto poche settimane dopo il crollo del Muro di Berlino, tra il segretario di Stato Usa James Baker e il presidente Gorbačëv (e come confermato da altri resoconti americani oggi disponibili 15), gli Stati Uniti non solo erano pronti a garantire a Mosca che l’Alleanza Atlantica non si sarebbe allargata, ma «per conferire solide basi all’accordo» che avrebbe portato all’unificazione tedesca erano pronti anche «a fornire garanzie scritte in proposito e chiedevano solo di conoscere le richieste sovietiche» 16. In quel momento, benché il Muro fosse caduto, le strutture della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) erano ancora integre e l’Urss manteneva dispiegati in Germania Est oltre 350 mila militari: nessuno intendeva rischiare lo scontro.
Gli incontri successivi, a cominciare da quello di Mosca del febbraio del 1990, confermarono però a Baker (e a un incredulo Bush) che Gorbačëv e il suo ministro degli Esteri non intendevano chiedere alcuna garanzia formale: l’Unione Sovietica cedeva unilateralmente tutte le sue posizioni in Europa centrale in base al principio per cui «con gli amici non si mercanteggia» (secondo la testuale formula usata in quell’occasione dal ministro degli Esteri sovietico e futuro presidente della GeorgiaShevardnadze) 17. In nome di quello che chiamava «nuovo pensiero», «Gorbačëv aveva accettato senza sostanziali contropartite di rinunziare agli assetti europei ottenuti dall’Urss con la seconda guerra mondiale e rimasti immutati per tutta la guerra fredda» 18. Gorbačëv forse ignorava la lezione di Lord Palmerston (per cui «non abbiamo né alleati eterni né nemici eterni, ma solo eterni interessi, e il nostro dovere è perseguirli»), ma in ogni caso trascurò l’ovvia constatazione che gli amici di ieri possono facilmente diventare i nemici di domani, e viceversa 19.
L’amministrazione Bush, compatibilmente con il quadro allora esistente, perseguì tuttavia con coerenza l’obiettivo di dare vita a un ordine internazionale cooperativo con l’Urss, benché proprio la crescente debolezza del governo sovietico lo rendesse ogni giorno meno plausibile. Prova ne è il viaggio che Bush compì a Kiev il 1° agosto 1991, dopo aver ribadito il giorno prima a Gorbačëv che il collasso dell’Urss non sarebbe stato «nell’interesse americano». In quell’occasione Bush delineò davanti al Soviet supremo dell’Ucraina (oggi sede della Verkhovna Rada, il parlamento) l’approccio statunitense, in un momento in cui il vento separatista soffiava sempre più forte su un’Unione Sovietica indebolita dall’erratica politica dei suoi vertici: «L’America sostiene chi nel centro e nelle repubbliche persegue la libertà, la democrazia, la libertà economica», ma non «coloro che cercano l’indipendenza per sostituire una tirannia lontana con un dispotismo locale». Richiamando la natura multietnica e federale degli Stati Uniti d’America, Bush spiegò che «libertà non è la stessa cosa che indipendenza: la libertà richiede tolleranza, un concetto incorporato nell’apertura, nella glasnost’». E precisò come per gli americani essa si riferisse alla possibilità di vivere «senza la paura dell’intrusione del governo». Quindi, in modo inequivocabile, chiarì che «gli americani non sosterranno coloro che promuovono un nazionalismo suicida basato sull’odio etnico». Bush terminò il discorso incoraggiando gli ucraini a dar seguito all’accordo raggiunto nell’aprile precedente tra il Cremlino e nove repubbliche eurasiatiche, tra cui l’Ucraina, per la creazione di un’Unione più decentrata. «Sosteniamo coloro che esplorano le frontiere della libertà. Ci uniremo a questi riformatori sulla via di ciò che chiamiamo – opportunamente – un nuovo ordine mondiale».
La destrutturazione del potere sovietico aveva però ormai raggiunto la fase terminale e un tale ordine non vide mai la luce. Il 24 agosto, approfittando della confusione seguita al fallito colpo di Stato a Mosca del 19 agosto, il Soviet supremo dell’Ucraina guidato da Leonid Kravčuk, che pochi giorni prima aveva applaudito in standing ovation le parole del presidente Bush 20, dichiarò l’indipendenza di Kiev (diventando successivamente il primo presidente dell’Ucraina indipendente). L’8 dicembre dello stesso anno i vertici (sovietici) di Russia, Ucraina e Bielorussia – l’Urss era ancora formalmente in vigore – si riunirono in segreto senza Gorbačëv in una foresta al confine tra Bielorussia e Polonia per cancellare l’Unione Sovietica dalla carta del mondo. La risoluzione approvata dai tre leader locali fu comunicata al presidente Gorbačëv e al paese come un ordine, proprio nel momento in cui una bozza di trattato per una Unione di Stati sovrani veniva discussa dai parlamenti (Soviet supremi) delle repubbliche. Il nazionalismo sostituiva il comunismo come ideologia ufficiale delle neo-repubbliche, diventando fonte di legittimazione della loro statualità, benché gli attori al vertice del potere fossero gli stessi apparatčik che fino al giorno prima avevano predicato l’ortodossia marxista-leninista.

9. La «catastrofe geopolitica» rappresentata per Mosca dalla dissoluzione dell’Urss coincideva per l’America con l’improvviso ingresso nel paradiso del potere. Era ingenuo pensare che il vuoto creato dal crollo dell’impero sovietico potesse rimanere terra di nessuno: il potere politico – come la natura – aborre il vuoto 21. «La nostra strategia deve ora concentrarsi sul prevenire l’emergere di qualsiasi futuro competitore globale», sentenziava la prima Defence Planning Guidance del Pentagono successiva al crollo dell’Urss 22. Com’era prevedibile, nonostante il dissolvimento del Patto di Varsavia e la fine della competizione bipolare gli Stati Uniti non manifestarono alcuna intenzione di perdere il monopolio nel campo della sicurezza euroatlantica esercitato attraverso la Nato. L’America entrava trionfante nel «momento unipolare» 23 con l’obiettivo di non vederne mai il tramonto. Anzi, nutriva fin dall’inizio l’intenzione di consolidare la propria posizione di «potere incontrastato». Come ricorda un autorevole interprete della Weltanschauung americana, «nella fine della guerra fredda (gli Stati Uniti, n.d.a.) non hanno visto l’occasione per tirare i remi in barca, bensì l’occasione per espandere la propria sfera di influenza, estendere in direzione della Russia l’alleanza da loro guidata, stabilendo nuove frontiere per i loro interessi» 24. Motivo per cui, sia detto di passaggio, le aspirazioni geopolitiche dell’Europa, per quanto timide e contradditorie, dovevano essere stroncate sul nascere («dobbiamo cercare di prevenire l’emergere di accordi di sicurezza esclusivamente europei che minerebbero la Nato, in particolare la struttura di comando integrata dell’Alleanza» 25, da sempre saldamente in mano statunitense).
Più profondamente, l’assenza di contendenti rendeva incontenibili le straordinarie ambizioni americane, inscritte nell’inossidabile, perché fondativa, convinzione del proprio eccezionalismo. «Nazione insostituibile» chiamata ad agire «per conto dell’umanità», l’America intravvide nella nuova realtà geopolitica l’occasione per realizzare la sua più profonda aspirazione: plasmare il «nuovo mondo» alla luce dei princìpi americani dell’ordine, trascendendo una volta per tutte l’equilibrio di potenza. Obiettivo che, nella visione clintoniana, comportava necessariamente l’allargamento della Nato, pilastro e strumento insostituibile dell’influenza americana in Europa 26. Non è un caso che alla ricerca di uno slogan efficace con cui – in mancanza di una chiara minaccia strategica – sostituire il concetto di «contenimento», Clinton finì per concepire la sua politica estera in termini di «allargamento democratico». L’amministrazione Clinton distillò dalla teoria della fine della storia l’idea che, una volta concluso il processo di integrazione economica e allargamento della democrazia (colmando il vacuum lasciato dall’implosione dell’Urss), l’egemonia più o meno consensuale conquistata dall’America durante la guerra fredda, allargata all’Europa centro-orientale, «sarebbe semplicemente assurta a sistema internazionale» 27.

10. Si radica in questo terreno concettuale l’obiettivo di espandere la Nato fino alle propaggini estreme dell’Eurasia: espansione che il dipartimento di Stato pianificò in dettaglio già nel settembre 1993, prevedendo entro il 2005 l’ingresso nell’Alleanza di Ucraina, Bielorussia e Russia 28. L’idea era quella di avvolgere lo spazio post-sovietico in una rete di democrazie («un’alleanza di democrazie di mercato» 29) che avrebbe impedito il risorgere della politica di potenza, creato una «vasta area di pace» sotto la naturale egemonia americana e realizzato il sogno di costruire un grande «impero della libertà» con Washington sua capitale. Pacificazione mediante liquidazione del sistema multipolare, ovvero unipolarismo mascherato da multilateralismo: giacché, come ricordava uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti, «gli imperi non hanno interesse a operare all’interno di un sistema internazionale, ma aspirano a essere il sistema internazionale. Gli imperi non hanno bisogno di un equilibrio di potere. Questa è la politica degli Stati Uniti nelle Americhe» 30. Ora lo era ufficialmente anche in Europa.

11. La politica di estensione dell’egemonia americana «dall’Elba agli Urali» mediante allargamento dell’Alleanza Atlantica presupponeva, neanche troppo implicitamente, l’acquiescenza russa. Ma come avrebbe reagito la Russia al grand design che l’America di Clinton aveva concepito per l’ordine mondiale post-sovietico? Quando l’amministrazione americana iniziò a discutere i piani di allargamento della Nato, nell’estate del 1993, i funzionari del dipartimento di Stato che seguivano il dossier erano «in maggioranza contrari, temendo i suoi effetti sull’Alleanza e sulle relazioni Usa-Russia» 31. Era infatti condiviso il timore che un simile dinamismo sarebbe stato letto dai russi – sprofondati nell’impotenza ma eredi dell’impero zarista e di quello sovietico – per quello che era: «Una strategia per sfruttare la loro vulnerabilità e spostare la linea divisoria dell’Europa a est, isolandoli», come candidamente ammetterà nelle sue memorie M. Albright, segretario di Stato di Clinton dal 1997 al 2001 32.
In un telegramma indirizzato al segretario di Stato Warren Christopher, risalente all’ottobre 1993, l’ambasciatore Usa a Mosca spiegò come la questione della Nato fosse «nevralgica» per i russi: «Temono di finire dalla parte sbagliata di una nuova divisione dell’Europa. Per quanto sfumata, se la Nato adottasse una politica che prevedesse l’espansione nell’Europa centrale e orientale (…) questa verrebbe universalmente interpretata a Mosca come diretta contro la Russia e unicamente contro la Russia – una forma di “neocontenimento”» 33. Nel 1997, alla vigilia del vertice Nato di Madrid che avrebbe schiuso l’ingresso nell’Alleanza di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, sarà lo stesso architetto della politica di contenimento dell’Unione Sovietica, George Kennan, ad ammonire dalle colonne del New York Times che «espandere la Nato sarebbe l’errore più fatale della politica americana nell’intero periodo successivo alla guerra fredda» 34. Da decano degli esperti di Russia in America, Kennan prevedeva che una tale decisione avrebbe «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militaristiche nell’opinione pubblica russa, con un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia in Russia, riportando l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni Est-Ovest». Kennan si domandava: «Perché, con tutte le possibilità di speranza generate dalla fine della guerra fredda, le relazioni Est-Ovest dovrebbero concentrarsi sulla questione di chi dovrebbe essere alleato con chi, e quindi contro chi, in qualche fantasioso, imprevedibile e improbabile futuro conflitto militare?».
I documenti oggi consultabili dimostrano che la non espansione della Nato era il presupposto (ancora una volta fallace) dell’iniziativa politica di El’cin 35. Quando il neopresidente russo scoprì che, malgrado le pacche sulle spalle, l’America si preparava invece ad attuarla, i suoi appelli all’amico Clinton per fermarla si dimostrarono vani e disperati, come tentare di fermare il moto dei pianeti. In una lettera datata 15 settembre 1993, El’cin esprimeva a Clinton («dear Bill») il «disagio russo» di fronte all’ipotesi di espansione dell’Alleanza Atlantica, non nascondendo di preferire un «approccio diverso» (ovvero un «sistema di sicurezza paneuropeo basato sull’azione collettiva, non sull’appartenenza a un blocco»). Pur riconoscendo «il diritto sovrano di ciascuno Stato di decidere come garantire la propria sicurezza, incluso partecipando ad alleanze politico-militari», El’cin spiegava che «non solo l’opposizione, ma anche i circoli moderati (in Russia, n.d.a.) percepirebbero l’allargamento della Nato come una forma di neo-isolamento del nostro paese, antitetico alla sua naturale ammissione nello spazio euroatlantico». Ricordava quindi a Clinton la promessa fatta dal suo predecessore a Gorbačëv, ribadendo che «lo spirito del trattato sull’assetto finale relativo alla Germania firmato nel settembre 1990, specialmente le sue disposizioni che proibiscono il dispiegamento di truppe straniere sui territori orientali della Repubblica Federale Germania, preclude l’opzione di espandere la zona Nato a est» 36. Il 29 novembre 1994 El’cin reiterava a Clinton l’auspicio che fosse la Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa, non la Nato, l’architrave del sistema di sicurezza europea e ribadiva «di non riuscire assolutamente a comprendere le ragioni dell’avvio dei negoziati» per l’allargamento dell’Alleanza Atlantica, che «saranno interpretati, non solo in Russia, come l’inizio di una nuova divisione in Europa» 37. Pochi giorni più tardi, alla Conferenza di riesame dell’Osce a Budapest (dicembre 1994), El’cin si rivolse platealmente a Clinton chiedendogli: «Perché stai piantando i semi della sfiducia? L’Europa rischia di sprofondare in una pace fredda. (…) La storia dimostra che è una pericolosa illusione pensare che i destini dei continenti e della comunità mondiale in generale possano essere gestiti da una sola capitale» 38.
Nel 1994 era dunque chiaro a Washington che l’allargamento della Nato non sarebbe stato affatto accolto con acquiescenza da Mosca, ma anzi interpretato – correttamente – come la volontà di escludere la Russia dal sistema di sicurezza europeo, dunque come tradimento della promessa di cooperazione in nome della quale Gorbačëv aveva smantellato pezzo dopo pezzo l’Unione Sovietica 39. I tentativi (simbolici) di correggere l’impressione russa che l’obiettivo dell’allargamento della Nato fosse quello di paralizzare il potenziale strategico di Mosca, ad esempio con la creazione del Consiglio Nato-Russia nel 2002, erano destinati al fallimento, poiché gli Stati Uniti non avevano – né mai nutrirono – alcuna reale intenzione di lasciare che il Cremlino acquisisse un reale potere decisionale (o di veto) in seno all’Alleanza o al comando militare integrato, alterando gli equilibri interni alla Nato, «strumento della presenza americana in Europa» (Baker).
Se dunque l’alleanza strategica russo-americana immaginata da El’cin era una chimera, il grand design statunitense – creare una vasta area di pace e stabilità tramite l’allargamento della Nato – era contradditorio e in definitiva irrealizzabile se non a prezzo del conflitto, come dimostra l’esito ultimo di tale politica (la guerra in corso da oltre un anno nel cuore dell’Europa). Era ingenuo pensare che un grande paese con una profondità storica come la Russia, per quanto umiliato e offeso, potesse semplicemente autodestituirsi, rinunciando all’idea di avere una propria autonomia politica e strategica, al pari di una Polonia o Slovacchia qualsiasi. Esattamente quello che esigeva il disegno americano: l’incorporamento della Russia come appendice del blocco atlantico. Una prospettiva altrettanto irrealistica di quella di Mosca, la cui classe dirigente aveva immaginato di poter condividere lo scettro del potere mondiale con l’America in nome della buona volontà dimostrata nel porre fine alla guerra fredda.
Ma il cammino era ormai già tracciato. Gli americani sapevano bene che la Russia non avrebbe in ogni caso potuto fermare il processo, un concetto che Clinton fece arrivare forte e chiaro a El’cin durante il suo viaggio a Mosca nel 1995: «Non continuare a chiedermi di rallentare (il processo di allargamento, n.d.a.) o noi dovremo continuare a dirti no». El’cin ne divenne, a sue spese, ugualmente consapevole: l’impotenza in cui era sprofondato il suo paese, impoverito dalle privatizzazioni selvagge prescritte dal Washington Consensus e militarmente in disfacimento, limitava la sua protesta al flatus vocis, ma prefigurava già l’inevitabilità del conflitto che ne sarebbe derivato: «Non vedo altro che umiliazione per la Russia se procedi. (…) Perché vuoi fare questo? È una forma di accerchiamento se il blocco superstite della guerra fredda si espande fino ai confini della Russia. Molti russi provano un senso di paura. Cosa volete raggiungere con questo, se la Russia è vostro partner?. (…) Abbiamo bisogno di una nuova struttura per la sicurezza paneuropea, non delle vecchie strutture (…) non di creare blocchi. Per me accettare che i confini della Nato si espandano verso quelli della Russia costituirebbe un tradimento del popolo russo» 40.

12. Le vicende che ha conosciuto l’Ucraina dal 1991 a oggi non possono essere comprese se non all’interno del Grande Gioco di cui abbiamo sommariamente indicato i termini e definito la scacchiera. Ogni tentativo di separare l’aggressione russa dal contesto geopolitico in cui si inserisce, o di spiegarla insistendo su aspetti marginali e parziali, come la volontà di autodeterminazione degli ucraini, significa «isolare la crisi ucraina dalla complessità geostrategica in cui essa ha preso origine e dove si è sviluppata e, quindi, mistificarne capziosamente la portata storica e politica» 41. La parabola geopolitica ucraina, dalle vertigini dell’indipendenza agli abissi della guerra, è stata condizionata fin dall’inizio da direttrici in larga parte «esterne» al paese, comparendo nei piani americani di allargamento della Nato sin dal 1993, pur essendo l’Ucraina geostoricamente prossima alla Russia, di cui per secoli aveva fatto organicamente parte (prima sotto l’impero zarista, poi sotto quello sovietico). Fin dalla sua indipendenza, dunque, essa è stata un campo attraversato da fortissime tensioni geopolitiche, che hanno inciso profondamente sulle sue dinamiche interne. Che da ultimo hanno portato alla guerra scoppiata il 24 febbraio 2022, esito finale della maturazione dello scontro geopolitico tra America e Russia. Di cui l’Ucraina, «terra di frontiera», è diventata per volontà dell’Occidente – e complicità della classe dirigente locale – «terreno di scontro».
La guerra è plastica rappresentazione dell’effetto destabilizzante della geopolitica americana di «allargamento democratico» sull’architettura di sicurezza europea. Analogamente alla Germania guglielmina dopo il congedo di Bismarck, la ricerca di sicurezza assoluta dell’Occidente dopo il 1991 attraverso l’espansione della Nato ha prodotto in Russia la minaccia di insicurezza assoluta, scatenando processi distruttivi dell’ordine, della stabilità e in definitiva della pace. Esattamente il contrario di quello che si voleva ottenere con l’allargamento democratico, uno slogan che nasconde un vuoto intellettuale speculare al provincialismo politico di cui è espressione. Una pace durevole, come quella che avrebbe potuto vedere la luce dopo la dissoluzione (e quindi la sconfitta) dell’Urss, avrebbe infatti richiesto che la potenza vincitrice tenesse in conto gli interessi fondamentali dello sconfitto: ciò fu fatto a Vienna nel 1814-15 con la Francia, ma non a Parigi nel 1919 con la Germania (un errore che generazioni di europei dissero di non voler mai più ripetere) 42. Solo così sarebbe stato possibile trasformare il sistema internazionale emerso dalla fine della guerra fredda in autentico ordine internazionale («world order»), concetto che implica stabilità e presuppone equilibrio, ovvero la legittimità che solo gli Stati che interagiscono sullo scacchiere internazionale possono riconoscergli (o negargli). Ma affinché possa darsi consenso sulla legittimità dell’ordine esistente, riducendo l’attrito tra confliggenti volontà statuali, è necessario che siano riconosciuti (e presi in dovuta considerazione) gli interessi fondamentali (o «minimi») dei principali poli del sistema, in un delicato equilibrio tra potere e legittimità.
Complice la smisurata hybris derivante dalla «certezza dell’assoluta superiorità dei princìpi e degli ideali fondativi degli Stati Uniti rispetto (…) a quelli delle nazioni e dei governi di tutta la storia» 43, la potenza vincitrice dalla guerra fredda – l’America – non ha saputo distillare dallo straordinario potere consegnatole dall’implosione dell’Urss un ordine legittimo, ma solo una visione autocentrata e unilaterale, incurante di ogni considerazione geopolitica e priva di coscienza storica. L’America non è stata capace così di riconoscere alla Russia quello che riconosce a sé stessa: il diritto di tutelare la propria sicurezza nazionale, come orgogliosamente rivendicato dalla dottrina Monroe («considereremo pericoloso per la nostra pace e la nostra sicurezza ogni tentativo di estendere i loro sistemi (delle potenze europee, n.d.a.) a qualsiasi area del nostro emisfero»). Al contrario, Washington ha esteso la propria alleanza politico-militare ai paesi del dissolto impero sovietico in nome di un impossibile approccio unipolare all’ordine, privo com’è di profondità storica, con l’esplicito intento di rimuovere alla radice ogni possibilità che la Russia esprimesse un ruolo autonomo nel sistema internazionale. Impedendo (anche a costo di farla saltare in aria) ogni «pericolosa» integrazione di Mosca all’interno di un sistema di relazioni non conflittuali con i paesi europei, Germania in primis, nel timore che ciò potesse favorire l’agglomerarsi di un polo di potenza geoeconomico con proiezione eurasiatica, tale da minacciare l’egemonia assoluta americana sull’Europa, provincia più pregiata dell’impero.
Impiegando tattiche brutalmente realiste in nome di un disegno profondamento idealistico, in un rovesciamento dialettico connaturato all’intrinseca aggressività di una politica estera che annulla la differenza tra interessi e valori 44, la teoria dell’allargamento democratico si è inevitabilmente tradotta in crescenti e sempre più invasive pressioni americane sulla classe dirigente ucraina perché scivolasse verso la Nato, recidendo una volta per tutte i suoi legami politici, economici e culturali con la Russia. Pressioni culminate nel 2014 con la destituzione di Janukovyč, reo di perseguire una politica «multivettoriale», tesa a soddisfare con una buona dose di spregiudicatezza e opportunismo (ma anche di pragmatismo) tanto le aspettative dell’Occidente quanto quelle russe, mantenendo l’Ucraina in un sistema di «alleanze sovrapposte» (con Bruxelles e Mosca contemporaneamente) 45. Nel tentativo di estrarre il maggior vantaggio possibile per il proprio paese 46 e preservare la pacifica convivenza tra le molte anime della «nazione» ucraina, coacervo di lingue, storie e culture eterogenee. Motivo per cui ogni tentativo di presentare la guerra in corso come una guerra di liberazione e autodeterminazione nazionale dalle romantiche tinte risorgimentali dimentica, inter alia, che non esiste una identità ucraina omogenea, essendo l’Ucraina il contrario di uno Stato nazionale nel senso classico del termine, più vicina com’è a un’espressione geografica à la Metternich che a una comunità di lingua, tradizioni e cultura à la Fichte. Come ammoniva profeticamente Kissinger nel 2014, «qualsiasi tentativo dell’Ucraina cattolica e di lingua ucraina di dominare l’altra Ucraina ortodossa e russofona condurrà necessariamente alla guerra civile e alla fine dell’unità nazionale» 47.
Con la sostituzione della classe dirigente del paese orchestrata da Washington («fuck the Eu!» dirà la vice di Kerry, Victoria Nuland, intercettata mentre stabilisce al telefono la composizione del nuovo governo post-Janukovyč 48) e con la trasformazione della Russia in avversario fisso, il sistema europeo perse nel 2014 il suo ultimo elemento di flessibilità, irrigidendo lo scontro in Europa tra due blocchi frontalmente contrapposti 49. Trasformando l’«identità» ucraina in principio di alterità e contrapposizione, anziché di tolleranza e apertura (come aveva suggerito Bush nel 1991) 50. E avviando così il processo di disintegrazione del paese, con le proclamazioni di indipendenza delle regioni orientali e della Crimea, annessa poi alla Russia, e la guerra civile tra ucraini filorussi e ucraini filo-occidentali, costata secondo i dati delle Nazioni Unite oltre 14 mila morti tra 2014 e 2021 51. All’epoca Kissinger ammonì (Washington, prima che Kiev) che «se il destino dell’Ucraina è sopravvivere e prosperare, essa non può diventare l’avamposto militare dell’uno o dell’altro schieramento, ma deve invece trasformarsi in un ponte capace di unire, e non in un fossato creato per dividere. (…) Considerare l’Ucraina come parte del confronto Est-Ovest, spingendola a far parte della Nato, equivarrebbe ad affossare per decenni ogni prospettiva d’integrare la Russia e l’Occidente, e in particolare la Russia e l’Europa, in un sistema di cooperazione internazionale». Parole nel vuoto, avrebbe detto Adolf Loos, poiché l’intensità delle pressioni americane non si è fermata, anzi è cresciuta appellandosi pateticamente e irresponsabilmente al principio della «porta aperta», anche di fronte all’evidente rafforzamento della postura geopolitica della Russia di Putin, decisa ad arrestare la parabola verso l’irrilevanza strategica a cui Washington immaginava di poterla unilateralmente relegare. Rendendo non solo prevedibile, ma inevitabile il conflitto, largamente previsto da autorevoli politologi americani, tra cui lo stesso Kissinger (2014), Mearsheimer (2014) e Merry (2017).

13. Di fronte alla sorda insensibilità dell’Occidente per le ragioni della geopolitica, la classe dirigente russa ha reagito nel 2022 attaccando militarmente l’Ucraina, considerando tale azione extrema ratio per fermare un processo geopolitico ritenuto esiziale per la propria sopravvivenza e per il ruolo della Russia. Riaffermando disperatamente nell’attacco una vivacità storica che, pur nei limiti emersi durante la campagna militare ucraina, ha comunque ribaltato una passività geopolitica che aveva preservato per inerzia il mito della sua superpotenza. Potendo comunque disporre di risorse umane e militari imparagonabili a quelle ucraine, rendendo tutt’altro che scritto l’esito del conflitto, nonostante l’ininterrotta fornitura di armi da parte dalla Nato e dagli «alleati».
L’Occidente, ancora una volta, sperimenta così le contraddizioni che scaturiscono dalla sistematica disapplicazione delle regole elementari della geopolitica, di cui l’America non pratica la grammatica e di cui gli europei hanno dimenticato la prassi. Ma una strategia che si traduce inesorabilmente in azioni inconcludenti e contradditorie rispetto ai propri stessi presupposti appare alla lunga destinata a scalfire, e in prospettiva a sgretolare, la scintillante teca dell’egemonia. È difficile, del resto, mantenere la convinzione della superiorità dei propri valori, sui quali poggia l’identità di una collettività come di un individuo, se la loro attuazione produce conseguenze che li contraddicono, traducendosi sistematicamente nel proprio opposto (pace in guerra, stabilità in disordine, prosperità in miseria), rivelandosi meri slogan propagandistici.
Gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero ricordare che «ogni regno diviso contro sé stesso va in rovina, e ogni città o casa divisa contro sé stessa non potrà reggere». L’Europa (o impero europeo dell’America) non si riduce all’Occidente inteso come un granitico blocco identitario. Al contrario, l’Europa è un continuum culturale, storico e geografico che racchiude una molteplicità di identità, lingue e tradizioni (motivo per cui non esiste un demos europeo o l’europeitas 52); identità riconducibili, a un elevato livello di astrazione, a tre elementi fondamentali: neolatino, germanico e slavo, che a loro volta si riflettono nelle tre grandi espressioni evolutive del cristianesimo: cattolica, protestante e ortodossa 53. Il tentativo della potenza americana di isolare e sradicare la Russia da questo prodigioso mondo storico-culturale, di cui fanno parte anche l’Ucraina e la sua complessa identità etnico-culturale (specchio perfetto del multiforme tessuto culturale del nostro continente), potrà forse impedire il risorgere di un’autentica autocoscienza e potenza europea, ma è destinato inesorabilmente a indebolire l’Occidente proprio nel momento in cui esso è chiamato a misurarsi con l’ascesa di potenze culturalmente e storicamente «estranee» – a differenza della Russia – alla società internazionale europea. L’applicazione di un modo astratto di esercitare il potere sulla storia è il tarlo che corrode da dentro l’egemonia americana, generando divisione e disordine al posto della stabilità e della pace, povertà anziché prosperità.
Prima però che la guerra in corso trascenda i limiti di un confitto per (semi)procura fra superpotenze, generando conseguenze irreversibili per l’Europa, le élite degli Stati Uniti e dell’Ue dovrebbero avere il coraggio di fare i conti con le cause «strutturali» del conflitto, tentando di porvi rimedio, invece di procedere allegramente verso l’abisso in nome del diritto e di assolutismi morali: esercizio stucchevole da parte di chi rappresenta un’alleanza di Stati non certo esenti da sanguinose e controverse (in molti casi fallimentari) iniziative militari (Kosovo, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, solo per citare le più recenti). La demonizzazione a oltranza della Russia – oltre a non essere una politica, ma l’alibi per non averne una – non porrà fine alla guerra, ma la aggraverà. Il conflitto in Europa dimostra che la geopolitica (e dunque la necessità della coesistenza tra entità statuali e culturali diverse) non è una scelta: è una realtà che i leader occidentali possono ignorare solo a spese dei loro popoli. La questione ucraina dovrebbe trovare soluzione fuori dall’astrattezza giuridica dell’autodeterminazione, spesso strumento del divide et impera (vedi alla voce Mitteleuropa) più che espressione di genuino amore per i popoli. Ricordando agli ucraini che l’ordine internazionale – ovvero la stabilità e la pace – sono la condizione stessa per il perseguimento di tutti gli altri valori: «Se non è garantito un livello minimo di sicurezza, gli scopi della giustizia politica, sociale ed economica non possono avere alcun significato» 54. Motivo per cui l’ordine (e la sua ricerca) nella politica mondiale non solo è degno di valore, ma è «prioritario» rispetto ad altri scopi, come quello della «giustizia» o dell’autodeterminazione, con buona pace delle anime belle (e vuote) che propugnano l’etica dell’irresponsabilità.
Proseguendo sulla via della contrapposizione ideologica e dell’escalation militare, il risultato non potrà che condurre l’Europa nell’abisso in cui la sua classe dirigente ripeteva di non voler mai più precipitare, edificando «l’Europa unita» per creare la pace, salvo poi fare la guerra in nome dell’idea di nazione. A quali latitudini l’attuale conflitto ci condurrà, dunque, dipenderà anche dalla lungimiranza e dalla saggezza delle classi dirigenti europee, posto che sappiano dimostrarsi capaci di discostarsi dalla semplificazione ideologica sulla quale si fonda l’attuale strategia di dominio unipolare a stelle e strisce. Un’Europa appiattita sull’interpretazione solipsistica dell’egemonia americana e accecata dal conformismo ideologico rappresenterebbe il rovesciamento di una delle etimologie del suo stesso nome: essere «terra dall’ampio sguardo». Come scriveva Otto Hintze in un saggio del 1916, «non vogliamo la desolante supremazia mondiale di un popolo, ma una convivenza piena di vita di popoli e Stati liberi. (…) L’ideale che ci prospettiamo per il futuro è un sistema di potenze mondiali che si riconoscono e si rispettano vicendevolmente, come facevano prima le grandi potenze del concerto europeo» 55.
 
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