Usano la moneta Israeliana, le uniche infrastrutture civili le ha fatte Israele, ma per favore
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UNA DESCRIZIONE DELLA STRISCIA DI GAZA, FATTA DA CHI CI È STATO
"gaza city è contemporaneamente una città mediterranea moderna e una città in guerra, una città che cerca di vivere quando può dimenticando che è in guerra"
DI FEDERICO DI VITAPUBBLICATO: 13/05/2021
La Striscia di Gaza, lunga 40 chilometri e larga da un minimo di quasi sette a un massimo di circa quindici, è una porzione di territorio palestinese che con i suoi quasi due milioni di abitanti in appena 360 chilometri quadrati risulta essere tra i luoghi più densamente abitati del pianeta. La Striscia di Gaza è chiusa lungo tutto il confine con Israele – escluso il breve tratto a sud che la separa dall’Egitto – da una lunga barriera presidiata militarmente, a sua volta circondata da un chilometro di zona cuscinetto costantemente controllata con raffinate tecnologie di osservazione. I soldati israeliani che presidiano il confine con questa barriera rispettano regole di ingaggio che, secondo il quotidiano israeliano Ha’aretz, prevedono di fare fuoco contro chiunque si aggiri nei paraggi del muro durante la notte.
Sono stato in Israele alcuni anni fa, ho visto molte cose ma entrare nella Striscia di Gaza è risultato impossibile, varcando il checkpoint di Gaza avrei dovuto rinunciare al volo di ritorno da Tel Aviv, rendendo anche complicato un mio eventuale futuro ingresso in Israele e probabilmente generando un sospetto destinato a crearmi grattacapi in qualsiasi aeroporto mondiale. Date le oggettive difficoltà di accesso, sono poche le persone che entrano a Gaza, ma dovendo scrivere dell’aspetto di quella zona di colline distese davanti al Mediterraneo, al confine tra Egitto e Israele, sono riuscito a entrare in contatto con qualcuno che ci è stato più volte, e che per tutelare se stesso e le organizzazioni umanitarie con cui collabora preferisce non essere citato per nome. Non so se vi sia mai capitato di leggere della Striscia di Gaza se non per fatti di cronaca politica, quando proprio non di guerra. A me non era mai successo, questo resoconto quindi mi sembra prezioso. A fornirmelo è stato un medico che ha lavorato più volte all’European Gaza Hospital.
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Un posto di blocco al confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto
Sono stato a Gaza l’ultima volta nel 2019, in autunno. Lavoravo all’European Gaza Hospital a Khan Yunis e alla meravigliosa scuola di medicina e infermieristica associata, un posto piuttosto magico fatto di giardini, fiori, palme e incredibili acqua e luce 24/7, cosa più unica che rara a Gaza. Inizialmente provo a descrivere l’
ingresso al valico di Eretz a Rafah, l’ultima città al confine con l’Egitto. In generale la prima cosa che vorrei sottolineare sono i fortissimi contrasti, si passa da estreme bellezze a luoghi tremendi, sia per il significato che hanno, che per l’oggettiva bruttezza. Potrebbe essere un posto incantevole, un paradiso da turisti, se non fosse quello che è.
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Il segno che stai arrivando al valico te lo danno dei palloni bianchi, gli enormi Gaza Eye, i palloni spia israeliani che tengono d’occhio tutto il confine, e il niente dopo i campi coltivati a ogni cosa di prima. [Fa sempre impressione in quelle zone semidesertiche notare come lungo i confini i coloni israeliani riescano a coltivare in modo rigoglioso porzioni geometriche di territorio, che finiscono per segnare col loro aspetto uno iato nettissimo rispetto allo stato di fronte: capita per esempio la stessa cosa anche tra Israele e Giordania. È certamente significativo che i coloni coltivino in modo così rigoglioso proprio lungo i confini, chi li ha attraversati sa che nei magari centinaia di chilometri alle sue spalle poteva non esserci neanche un albero, ndr]. Il
valico di Erez è una enorme, sproporzionata dogana immersa in uno spazio quasi desertico, pensato per centinaia di persone ma inutile per i piccoli numeri che l’attraversano adesso. Passati i controlli israeliani ed entrati, quindi, nella Striscia, si viene accolti in un tunnel di rete – chiuso, oppressivo – lungo circa un chilometro e mezzo. Si procede su delle colline sabbiose, alla fine delle quali arrivi ai controlli palestinesi.
Sullo sfondo ci sono gli inceneritori e un perenne odore di bruciato (lo smaltimento dei rifiuti è uno dei problemi più grandi di Gaza, c’è una sola discarica e una decina di altri siti di raccolta, tutti al collasso. I rifiuti si bruciano, e vengono ammassati per lo più lungo i confini, anche, ma non solo, per infastidire). Una prima costante che si nota, per tutto il soggiorno, è un rumore di fondo: uno
zzzzz persistente che ti accompagna in ogni istante, e che ci metti un po’ a individuare. È il rumore dei droni che sorvegliano il cielo, sempre, di continuo. Poi ci sono le esplosioni. Se è un periodo di calma, se sono lontane, sai che sono nel Sinai e smetti di preoccuparti.
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Una scena di vita quotidiana a Gaza City
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Una scena di vita quotidiana a Gaza
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Dopo i controlli palestinesi – checkpoint piuttosto desolati e squallidi, baracche di lamiere, puzza, fango… – si prosegue verso
Gaza City, la città principale, che è decisamente più a nord rispetto al resto della Striscia, continuo la descrizione da qui. All’inizio la città è desolante: la periferia è un unico susseguirsi di palazzoni distrutti e campi profughi – non i classici campi profughi che ci si aspetta, tende e tutto il resto, ma veri e propri quartieri, solo più soffocanti, stretti, mal costruiti e poveri, pieni di emblemi e tende dell’UNRWA (L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente); intorno solo colline spoglie, strade dissestate, niente.
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Gaza City sotto una pioggia di volantini con cui l’esercito israeliano esortava i residenti a evacuare le loro case il 30 luglio 2014
La città si rivela essere in realtà, come tutta la Striscia, un insieme infinito, continuo e disturbante di contraddizioni –
è contemporaneamente una città mediterranea moderna e una città in guerra, una città che cerca di vivere quando può dimenticando che è in guerra. Inizi a percepirti in una enorme scatola, in cui ci sono quartieri poverissimi, affollati, sporchi e la grande nuova moschea , la moschea Kalidi, bianchissima, illuminata a giorno sul lungomare. Poi c’è il mercato vivissimo con i rivenditori d’oro e di libri, dove trovi le vecchie mappe della Palestina e tutte le spezie del mondo e ancora gli edifici distrutti, gli hotel ormai attivi solo per gli operatori umanitari che sono un sogno orientalista e un po’ coloniale; i modernissimi palazzi d’ufficio del centro, il centro commerciale enorme e luccicante, altri alberghi sulla riva che fanno un po’ Riccione, i musei, i campi profughi, i taxi, i motorini, gli asini e i cavalli, e quindi il porto costruito con i pezzi delle case distrutte. È tutto densissimo: le strade, le persone, le cose.
Arrivato a Gaza City ti accorgi che Gaza ha il mare, che è sostentamento importante – un porto più che trafficato, infinite persone e infinite imbarcazioni – ma poi ti accorgi che il mare finisce presto, perché non si può andare a più di 3 chilometri dalla riva. A Gaza City il lungomare è porto e divertimento, c’è la spiaggia sabbiosa, moltissimi locali, panchine, giostre, uno skate-park: sembra Varazze, col rischio che ti sparino se nuoti un po’ più a largo. Si nota una cosa tonda che fa da muro del porto, è un po’ strana: era un pezzo di moschea venuto giù nei bombardamenti di quattro anni fa. C’è la storia, anche. A
Gaza Vecchia sembra di entrare in un altro mondo raccolto attorno al vecchio caravanserraglio: conserva ancora, per quanto possibile, i propri tesori: le mura, le vecchie case – alcune trasformate in splendidi ristoranti che non hanno nulla da invidiare ai posti più chic di Milano; la vecchia moschea Omari e Sayed Hashim, il vecchio palazzo Al Basha, sede del governo ottomano, circondato da fiori, dalle buganville viola che tingono i luoghi più belli, dalle palme… C’è la stupefacente chiesa di San Porfirio e i suoi affreschi (la vedi affacciarsi dalla moschea Katib al-Wilaya, in un intreccio rispettatissimo di culture), poi le vecchie pasticcerie – il cibo a Gaza è ovunque nonostante la povertà, ed è buonissimo.
Poi più in centro c’è la zona degli uffici e delle ONG, degli ospedali, quindi la parte delle abitazioni – quasi tutte con un piano provvisorio-definitivo in cima. Provvisorio-definitivo perché: primo, può sempre servire un piano in più; secondo, a cosa serve mettere tutto a posto se poi tanto bombardano? Subito dopo trovi di nuovo edifici distrutti, strade strette e soffocanti, ma anche murales ovunque, una forte vitalità, tante università e centri di cultura, e rifiuti dappertutto.
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Uscendo da Gaza City, dal traffico, dall’inquinamento, ti si apre lo sguardo, arrivi nelle zone agricole collinari, alcune – anche se poche – ben coltivate. I gazawi sono straordinari agricoltori e le fragole prodotte lì sono pregiate, ma l’acqua è più che razionata. Addentrarsi in un’azienda agricola gazawi vuol dire trovarsi in ordinati e lussureggianti luoghi ricchi di piante di agrumi, di giawafa, e di palme cariche di datteri. Intorno ci sono strade completamente dismesse, costruzioni svuotate, e ancora ovunque i simboli dell’UNWRA. Poi magazzini abbandonati, case distrutte, macchine, carretti trainati da asini e ogni tanto, improvvisamente, un checkpoint militare. Ancora rifiuti, fuochi, assembramenti di persone, le rovine dell’unico aeroporto, i detriti, le macerie, densità densità densità e poi di nuovo si allarga lo sguardo ed ecco il mare.
Il mare qui, fuori dalle città, significa dune sabbiose con case circondate da alberi appena un po’ più all’interno, improvvisamente ti trovi in luoghi bellissimi, tra i frutteti – c’è un posto chiamato letteralmente il monastero dei datteri. Ci sono ristoranti di pesce dove i vecchi giocano a carte (c’è una grossa, grossa differenza anche all’interno della società palestinese: tra i rifugiati e le famiglie che qui ci vivono da sempre, è una differenza di censo e di soldi, evidentissima). Questa parte è bellissima. Il mare è inquinatissimo eppure bello, ogni casa ha i suoi ricami ovunque, i famosi ricami di Gaza. L’ospitalità è quella mediterranea. Ogni casa gazawi ha dentro una mamma “italiana”, e pure una nonna.
A metà strada tra le due città principali sei di nuovo nell’antichità: c’è il monastero di Sant’Ilarione coi suoi mosaici che sembra di stare in una Ravenna in mezzo alle colline – che belle quelle colline, che voglia di camminarci. Ma in fondo in fondo vedi il muro: io non mi sono mai avvicinato perché non ci era permesso per ragioni di sicurezza, ho visto solo i risultati, ogni venerdì, in ospedale.
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Khan Yunis
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Il villaggio di Khuza’a, a est di Khan Yuni
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Un quartiere residenziale di Khan Yunis
Khan Yunis, la seconda città della Striscia, non è la stessa cosa: se Gaza City conserva il passato, il futuro e una turbolenza interna, qui ci sono solo palazzoni, campi profughi e ancora palazzoni. Anche qui però si alternano con alcuni enormi cortili fioriti – i pazienti siedono sotto alle buganvillae –, ci sono le palme e tramonti bellissimi. Poi locali dove si fuma la shisha, di un kitch allucinante: luci stroboscopiche, mobili da spiaggia, un senso costante di provvisorio-definitivo, alle pareti i ritratti di quelli che considerano più o meno degli eroi: Che Guevara, Mahmood Darwish, Fayruz, Saddam Hussein, Arafat. C’è musica a tutto volume – spesso di Fayruz – e mercati vivacissimi, dove trovi la Nutella e, se è stagione, il profumo fortissimo dei fiori, delle giawafe che maturano e dei datteri.
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Una scena di vita quotidana a Rafah
Stiamo tornando verso il confine con l’Egitto, più ci si avvicina più sono forti le esplosioni.
Rafah, l’ultima città, è anche quella più colpita dai bombardamenti. È la città dei tunnel verso l’esterno da dove siamo entrati, e del monumento al missile nel mezzo della rotatoria principale. Rafah è una città perennemente distrutta, brutta ma non triste. Ci si trova sui tetti la sera, quei tetti provvisori-definitivi, a guardare il confine, mangiare datteri e bere l’infinito caffè al cardamomo. Non hai paura che cada qualcosa?, chiedi. Sì, ma qui ci vivo e devo anche vivere, rispondono. E smetti di avere paura anche tu.
FEDERICO DI VITA