Bankitalia: Bonifiche Ferraresi senza pace. Ma cordata Vecchioni forse si ripresenterà
di Sergio Luciano
(Il Ghirlandaio) Roma, 7 mar. - Lo stress non abita in via Nazionale. Almeno, così si direbbe valutando la lunga storia della tentata vendita delle Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, 5400 ettari coltivati per il 92% a cereali, quotata in Borsa, che la Banca d’Italia controlla da decenni per il 62% del capitale ma che, oggettivamente, non ha alcuna competenza né voglia di tenere ancora nel proprio patrimonio. E di fatti l’ha appunto messa in vendita. Una specie di privatizzazione, visto che in fondo la Banca d’Italia è un’istituzione pubblica. Che però …speriamo non sia una metafora di come andranno le prossime privatizzazioni statali. Già, perché questa tentata privatizzazione data dal 7 maggio del 2013 e dopo undici mesi non accenna ancora ad essere coronata da successo. E la Banca d’Italia tutto sembra fuorchè ansiosa di definire la faccenda: ma si vedrà meglio più avanti perché.
Intanto è preliminare chiedersi cosa comporta, o comporterebbe, la riuscita della vendita della Bonifiche Ferraresi. E chi potrebbe comprarsela e per farne che. Va detto subito che alla scadenza del bando di vendita, il 21 febbraio scorso (scadenza già prorogata una volta, perché la prima era andata deserta) s’è presentata una sola offerta. Un’offerta organizzata da un imprenditore agricolo vero, di nuova generazione, il quarantaseienne Federico Vecchioni, già presidente della Confagricoltura, consigliere d’amministrazione del Mediocredito (gruppo Intesa) e per pochi mesi coordinatore di Italia Futura su mandato di Luca di Montezemolo. E’ strano che non ci siano stati concorrenti? No, perché l’azienda costa tanto (si vedrà) ma fattura meno di 10 milioni e rende meno di 500 mila euro all’anno, e non ci sono sul mercato molti operatori capaci di disegnare una strategia credibile per metterla a regime.
Ecco, Vecchioni è tra questi. E’ uno che di agricoltura moderna capisce, e molto. Diciamo così: “Sa come si fa”. Ed ha messo insieme una cordata seria, innegabilmente, anche se non ne sono stati ancora resi noti tutti i nomi. Oltre a lui, la Fondazione Cariplo con un investimento di 50 milioni, Carlo De Benedetti (a titolo personale, e non come Cir) e Beniamino Gavio, entrambi con 20 milioni di euro. Tutti insieme per tirar fuori quasi l’intero valore della capitalizzazione di Borsa, circa 210 milioni, per rilevare dalla Banca d’Italia il 52,37% - lasciandole il 10% - e naturalmente fare l’Opa. L’idea della cordata era di pagare il 55% del controvalore in contanti e il restante 45% in obbligazioni decennali al tasso fisso del 4%.
Alla Banca d’Italia quest’offerta non è sembrata congrua, perché il bando prevedeva l’alienazione totale della quota posseduta e per contanti, non parzialmente in titoli: “Questo Istituto, sin dall'inizio della procedura di vendita, ha chiarito l'intenzione di dismettere in blocco l'intera partecipazione”, ha chiarito via Nazionale in un comunicato, “e ha, successivamente, precisato che avrebbe considerato progetti di integrazione industriale a condizione che consentissero comunque l'uscita della Banca dalla società in un congruo lasso di tempo. L'offerta presentata, considerato che non riguarda la cessione in blocco dell'intera partecipazione, che non si configura come un progetto di integrazione industriale e che prevede modalita' di pagamento soggette ad un significativo rischio finanziario, non risponde ai requisiti richiesti". Zero a zero e palla al centro, dunque, si ricomincia: Bonifiche Ferraresi andrà comunque venduta, si riapriranno i termini della gara o ne verrà bandita una nuova.
C’è un punto curioso, nella nota di Bankitalia: quello in cui si definisce l’offerta della cordata Vecchioni come avulsa da “un progetto di integrazione industriale”. In realtà è vero il contrario. Per quanto Vecchioni, sobriamente ed opportunamente, abbia preferito non parlarne, si sa che la sua idea ruota tutta attorno a una decisa valorizzazione industriale dell’asset, ed alla successiva estensione della scommessa ad altre aziende aggregabili, fermo restando che la Ferraresi è la più grande. Un’agricoltura integrata in filiera con gli sbocchi agroindustriali dei prodotti, diversificata dove il mercato premia e non concentrata sulle poche redditizie colture cerealicole, un completamento del business con le rinnovabili – solare su serra, forse, o biomasse – tra le due aziende agricole situate nella Provincia di Ferrara ed una in provincia di Arezzo.
Un genere di sfida agroindustriale che fino ad oggi è completamente mancata, in un’Italia contraddistinta da un tessuto agrario polverizzato, poco meccanizzato, e sostanzialmente sussistenziale salvo che in pochi quadranti e in poche filiere. Il progetto su Bonifiche Ferraresi si candidava – ma il tempo al passato è probabilmente un errore perché la cordata si ripresenterà – a divenire un polo aggregante di medie e medio-grandi aziende agricole italiane in cerca di gestione. Ce ne sono tante, e avrebbe senso aggregarle.