Che cos’è accaduto in Argentina?
A partire dal 2003, lo sganciamento dal dollaro e l’andamento favorevole dei prezzi delle materie prime alimentari hanno reso possibile un cambio drastico della politica economica, in precedenza dettata dal FMI: espansione fiscale invece dell’austerità; espansione monetaria invece degli alti tassi d’interesse; fine dell’indipendenza della banca centrale; integrazione regionale e un maggior grado di protezionismo verso il resto del mondo invece del libero mercato imposto con la forza militare a partire dalla fine dei Settanta. Ciò si è tradotto in altissimi tassi di crescita e drastica riduzione della disoccupazione, oggi al 6,8%.
In maniera non dissimile dal passato, questa strategia di crescita impone però il massimo di attenzione per quanto riguarda le riserve internazionali in dollari, sennò si rischia di cadere dalle stelle alle stalle, in base al paradosso del ciclo stop and go: la forte crescita del Pil innesca un’impennata delle importazioni (maggiore della crescita delle esportazioni) che genera un crescente disequilibrio di conto corrente della bilancia dei pagamenti. Per arrestare questo fenomeno si ricorre a una drastica svalutazione, che, dato il contesto di crescita, fa schizzare l’inflazione fuori controllo, peggiora la distribuzione, raffredda l’economia e annulla gli effetti della crescita economica precedente, condannando il paese a un perenne sottosviluppo
Tra il 2003 ed il 2011, le importazioni sono cresciute in media del 16,6% annuale mentre le esportazioni soltanto del 6,3% annuale. Ciò ha determinato un deficit nelle partite correnti, tuttavia la forte crescita ha permesso di contenerlo a livelli inferiori al resto della regione
Tuttavia, tra l’agosto e il dicembre 2011 un fortissimo attacco speculativo colpisce duramente le riserve. In vista delle imminenti elezioni presidenziali, i media oppositori iniziano una campagna martellante in base alla quale la presidentessa starebbe pensando ad una mega svalutazione post-elettorale del peso. Nel pieno rispetto della legge, avviene così un’enorme “corrida cambiaria”, che determina una fuga all’estero di quasi 11mila milioni di dollari.
Come conseguenza, il governo introduce rigidi controlli ai capitali e al mercato della valuta straniera, di fatto ristretto alle sole imprese e non più ai cittadini.
Come contro-conseguenza, nasce quindi un mercato nero del dollaro, con quotazioni molto superiori di quella ufficiale.
Entrambi questi elementi permettono la nascita di una enorme macchina della speculazione finanziaria e fondiaria (gestita da imprese multinazionali, banche estere come HSBC e grandi proprietari terrieri) che nel 2013 ha portato a un crollo delle riserve in dollari, passate da 42.000 milioni a 30.000 milioni. Che cosa è successo?
Le banche estere con filiale negli Stati Uniti, garantivano l’afflusso di dollari al mercato nero attraverso un meccanismo simile al pronti contro termine: il cliente comprava in pesos un titolo della Borsa di Buenos Aires ma quotato anche a Wall Street; quindi apriva un conto corrente all’estero e lo rivendeva a New York ricavando dollari, da rivendere in Argentina al mercato nero o da depositare all’estero.
Dal lato delle importazioni, le tante multinazionali che operano nel paese (automobilistiche, farmaceutiche etc.) sono costantemente ricorse alla sovrafatturazione delle componenti inviate dalla casa madre per approvvigionarsi di dollari extra da rivendere al mercato nero o trafugare all’estero. In più, la quasi totalità delle imprese hanno anticipato le quantità da importare per avere subito in mano dollari, che avrebbero più avanti rivenduto al mercato nero, confidando nel continuo apprezzamento del dollaro illegale.
Dal lato delle esportazioni, infine, le grandi esportatrici della soja e del settore primario hanno letteralmente smesso di esportare nel 2013, confidando nella forte meccanizzazione che permette di conservare il raccolto per anni, sotto vuoto in enormi silos. Visto infatti l’andamento del mercato nero del dollaro il loro interesse era aspettare il punto più alto della svalutazione per vendere il raccolto e approvvigionarsi di dollari, da rivendere al mercato nero o nascondere all’estero.
Ma perché le imprese hanno potuto anticipare l’import e il settore primario ritardare l’export senza fallire o soffrire perdite? Perché per eccesso di “zelo keynesiano” il governo ha mantenuto tassi d’interesse reali negativi che hanno permesso ad entrambe di finanziarsi prendendo prestiti vantaggiosi, in attesa della speculazione.
Del resto, cosa ancor più grave, anche in termini nominali è esistito un differenziale tra tasso d’interesse domestico e resto del mondo.
Attenti, non vogliamo qui affermare che sia giusto il rigore della politica monetaria o che gli economisti keynesiani abbiano torto a priori, ma solo che l’esistenza di un differenziale nominale negativo col resto della regione (e talvolta lo stesso primo mondo) ha determinato che questi stessi capitali, frutto della speculazione, prendessero, in ultima istanza, la via della fuga all’estero (FAE).
Insomma, la forte differenza di rendimento nominale tra pesos e dollari ha determinato l’inefficacia dei controlli di capitale.
Di fronte a questo scenario complicato, il governo ha giocato lo spariglio: ha svalutato il peso sul dollaro fino a quota 8 ed ha liberalizzato l’accesso all’acquisto di dollari (ovviamente esiste un tetto massimo in base al reddito dichiarato). Allo stesso tempo, ha aumentato il tasso di interesse di riferimento per il settore agricolo (il cosiddetto tasso Badlar, attualmente al 21%).
La strategia del governo mira a tenere il cambio inchiodato ad 8 per far fallire il mercato nero ed obbligare gli esportatori a esportare. Allo stesso tempo, esiste anche la convinzione che le importazioni saranno ora più care e che, di fronte a un cambio stabile, non verranno più anticipate. Ovviamente, mantenere questo cambio implicherà il sacrificio di ulteriori riserve, stimato tra i 5mila e i 10mila milioni di dollari, una cifra senza dubbio importante. Al riguardo, si vocifera però che la banca centrale brasiliana si stia preparando a venire in soccorso, dati l’abbondanza di riserve (oltre 320.000 milioni di dollari) e il fatto che il crollo argentino avrebbe l’effetto di una tsunami sulla regione.
Se questi sono i fatti, a noi interessa rimarcare una serie di implicazioni.
In primo luogo, che questi interventi non implicano necessariamente l’abbandono del modello di crescita che l’Argentina ha sin qui adottato se, per esempio, verranno implementate misure compensatorie per i redditi più bassi colpiti dalla svalutazione e se venisse segmentato il tasso d’interesse, in modo da contenerne gli effetti recessivi su consumo e impiego, mantenendolo basso per le famiglie e gli investimenti produttivi. Del resto, il permanere a zero dei tassi d’interesse nei paesi sviluppati permetterebbe anche ad un aumento moderato del tasso argentino di essere efficace, specie se accompagnato da una riduzione dello spread.
La presentazione, questa settimana, dei piani di intervento PROGRESAR (sussidio per i giovani neet che si riscrivano alla scuola o all’università, per un totale equivalente a 1.375 milioni di dollari) e FONDEAR (credito agevolato per le imprese che operino in settori ad alto valore aggregato, per un totale di 1.250 milioni dollari) sembrerebbero rafforzare questa ipotesi.
In secondo luogo, che la situazione attuale non smentisce nessuna delle nostre critiche alla diagnosi di Frenkel e Rapetti.
Intanto, perché la svalutazione appena compiuta non aveva affatto come obiettivo né l’aumento dell’export né stimolare la crescita economica (per la cronaca, il PIL quest’anno chiuderà al +5,1% e la disoccupazione è al minimo storico del 6,8%). Il suo obiettivo era infatti interrompere la fuga di capitali e spezzare le reni alla speculazione fondiaria e finanziaria per salvare questo modello di crescita. A che serve dunque sacrificare oltre misura il salario reale se come mostrano differenti contributi (Fiorito, Guaita & Guaita; Berretoni & Castresana; Vernengo) le esportazioni e le importazioni argentine sono inelastiche rispetto al tasso di cambio?
Del resto, a nostro avviso la stessa inflazione non dipende da eccesso di domanda ed emissione (come argomentano a più riprese Frenkel e Rapetti) ma, piuttosto, dall’effetto trascinamento del forte prezzo dei prodotti primari esportati sui prezzi interni (anche a noi piace mangiare la carne argentina e mangiamo pane e farinacei!), dal conflitto distributivo (a partire dal 2009, anno in cui il salario reale recupera il potere d’acquisto perso nel 2003) e dal ritmo della stessa svalutazione (che a dispetto dei luoghi comuni è stata del 61% rispetto allo scorso gennaio 2013) Del resto, anche l’utilizzo della capacità produttiva installata oggigiorno è ben al di sotto delle possibilità dell’economia argentina, che pertanto non si trova in una condizione artificiosamente surriscaldata. Nemmeno può dirsi che il tasso di cambio reale fosse in ritardo rispetto al resto della regione determinando un problema di competitività, ad esempio data l’enorme apprezzamento nominale del real.
Tasso di cambio reale bilaterale con USA (100=2000)
Fonte: Frenkel & Rapetti, (2011), p.16
Infine, neanche il deficit fiscale rappresentava un problema tipicamente argentino, che anzi poteva contare su un saldo primario di parte corrente in linea con la media del resto della regione:
Insomma, il 2014 sarà pure un anno complicato per l’Argentina ma non ci sentiamo di fissare già la data del funerale di questo paese.