C’è un po’ di vento in questa afosa serata di luglio. Con un gioco di correnti, finestre aperte, è ideale far scorrere un fiume di musica in casa, ora che le cicale tacciono e il silenzio cittadino d’estate può essere destato da poesie in musica. E sul lettore cd canta uno dei gruppi più assurdamente sottovalutati su questa terra: i Waterboys. Sì, certo, non sapete chi sono, ed è un peccato. Esistono da una vita, fioriti nell’umida Scozia, con quel nome preso a prestito da un verso di una canzone di Lou Reed. E il leader è un ragazzo emaciato, filiforme, capellone, assolutamente lunatico dal nome come che suona come una saetta: Mike Scott.
Inventore, fondatore, creatore, factotum e tiranno, sissignori, perché nelle band che si rispetti la democrazia è una balla, e lui fa e disfa, scioglie, riforma, mescola, briga, scrive, tuona. La madre era insegnante di letteratura e lui cresce con un sacco di storie in testa: le racconta tutte, a modo suo. Si fa fama di tipo strambo, anche perché va in giro a dire che i diritti d’autore non gli interessano e che le canzoni appartengono a tutti. E lui di canzoni ne butta giù a centinaia, scrive sempre e sono canzoni bellissime, diverse, magnetiche, aspre, sognanti, poetiche, di denuncia. La prima vita dei Waterboys è molto, molto rock.