Tim, la mossa di Merlyn in un dossier maledettamente complesso
Paolo Madron
21/03/2024
I 400 COLPI. Grande confusione intorno alla più importante compagnia telefonica del Paese. Oltre alla lista del cda si è aggiunta quella del fondo attivista. E se ne attendono altre. Ma Giorgetti in modo pilatesco ha detto che sarà il mercato a decidere i destini dell’azienda. L'ad Labriola vuole vendere la rete, i francesi di Vivendi dal loro Aventino puntano a mandarlo a casa. Un vero bordello...
C’è una terra tribolata e si chiama
Tim, la più importante azienda telefonica del Paese, l’unica che, nonostante il suo primo azionista sia francese, nei fatti batte bandiera italiana. A presidiarla c’è un manager,
Pietro Labriola, che scommette sul suo futuro a patto che venga venduta la rete, cioè il suo asset più importante, i cui proventi possono ridare ossigeno a una società gravata da un debito insostenibile, ma che ha appena battezzato un piano industriale su cui il mercato non crede. Il manager ha il supporto del governo, almeno della sua componente maggioritaria incarnata nella triade
Giorgia Meloni,
Gaetano Caputi, il suo capo di gabinetto, e
Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario tuttofare e tutto comunicare. Dovrebbe avere anche l’appoggio del
Mef, ossia il crocevia attraverso cui deve passare la vendita della rete al fondo americano
Kkr, primo passo prodromico alla successiva nazionalizzazione. Ma il suo titolare,
Giancarlo Giorgetti, si sta mostrando pilatesco. Dopo che mercoledì 20 marzo il
fondo Merlyn ha annunciato di volersi presentare a fine aprile con una sua lista alla decisiva assemblea di Tim, più veloce della luce si è affrettato a dire che sarà il mercato a decidere i destini dell’azienda.
Lo scoglio si chiama Vivendi, che da Parigi guarda la partita Tim da spettatore
Insomma: “io vorrei, non vorrei ma se vuoi” si va dritti verso lo scoglio che può arginare il mare. Lo scoglio si chiama
Vivendi, che da
Parigi guarda la partita in corso da spettatore, non da protagonista, come invece vorrebbe il peso della sua partecipazione, quasi il 24 per cento del capitale. E nonostante Labriola stia facendo di tutto per portarlo dalla sua parte. Da quando ha ritirato i suoi uomini dal consiglio d’amministrazione, dall’Aventino in cui si sono chiusi i francesi si limitano a ripetere ciò che non vogliono quella cessione della rete che è il punto cardine del piano. Su quello che invece vogliono non si capisce nulla, tranne il fatto che vorrebbero mandare a casa Labriola, ossia l’ad che loro stessi avevano a suo tempo nominato. Per metterci chi non è dato sapere, anche perché in questi anni Tim ha bruciato più amministratori delegati che il campo largo candidati in
Basilicata
Meloni ha il golden power, ma sul dossier è ancora notte fonda
Una matassa poco edificante e molto aggrovigliata, che l’imminente assemblea dovrebbe sciogliere sposando uno dei contendenti. Per ora ce ne sono due, la lista proposta dal cda e quella che intende presentare Merlyn.
Ma, a sentire le voci che parlano di altri soggetti interessati, potrebbero essere di più e magari con proposte ancora più sorprendenti di quella presentata dal fondo attivista guidato dall’ex Jp Morgan Alessandro Barnaba, che di Tim vuole vendere tutto meno la società che fornisce servizi a imprese e pubblica amministrazione. Soluzione che sulla carta farebbe da volano in borsa al titolo per la gioia degli investitori, ma che di fronte alla radicalità di cotanto spezzatino si mostrano guardinghi. Nell’attesa si naviga a vista, e con una sola certezza: così com’è ora la società non può stare, brucia cassa e accumula inesorabilmente altro debito. Ma su come sarà la sua futura configurazione è ancora notte fonda perché, come ha detto con un eufemismo Meloni, benché tenutaria di
golden power in grado di bloccare soluzioni sgradite, il dossier è (maledettamente, aggiungiamo noi) complesso.