Il cibo è passione, è amore.



L'ossessione cinese per il cibo

I cinesi sono ossessionati dal cibo perché hanno sempre sofferto la fame.
Oggi in Cina per mangiare al ristorante si spendono 3,5 trilioni di yuan (507 miliardi di dollari): una cifra superiore al Pil della Svezia (496 miliardi).
Una fame insaziabile che nel romanzo di Mo Yan Quarantuno Colpi diventa voracità carnivora. Il Premio Nobel 2012 era bambino quando Mao con il Grande Balzo in Avanti (1958-59) affamò le campagne provocando quella gravissima carestia che fece decine di milioni di morti.

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La rivoluzione a tavola di Xi Jinping. Ma il vero cambiamento nella dieta della leadership cinese avviene con l’attuale presidente. Xi Jinping ha combattuto la corruzione interna al Partito cominciando dalla tavola: “quattro portate, una zuppa” bastano per un pranzo ufficiale. Il presidente ha bandito i banchetti sontuosi e ha imposto ai funzionari una postura frugale. Anche così si conquistano le masse. Xi ha introdotto il regime del Jia Chang Cai: la cucina di casa, cioè il cibo dei laobaixing, la gente comune. Ad esempio: il pane pita inzuppato nel brodo di agnello, Yang Rou Pao Mo (羊肉泡馍), tipica ricetta dello Shaanxi, è molto gradita al presidente, che è originario di questa provincia nordoccidentale.
Ma il suo piatto preferito è un altro: i popolarissimi Baozi, panini ripieni cotti al vapore.

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Nel 2013, un venerdì di dicembre Xi – da poco presidente - entra in uno dei ristoranti della famosa catena Qingfeng nella zona ovest di Pechino, e si mette in fila. Nel giro di pochissime ore le immagini del presidente alla cassa sono già virali sui social. Alcuni dubitano che siano vere. Invece è proprio lui: Xi paga 21 yuan (3,5 dollari) per sei baozi ripieni di carne di maiale, un piatto di fegato fritto e di verdure. E con il suo vassoio, va a sedersi vicino agli altri commensali.


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Le religioni non mancano di normare il rapporto dell'uomo con il cibo, considerato un dono di Dio.


Halal è un insieme di regole riguardanti i principi di vita dei seguaci islamici e la "morale musulmana". Comprende, tra le altre cose, standard nutrizionali conformi alla legge islamica della Shari’ah. Halal significa tutto ciò che è consentito o conforme alla legge islamica. L’opposto di halal è il concetto di ‘haram’ , che nella cultura araba significa cose che sono inaccettabili o illegali nella legge islamica.
Pensando al cibo proibito (haram in arabo) nella religione musulmana ci viene subito in mente il maiale (e il cinghiale), per il quale esistono anche ragioni storiche e igienico-sanitarie: il maiale è un animale onnivoro che si nutre anche di carcasse e cibi ormai guasti e quindi possibile foriero di malattie.
Per motivi simili sono vietati anche gli animali carnivori (leone, tigre ma anche gatto, cane, scimmia) e gli uccelli predatori, così come i rettili e gli insetti invece perché privi di sangue o a sangue freddo (ma le locuste sono lecite).


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La carne equina non è proibita ma sconsigliata più per una questione di rispetto verso l'animale; unica eccezione l'asino addomesticato, vietato perché considerato una risorsa per la comunità.
In generale però la carne può essere consumata solo se macellata secondo il rituale islamico: l'animale non deve subire violenze e deve essere sgozzato vivo fino al totale dissanguamento; poi si devono scartare interiora, midollo, pupille e organi genitali.

L'altro grande divieto islamico sono gli alcolici, definiti "opera di Satana" dal Corano poiché, insieme alle droghe, danneggiano la salute e ottenebrano la ragione: non solo vino, ma qualsiasi distillato o bevanda che contenga alcol, frutto di qualsiasi tipo di elemento vegetale (uva, dattero, fico ma anche grano, orzo, mais, riso).
Completamente Ḥalāl invece (leciti) tutte le piante e i frutti della terra.
Anche sui prodotti del mare ci sono limitazioni: sì ai pesci dotati di squame e no a balene, squali e anguille o ai prodotti ittici con guscio (crostacei e molluschi).


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Anche il maiale, che ha l’unghia bipartita ma non rumina,
lo considererai immondo. Non mangerete la loro carne e non
toccherete i loro cadaveri [Deuteronomio 14, 8]


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Ebraismo: la Kasherùt
Il divieto della carne di maiale è condiviso anche dagli ebrei, che lo definiscono un animale impuro
Secondo la Kasherùt infatti (le regole dettate nella Torah, soprattutto nei libri Levitico e Deuteronomio) in generale sono puri gli animali contemporaneamente con lo zoccolo spaccato e ruminanti (come la mucca o la capra), cosa che esclude categoricamente cavalli, muli, asini e cammelli. Illeciti anche selvaggina (carnivori ma anche conigli e lepri), crostacei e molluschi ma permessi i pesci (che abbiano squame e pinne) e alcuni volatili come pollo, il tacchino, l’oca (non i rapaci) e tutti i tipi di vegetali.

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Per essere Kashèr (adatti) le carni poi devono essere macellate secondo la shechitah, la macellazione rituale che prevede il taglio della gola dell’animale così da ottenere una morte rapida dell’animale e il completo dissanguamento.
Per completare la casherazione, che toglie ogni traccia di sangue, la carne viene poi messa in ammollo per almeno mezz’ora e poi coperta di sale. A tavola poi non possono essere mescolati carne e latticini, il che rende Taref (non adatti) i formaggi prodotti con caglio animale ma anche le cotture nel burro.
Il vino non è proibito ma solo se preparato secondo i metodi kashèr.


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Io me lo ricordo il cabaret di paste. Un vassoio dorato, finemente
incartato e poi scartato alla velocità della luce. La divisione a metà era rigorosa: da una parte le paste,
da tagliuzzare in due, quattro, sei "così le assaggio tutte", dall'altra le pastine mignon, che finivano sempre
troppo presto. Litigi velati per il bignè al cioccolato e la giacenza del cestino di frolla con la frutta (che non
fa gola a nessuno, ma va preso per forza), sono tra i ricordi più dolci della mia infanzia in famiglia.


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A Treviso il cabaret delle paste, quello tradizionale da domenica in famiglia, sprofondati nel divano con Quelli che Il Calcio alla Tv, si prende all'Antica Pasticceria Nascimben. Aperta dal 1956, conserva ancora tutta l'allure rassicurante che ognuno di noi cerca quando viene illuminato dalla missione: cabaret di pastine.

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Flego è un nome storico e imprescindibile per tutti gli aficionados del cabaret di paste a Verona. Pasticcini tradizionali, innovativi, macaron e tortine gioiello

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L'Hotel Pasticceria Fiori è uno di quei posti dove vorresti restare chiuso, dopo aver buttato via la chiave. Siamo a Belluno e si respira l'aria buona di montagna mischiata al dolce aroma delle paste appena confezionate. Un piccolo concentrato di golosità che ha come specialità lo strudel.


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che bel post, Maf, ciao :)




Per te dalla Sicilia la torta Fedora

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Dolce della tradizione, catanese, una prelibatezza cremosa a base di ricotta di pecora zuccherata, pan di Spagna e gocce di cioccolato fondente; il sapore del territorio è poi affermato da una ricca decorazione con golosi ciuffetti di crema e una copiosa manciata di pistacchi di Bronte e mandorle di Avola

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che bel post, Maf, ciao :)




Per te dalla Sicilia la torta Fedora

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Dolce della tradizione, catanese, una prelibatezza cremosa a base di ricotta di pecora zuccherata, pan di Spagna e gocce di cioccolato fondente; il sapore del territorio è poi ulteriormente affidato ad una ricca decorazione con golosi ciuffetti di crema e una copiosa manciata di pistacchi di Bronte e mandorle di Avola

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Che delizia...grazie!:)

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Un "Trionfo di Gola" al Gran Ballo del Gattopardo

Al disotto dei candelabri, al disotto delle alzate a cinque ripiani […] si stendeva la monotona opulenza
delle tables à thé dei grandi balli: […] immani babà sauri come il manto dei cavalli, “Monte Bianchi”
nevosi di panna, “Beignets Dauphine” […], collinette di Profitteroles alla cioccolata […], “Parfaits sciampagna”
[…] e “Trionfi della Gola” col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche “Paste delle Vergini”.
Così Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne ” Il Gattopardo” cita il Trionfo di Gola.



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Il dolce siciliano ha un nome che parla da sé ed un sapore che ha ispirato penne illustri.
Un dolce ricco di ingredienti del territorio e di preparazioni elaborate oltre che di sapori che deliziano le papille gustative. Non meraviglia, dunque, che una tale delizia abbia ispirato gli scritti di autori famosi tra cui Giuseppe Tomasi di Lampedusa che lo ha citato e descritto in maniera invitante ed evocativa sulle pagine del Gattopardo nella parte in cui passa in rassegna le portate servite in occasione del Gran Ballo.

Anche Fulco di Verdura, nel suo “Estati Felici”, racconta come la famiglia fosse solita servire, in occasione delle Festività, i dolci preparati nei conventi, cita il Trionfo di Gola spiegando che una specialità del genere non necessita di particolari descrizioni perchè ha già un nome che parla da sé.

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Anche Dacia Maraini, in “Bagheria”, si sofferma a descrivere il Trionfo di Gola paragonando un suo assaggio ad un suggestivo paesaggio montano, tanti sono i sapori, i colori e le consistenze racchiusi in questo dolce.

“Una montagnola verde fatta di gelatina di pistacchio, mescolata alle arance candite, alla ricotta
dolce, all’uvetta e ai pezzi di cioccolata”, diceva mia madre…«Si squaglia in bocca come una
nuvola spandendo profumi intensi e stupefacenti. E’ come mangiarsi un paesaggio montano, con
tutti i suoi boschi, i suoi fiumi, i suoi prati; un paesaggio reso leggero e friabile da una bambagia
luminosa che lo contiene e lo trasforma, da gioia degli occhi a gioia della lingua.
Si trattiene il respiro e ci si bea di quello straordinario pezzo di mondo zuccherino che si ha il pregio
di tenere sospeso sulla lingua come il dono più prezioso degli dei …
”.


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"Per Plinio il tartufo era un callo della terra. Per Brillat-Savarin il diamante della cucina.
Per Rossini, il “Mozart dei funghi”. Secondo gli antichi saggi, il loro abuso provocava malinconia.
Rasputin lo prescriveva allo zar Nicola e allo zarevic Aleksej per curarne l’emofilia.
Napoleone e il marchese de Sade ricorrevano al tartufo nei loro tenzoni amorosi : entrambi
lo consideravano un afrodisiaco eccezionale. Il suo intenso profumo, ricorda alla peruviana
Isabel Allende “quell’odorino di aglio e sudore che ristagna sui vagoni della metropolitana di New York”.
Al naso di Pat Conroy, invece, il tartufo fa uno strano effetto “ha un’aroma caratteristico come quello
della marijuana ; ti dà l’idea dell’odore che un albero deve sentire di se stesso”

(Lorenzo Cairoli)


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La golosità ha sull’amore mille vantaggi. Ma il più importante è che, mentre bisogna essere in due
per abbandonarsi all’amore, si può praticare la golosità da soli, anche se l’abate Morellet ha detto:
“Per mangiare un tacchino al tartufo bisogna essere in due: il tacchino e se stessi”.

(Guy de Maupassant)


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Come preparare le tagliatelle al tartufo

Per prima cosa spazzolate il tartufo con un pennellino o uno spazzolino sotto acqua corrente, per eliminare il terreno in eccesso e tutte le impurità, asciugatelo accuratamente con un panno di cotone pulito e mettetelo da parte.
Scaldate l'olio in una padella e aggiungete anche il burro e lo spicchio d'aglio.
Nel frattempo affettate il tartufo a lamelle sottili: non appena l'aglio*si sarà imbiondito, eliminatelo e aggiungete in padella qualche scaglia di tartufo, tenendone da parte le altre per decorare il piatto.
Fate insaporite il condimento a fuoco spento e nel frattempo fate cuocere le tagliatelle in abbondante acqua salata.
Scolatele al dente e fatele insaporire nella padella con il condimento, aggiungete un po' di pepe e mescolate aggiungendo, se necessario, un po' di acqua di cottura per legare la pasta.
Servite subito con abbondanti scaglie di tartufo nero.

Il tartufo è un ingrediente molto delicato e tende a seccarsi subito. Conservatelo avvolto in una garza all'interno di un barattolo di vetro e riponetelo in un luogo fresco: in questo modo potrete conservarlo per una settimana.

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Ma che bontà :clap:
Quante primizie ci offre il bosco, gli alberi più indicati per trovare i tartufi sono il rovere e il leccio.


Lo conosci ma non sai definirlo, lo percepisci ma non riesci ad assaporarlo, lo avvicini ma non ne cogli l’anima. Araba fenice della gastronomia internazionale, utopia dei sensi, il tartufo bianco è essenzialmente profumo, e solo dopo anche gusto.”

(Carlo Cracco)


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Squisito con le uova e le tagliatelle, ma anche sui crostini o su un tortino di patate o sul flan

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Curiosità sul tartufo:
Fred Buscaglione e la canzone “La trifola”

Nel 1958 Fred Buscaglione incide la canzone “La Trifola”, autori Bixio Cherubini (testo), Carlo Concina (musica).




Un giorno all’osteria del vecchio Gufo
sedeva una Totina vicino a me
mangiava una pietanza con il tartufo
le chiesi signorina ma che cos’è?
lei mi spiegò è la trifola l’assaggi e poi vedrà
allor senza preamboli ne presi la metà

Per quella mezza trifola
trifola
trifola
io persi la ragion
m’accesi di passion
per quella mezza trifola
trifola
trifola
legammo i nostri cuor in un vincolo d’amor
in un vincolo d’amor

Sposai la bella Tota per il tartufo
e lei mi disse un giorno sarò mamma
riandammo all’osteria del vecchio Gufo
per festeggiar la nostra felicità
lei mise al mondo un angelo che invece di poppare
voleva mangiar la trifola pur senza masticare

Per quella mezza trifola
trifola
trifola
io persi la ragion
m’accesi di passion
con quella mezza trifola
trifola
trifola

legammo i nostri cuor in un vincolo d’amor
in un vincolo d’amor

Le voglio tanto bene e non mi stufo
ci amiamo da vent’anni con fedeltà
ma a forza di mangiare il buon tartufo
di diciannove figli io son papà
lei m’annunciò il ventesimo
ma io gli ho fatto “aime”
un parto quadrigemino e mo son ventriere

Per quella mezza trifola
trifola
trifola
io persi la ragion
m’accesi di passion
con quella mezza trifola
trifola
trifola

legammo i nostri cuor in un vincolo d’amor
in un vincolo d’amor


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Tartufo: Il cibo degli dei per Romani e Greci

Il tartufo era molto apprezzato a tavola dagli antichi Romani, che ne avevano copiato l’uso culinario dagli Etruschi.
Gli antichi Sumeri utilizzavano il tartufo assieme ad altri vegetali come orzo, ceci, lenticchie e senape, mentre si dice che gli antichi Ateniesi lo adorassero al punto da conferire la cittadinanza ai figli di Cherippo per aver inventato una nuova ricetta col prelibato tubero.
Le leggende sull’origine
Sumeri e Babilonesi lo consideravano un dono magnifico che gli dei avevano fatto agli uomini.
Si cibavano della “Tarfezia Leonis”, un tipo di tartufo che ancora oggi possiamo trovare nelle aride regionidell’Asia Minore.


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Anche gli Ebrei lo usavano nella loro dieta. E pare che nell’antico Egitto il faraone Cheope (2.600 a.C.) ordinasse banchetti con decine di chili di tartufi cotti con grasso d’oca.
Chi ne intuì per primo le celebri proprietà afrodisiache, per le quali sarà in seguito tenuto in altissima considerazione, fu il grande filosofo e matematico greco Pitagora (ca. 570-495 a.C.), al quale vengono attribuite le parole:
“Se vuoi essere virile, mangia tartufi”.

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Il poeta Giovenale fa risalire l'origine del tartufo ad un fulmine scagliato da Giove in prossimità di una quercia.
Dato che il dio era famoso per la sua prodigiosa attività sessuale, il tartufo veniva considerato altamente afrodisiaco e veniva anche chiamato il cibo degli dei.

Anche in epoca romana il tartufo aveva un prezzo elevato proprio a causa della sua rarità, dovuta alla difficile reperibilità.
l famoso medico Galeno (129-216) i cui principi hanno dominato la medicina europea per oltre mille anni, li prescriverà come stimolanti, osservando che “il tartufo è molto nutriente e può disporre della voluttà”.

Nel Medioevo i tartufi vennero equiparati agli alimenti magici e peccaminosi. Il tartufo nero era considerato “sterco del diavolo” e cibo delle streghe, poiché si credeva prolificasse nelle vicinanze di nidi di serpenti, tane di animali velenosi e carne putrefatta di cadaveri. Ma anche in questo periodo storico non mancarono gli estimatori. Che usavano molta fantasia per giustificare il consumo di un cibo quasi proibito.
Papa Gregorio IV ad esempio, è ricordato per essere stato ghiotto del nobile fungo, di cui ufficialmente faceva uso per compensare le energie spese nel fronteggiare la minaccia saracena.

Le prime ricette con questo ingrediente si ritrovano nel De re coquinaria, opera di Marco Gavio detto Apicio che fu un celebre gastronomo vissuto ai tempi dell’imperatore Tiberio.

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La terfezia Leonis (Terfezia Arenaria) è una qualità raccolta ancora oggi in Puglia e Sardegna ma di scarso valore commerciale.

Questa qualità era molto abbondante in tutto l’impero romano, raggiungendo il peso di tre-quattro chilogrammi.

Il tartufo scomparve dalle tavole del Medioevo, e rimase il cibo di lupi, volpi, tassi e cinghiali.

Il Rinascimento rilanciò il gusto della buona tavola ed il tartufo riconquistò il primo posto tra le pietanze più raffinate, comparendo tra le tavole delle nobili Caterina de’ Medici e Lucrezia Borgia, oltre che nei banchetti più prestigiosi d’Europa
Quando si parlava di tartufi, i piaceri carnali avevano il sopravvento.

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Michele Savonarola (1385-1468), medico, umanista e scienziato lo consigliava come alimento ideale per gli uomini anziani ammogliati a giovani e voluttuose fanciulle. Allo stesso modo, l’umanista e gastronomo Bartolomeo Sacchi (1421-1481), non solo assegna al tartufo un alto potere nutritivo, ma lo definisce: “un eccitante della lussuria”. E aggiunge: “Perciò vien servito spesso nei pruriginosi banchetti di uomini ricchi e raffinatissimi che desiderano essere meglio preparati ai piaceri di Venere”.

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Nella mistica Umbria anche le suore perdevano la testa per i tartufi. Negli archivi di un convento perugino una ricetta del ’500, nella quale le monache consigliano di servire l’alimento afrodisiaco insieme alle melangole, le arance amare che si raccoglievano a gennaio: “Pulisci e friggili nell’olio: fa delle fette sottili e quando l’olio bolle mettili dentro aggiungendo del sale. Non ce li tenere troppo perché si induriscono.
Servili cospargendoli di pepe e succo di arance”.


https://www.tipicamenteumbria.it/il-tartufo-tra-storia-e-leggenda-cibo-per-le-regine/

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Montebruna
Dove va il Tanaro oggi?
Come ieri, ad Alessandria.
Troverà gente col cappello di feltro
che parla con la erre forte.
Sì, ma passa per la Rocchetta?
Si capisce, fermata obbligata.
Perchè il Tanaro si guarda intorno
e conosce vigna e vigna
e annusa i profumi e trova i colori
e sente di notte la luna discorrere col vino.
Sono anime eterne.

Paolo Conte

La Barbera d’Asti MONTEBRUNA 2013 ha nella retroetichetta una poesia di Paolo Conte:
parole preziose che intrecciano un legame tra il paesaggio piemontese, il fiume e i vigneti in un brindisi finale
.


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Terra da rose, terra da vino

Diciamolo subito: qui, dove vengono su splendide rose, siamo in quella che è stata la patria dei migliori vini rossi del mondo. Del mondo.
Festeggiamo questo Montebruna, dal nome mezzo maschio e mezzo femmina, con questo aggettivo sacro (brun, brune) nella poeticità francese per un colore a volte enigmatico, che non sai se è ancora giorno o è già notte ( …la valse brune, le chevalier de la lune… , ma noi li abbiamo battuti: spunta’l sul e la lúna, e la lúna a Muncalé…).
Montebruna, dunque, è una Barbera (barbara barbisa berbera) e come tale va apprezzata.
Io l’assaggerò senza nascondermi di essere un vecchio appassionato che ricorda il gusto e il profumo dei vini di una volta e proprio, e solo per questo, guarda un po’ dall’alto i giovani tastevins che per ragione di età quel gusto e quel profumo non li hanno conosciuti e, forti di studi, cercano il cuoio, il goudron di liquirizia, i fiori appassiti e tante cose belle.
Noi, nella Barbera, sentivamo a volte la pesca, la fragola, la viola, ma prima di tutto cercavamo e trovavamo il gusto dell’uva. Uva barbera (e, quando il vino aveva molto corpo, paradossalmente la panna).
Assaggerò questa Montebruna da solo, in cucina, mangiando un grissino di Asti...
Un piacere ritrovato!

Paolo Conte


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" Scenes from an Italian Restaurant " è una canzone dell'album del 1977 di Billy Joel The Stranger .
La canzone inizia con un'introduzione al pianoforte nello stile di una ballata media.
Le prime righe "Una bottiglia di bianco, una bottiglia di rosso" sono raccontate in prima persona e allestirono la scena di un ristorante italiano.
Lo stesso Joel ha osservato che questa è usata come una storia da incorniciare , con gli amici che ricordano i bei vecchi tempi.
I versi "Ci vediamo quando vuoi / Nel nostro ristorante italiano" termina questa sezione e passa a un assolo di sassofono suonato da Richie Cannata al sassofono tenore . Viene utilizzato come passaggio tra l'ingresso nel ristorante e la discussione.


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Una bottiglia di vino bianco, una bottiglia di vino rosso
Forse è meglio una bottiglia di rosè
Avremo un tavolo vicino alla strada
Nel nostro vecchio posto di famiglia
io e te faccia a faccia

Una bottiglia di vino rosso, una bottiglia di vino bianco
tutto dipende dal tuo appetito
Ti incontrerò tutte le volte che vorrai
Nel nostro ristorante italiano

è tutto okay con me in questi giorni
ho un buon lavoro, un buon ufficio
ho una moglie nuova, una vita nuova
E la famiglia sta bene
...una bottiglia di rosso, una bottiglia di bianco

ti incontro ogni volta che vorrai
Nel nostro ristorante italiano



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Il castagnaccio
Di questa specialità abbiamo notizie sin dal 1553 grazie al noto frate errante Agostiniano Ortensio Lando che ci racconta che un certo Pilade da Lucca preparava questa torta. Tuttavia, quello che è certo, è che non esiste una vera e propria zona d’origine di questo piatto anche se esso è diffuso nelle zone che vanno dagli Appennini Liguri fino fino agli Appennini Tosco-Emiliani e oltre fino al Lazio. L’elemento che caratterizza queste zone montuose è la ricca presenza di castagni. Come molti piatti della tradizione, anche il Castagnaccio nacque dal bisogno di nutrirsi in un contesto rurale povero, difatti alla base della pietanza vi era solamente la farina di castagno, che costava relativamente poco ed era molto nutriente e acqua. Successivamente, quando le condizioni economiche delle zone rurali crebbero, vennero aggiunti ingredienti come pinoli, uva passa e, in alcuni casi, anche gli aghi di rosmarino.
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Il morbido semifreddo, il sensuale monte bianco, ma anche il “povero” castagnaccio occupano posti
di rilievo nella gerarchia dolciaria. Su tutti domina ovviamente il marron glacè, massima espressione
della golosità pasticciera applicata ai fratelli maggiori delle castagne.

(Licia Granello)


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Le origini della ricetta del montebianco devono essere ricercate proprio nelle zone del "Monte Bianco", sembra infatti che la ricetta originale sia nata proprio ai confini tra Francia e Italia, durante il Ducato dei Savoia. Nel nostro Paese questo dolce è conosciuto soprattutto in Piemonte e Lombardia, ma non mancano repliche e rivisitazioni anche nel resto dello stivale. La ricetta tradizionale prevede che le castagne, una volta cotte e sbucciate, vengano ancora cotte con latte e zucchero, aromatizzato con il baccello di vaniglia. Successivamente frullate e ridotte in purea. A questo punto è possibile aggiungere a seconda dei gusti del cacao amaro. Senza cacao avrete più intenso il sapore dolce delle castagne, mentre con il cacao avrete una versione "colorata" dove si avverte meno la dolcezza delle castagne e si percepiscono invece le note di cioccolato date dal cacao. Infine la purea ottenuta, una volta raffreddata, viene fatta passare in uno schiacciapatate, per dare la caratteristica forma al dolce. E per concludere tanta panna montata, che ricopre la cupola, ricordando appunto la cima innevata del Mont Blanc. Una leggera spolverizzata di cacao amaro, marron glacè o scaglie di cioccolato sono senza dubbio il modo migliore per servire il dolce.
Esistono delle varianti del montebianco davvero molto particolari. In Giappone, ad esempio, al posto delle castagne spesso si utilizzano patate viola o zucca e possono addirittura trovarsi delle varianti alla frutta che sfruttano mango e fragola!


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Che sorpresa. Grazie :D...buona giornata anche a te!:)

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Eppure, otto italiani su dieci non sanno dirle di no. E forse proprio per la pochezza del guscio, guai
se non troviamo la nostra preferita: davanti alla spianata delle brioche, vogliamo solo quella con
la crema pasticcera. La farcitura alla marmellata ci fa orrore, il cioccolato è roba da bambini,
vuota fa tristezza, non ce ne sarebbe una piccola? Poi ci sono le altre: il cornetto, amatissimo da
Roma in giù, la veneziana, più sobria, la girella, che con il suo plus di uvette può essere piacevolmente
addentata anche a merenda, o come dolcezza di fine pasto.
(Licia Granello)


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Ricette immorali di Manuel Vazquez Montalban

“ …e la questione diventa tanto più immorale quando bisogna sommare o combinare due piaceri
così definitivi come il mangiar bene e far bene l’amore. La buona chimica del cibo coincide con la
buona chimica dei commensali. Mangiare bene, e bere ancor meglio, rilassa gli sfinteri dell’anima,
sconvolge i punti cardinali della cultura repressiva e prepara alla comparsa di una comunicabilità
che non va sprecata. “


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E' un sorprendente ricettario con ben sessantadue piatti pieni di gusto, un po’ piccanti e con un pizzico di storia che racconta quanto un piccolo piacere gustativo possa stimolare al desiderio.

Due corpi che mangiano insieme dalla stessa pentola diventano per forza vasi comunicanti

Fra le ricette troviamo gli Spaghetti alla Checca arrabbiata: il piatto universalizzato da Ugo Tognazzi, ricco di peperoncino piccante che deve la sua origine ad una ricetta preparata per l’amante incavolato al quale si voleva far conoscere il fuoco dell’inferno nascosto nella pasta.


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Tra quanto offre il piatto e quanto offre il letto, sarebbe sconsigliabile, per esempio,
mettere assieme una fetta di lonza di maiale impanata, servita con le mele, a una partner
bionda con i denti radi. Questo tipo di partner è la fine del mondo con il fegato di pollo
gratinato e spinaci, mangiati con un po’ di svogliatezza.



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Un omaggio a Roma sono le Frittelle di fiore di zucca, un piatto popolare per eccellenza definito dall’autore una poesia fritta da un poeta nordamericano ma meridionale.
Un piatto che potrebbe comparire per gusto ed eros in una tragedia di Tennessee Williams o di Garcia Lorca ma mai in una di Ibsen.

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Purè di tartufi, invece, pare sia stato utilizzato da Elisabetta II per convogliare a nozze i suoi eredi più difficili fra i quali Carlo con la giovane Diana.

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E cosa dire delle Animelle di vitello Trianon, piatto aristocratico che veniva servito nei banchetti dell’Eliseo fino a quando non ha preso piede la Nouvelle Cousine.

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I più importanti politici lo utilizzavano per deliziare le mogli dei diplomatici al fine di ottenerne vantaggi.
O il più semplice Pane e pomodoro, piatto peccaminoso in quanto può esprimere un’alternativa a tutto ciò che è spirituale. Ovunque e sempre pane e pomodoro.
E’ indispensabile, scrive Montalban, che tutti i popoli saggi della terra capiscano che
pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana.
Non fate la guerra ma pane e pomodoro....Ovunque e sempre. Pane. Pomodoro. Olio. Sale.
E dopo l’amore, pane e pomodoro...



Ricette immorali di Manuel Vazquez Montalban


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La ricetta "immorale" del Roti dell’imperatrice è attribuita ad Alexandre Dumas, autore dei Tre Moschettieri ed eccellente gourmet.
L’autore sostiene che è un piatto che richiede la compagnia di un’imperatrice o una regina o una duchessa.

Montalban voleva dividerlo con Paola di Liegi, prima che le nevi del tempo imbianchino le nostre tempie.


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Il Baccalà al pil- pil è definito un piatto geniale nel quale il baccalà secco viene riportato a vita per essere poi cucinato, compiendo dentro di sé il rapporto Eros e Thanatos, vale a dire amore e morte. Una vera magia.


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Non mancano i dessert fra i quali la Bavarese perfect love: Eva Braun preparava la bavarese al suo amato Hitler e loro due la gustavano in silenzio per non distrarsi dai rombi dei bombardamenti.
E’ un dessert che prepara al dopo tavola, specie per le sieste pomeridiane. Un piacere dopo l’altro, una vera scoperta questo libro di delizie.

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"Ricette immorali" è un piccolo taccuino che racchiude nelle sue ricette una sensualità condita da aneddoti e quella giusta dose di ironia che lo rende veramente apprezzabile e gustoso.
Manuel Vazquez Montalban, scrittore, saggista e poeta spagnolo, deve il suo successo internazionale alla creazione del detective Pepe Carvalho, protagonista dei suoi numerosi romanzi polizieschi. Figlio di un militante del Partito Socialista, conobbe il padre, detenuto in carcere, solo alla sua liberazione, quando aveva cinque anni. Militerà nello stesso partito, diventando membro del Comitato Centrale. Nel 1962 un tribunale di guerra lo condannerà a tre anni di reclusione per aver partecipato alla resistenza antifranchista, e in prigione scriverà il suo primo libro.
Una lunga amicizia lo legherà ad Andrea Camilleri, che in suo onore chiamerà il protagonista dei suoi celebri romanzi, il commissario Montalbano.

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