Previdenza imprevidente, l’allarme di Sergio Rizzo sul futuro delle pensioni
Previdenza imprevidente, l’allarme di Sergio Rizzo sul futuro delle pensioni
di FERRUCCIO DE BORTOLI02 mag 2023
In un saggio, edito da Solferino, Sergio Rizzo lancia un forte allarme per il dissesto crescente dei conti dell’Inps. Il sistema è una bomba a orologeria difficile da disinnescare
Quando l’Italia era giovane e sfrontata, sicura di conquistare il futuro con la stessa facilità con cui si era lasciata alle spalle la guerra, con le sue ferite e le sue macerie, la sostenibilità della previdenza era l’ultima delle preoccupazioni. Eravamo poi uno dei Paesi più popolati al mondo. Oggi siamo uno dei più anziani. Il declino demografico è largamente sottovalutato. Si scopre, leggendo Il Titanic delle pensioni di Sergio Rizzo (editore Solferino), che fino al 1945 il sistema pensionistico era a capitalizzazione, cioè i contributi venivano versati in un fondo e poi investiti. Un po’ come fanno i fondi pensione oggi. Quelli che non riusciamo a far decollare per irrobustire il secondo pilastro della previdenza, visto che il primo, quello obbligatorio, ansima da tempo. L’Italia non era ancora stata liberata del tutto che un decreto luogotenenziale (1° marzo 1945) del governo Bonomi apriva alla ripartizione. Ovvero le prestazioni cominciarono a essere pagate anche con i contributi versati da chi era al lavoro.
Gli anziani allora erano pochi, le famiglie se ne facevano carico più facilmente. E non solo perché le pretese erano modeste. Perdurava il riflesso di una civiltà contadina nella quale le famiglie convivevano nelle cascine, si davano una mano reciproca in condomini affollati di bimbi verso i quali c’era più tolleranza di oggi. La forte immigrazione interna, dal Sud verso il Nord, dall’Est — che non era ancora il Nord Est industriale e ricco di oggi — verso l’Ovest del triangolo industriale, ne rivoluzionò composizioni e abitudini. Il saldo migratorio cambierà di segno solo nel 1975, quando l’eccezionale sviluppo del dopoguerra rallenterà inesorabilmente. Fino ad allora erano più gli italiani che cercavano lavoro all’estero, riversando le loro rimesse ai parenti rimasti in patria, degli stranieri immigrati da noi.
Un sistema pensionistico a ripartizione non creava apparentemente alcun problema in un’Italia con tante persone al lavoro e relativamente poche in quiescenza. La previdenza divenne però, con il passare degli anni, un formidabile strumento di welfare reale e di immediato consenso politico. Nel 1969, il governo Rumor scelse definitivamente il sistema a ripartizione. Le pensioni di anzianità consentivano già di lasciare il lavoro con 35 anni di contributi, indipendentemente dall’età. Nel 1973 arrivò la versione più audace, quella delle baby pensioni che consentivano di ritirarsi anche con meno di 35 anni.
«Una follia costata alla collettività — scrive Rizzo — 250 miliardi, per non parlare dell’impatto sulla scuola pubblica risultato devastante». Cominciò, in quel decennio disgraziato, l’assalto corporativo al sistema pensionistico che ne avrebbe minato la sostenibilità. Ma chi mai avrebbe potuto opporsi al riconoscimento di contributi figurativi a favore di servitori dello Stato, di categorie disagiate, del grande bacino dei lavoratori agricoli, vaste categorie di votanti? O, in seguito, all’utilizzo del pensionamento anticipato per risolvere grandi crisi aziendali?
L’amara realtà che emerge dal pamphlet di Rizzo è che il concorso di colpa è stato, salvo poche eccezioni, pressoché generale. Non sempre l’essere bipartisan è un merito. In materia pensionistica, sia a livello statale ma in particolare nelle Regioni, l’uso di leggine ad hoc, provvedimenti su misura per pochi privilegiati — politici, sindacalisti — emendamenti dell’ultima ora, è stato così ricorrente dall’essere diventato, anche in tempi recenti, una pratica abituale. Con molti che volgevano e volgono lo sguardo altrove. Ogni categoria (giornalisti compresi) ha le sue colpe.
La riforma Dini del 1995 — che non a caso come quella Fornero del 2012 venne dopo una violenta crisi finanziaria — trasformò gradualmente il sistema in contributivo con assegni commisurati all’entità dei versamenti. Se all’Italia del secolo scorso, che pure cominciava a fare meno figli e a non aver più voglia di svolgere alcuni lavori umili, si poteva perdonare una sottovalutazione della bomba nascosta con miccia a lenta combustione, a quella di oggi non si può perdonare più nulla. Bisogna però avere il coraggio — come scrive Sergio Rizzo — di dire tutta la verità. Senza nascondere la testa sotto la sabbia e rinviare quella verifica statistico-attuariale sulla sostenibilità del sistema pensionistico che per legge dovrebbe essere fatta ogni tre anni. E non illudere più, con false promesse — come la fallimentare quota 100 — gli italiani.
Il sistema pensionistico in un Paese sempre più anziano — età media 48 anni, era meno di 30 anni nel 1950 — non regge. Lo segnala molto bene, con scenari inquietanti, l’ultimo Documento di economia e finanza (Def) che può essere riassunto così: solo con una forte immissione di immigrati regolari si può allargare la platea contributiva e innalzare il tasso di natalità. Com’è avvenuto in Germania e in Svezia. Non bastano gli asili nido. E non si potrà continuare a lungo — come si è fatto con la riduzione del cuneo — a scaricare sulla fiscalità generale una quota crescente di contributi, peraltro evasi in forma massiccia. L’Inps ha crediti contributivi largamente superiori ai 100 miliardi, che si è arrivati anche al punto di «rottamare». Per non parlare delle truffe (in particolare in agricoltura), dello scandalo dei falsi invalidi (la Sicilia ha il primato dei ciechi), della montagna di cause nelle quali l’Inps soccombe quasi in un caso su due.
Il quadro è desolante. Apparentemente senza soluzione di fronte a un lavoro che cambia e spesso è intermittente, precario. L’evasione fiscale e contributiva non è più tollerabile, basterebbe non assecondarla per avere risultati apprezzabili. Separare l’assistenza dalla previdenza farebbe emergere costi collettivi e individuali oggi invisibili o rimossi. Rizzo è favorevole a un sistema a capitalizzazione non solo per il secondo pilastro ma anche per il primo. Una marcia indietro di 80 anni. Ma soprattutto un bagno di umiltà in un Paese che si illude di poter vivere ancora a lungo al di sopra delle proprie possibilità.
Il volume e gli incontri
Il libro di Sergio Rizzo Il Titanic delle pensioni. Perché lo Stato sociale sta affondando è pubblicato da Solferino (pagine 220, euro 16,50). Si tratta di un’analisi delle condizioni critiche in cui si trova il sistema previdenziale italiano, che si avvia verso il dissesto.
Sergio Rizzo presenterà il suo libro il 15 maggio nell’ambito del Prospero Festival di Monopoli (ore 21) con Vincenzo Magistà, direttore di Tele Norba. Il 19 giugno si terrà un altro incontro al Circolo dei lettori di Torino (ore 18), dove Rizzo dialogherà con Elsa Fornero.
Nato a Ivrea nel 1956, Sergio Rizzo è stato a lungo una firma del «Corriere della Sera» e poi vicedirettore di «Repubblica». Con Gian Antonio Stella ha pubblicato il bestseller La casta (Rizzoli 2007). Per Solferino nel 2022 ha pubblicato il saggio Potere assoluto