Stenta la riforma elettorale a vedere la luce. Comprensibile:
ogni partito cerca in primo luogo il proprio interesse.
Chi pensa di vincere, come Bersani, vuole abbassare il quorum per avere il premio,
chi suppone di perdere, come Alfano, vuole alzarlo. Chi sa di non poter né vincere né perdere, come Casini, ha interesse ad alzarlo, in modo da fare pesare i suoi voti.
Ma il premio non serve solo al partito, ma anche al Paese: difficile, senza, avere governabilità.
La sociologia elettorale sa che è il problema di ogni democrazia.
C'è un solo sistema «giusto», quello proporzionale: tutti i partiti rappresentati per quello che valgono, nessuno escluso, anche chi ha l'1 %.
Purtroppo questo sistema rende difficile la governabilità.
Tanto che quasi tutti i paesi democratici lo hanno messo da parte, introducendo dei correttivi in senso maggioritario, che consentono al parlamento di legiferare e all'esecutivo di governare.
Tre sono le principali correzioni.
1. Escludere dalla rappresentanza chi non raggiunge il 5 % dei voti. Ciò favorisce le aggregazioni e limita la frammentazione. Da noi è già in atto e il parlamento è d'accordo nel mantenerlo. Ma questa limitazione, pur necessaria, non è sufficiente quando i partiti di media grandezza sono molti. Da noi si prevede il Pd vicino al 30 %, PdL verso e Grillo oltre il 20, liste di centro sul 15, più liste minori che superano di poco il 5. Fare un governo non sarebbe facile.
2. C'è il sistema francese, che da più di mezzo secolo mostra di funzionare: il doppio turno. Proporzionale nella prima tornata, maggioritario nella seconda, che premia i partiti forti. C'è il rischio di «inciuci» fra i due turni, ma la legislatura ne esce stabile.
3. C'è il premio di maggioranza: dare al partito o alla coalizione vincente un certo numero di seggi in più per poter governare. Di ciò si discute in parlamento. Giusto darli, ma quale quorum occorre raggiungere?
Nel 1953 la cosa fu tentata in Italia, inutilmente, dal dc Scelba: la coalizione che
superava il 50 % avrebbe avuto il premio.
Fu detta «legge truffa» dal Pci, i cui nipotini oggi lo hanno assunto con una cifra assai più bassa. Ma truffa non era, in quanto il partito era premiato solo se esprimeva la maggioranza assoluta dei votanti.
Oggi nessuno può arrivarci ed è comprensibile consentire a chi ha la «maggioranza relativa» di raggiungere quella assoluta. Ma vi sono dei limiti, oltre i quali la democrazia, che i suoi nemici chiamano «dittatura della maggioranza»,
diventerebbe una dittatura della «maggiore minoranza»:
è giusto governare col 30%? È accaduto nel passato in alcuni paesi del Sud-America: due terzi di seggi al primo partito, un terzo al secondo, niente agli altri (in Argentina); due terzi al primo, un terzo diviso fra tutti gli altri (in Paraguay). Nel 1923 la Legge Acerbo dava 2/3 dei seggi al partito che raggiungeva il 25% (ma Mussolini ebbe il 60%, 375 deputati su 535).
Meglio dunque fissare un quorum abbastanza alto. Ma a chi darlo? Al partito? Di certo la soluzione migliore,
ma è difficile che ce ne sia uno che lo raggiunge.
Meglio allora alla coalizione (come è anche nel «porcellum»)?
Sì e no.
La coalizione riduce il frammentarismo, ma poi i partiti che la formano, in parlamento, cominciano a combattersi subito dopo le elezioni.
È capitato a Berlusconi (caduto per opera dell'alleato
Bossi nel 1995); e
due volte a Prodi (il suo primo governo, formato da 17 partiti, cadde nel 1998 per il «fuoco amico» di
Bertinotti, il secondo nel
2008 per
un «trasloco» di Mastella).
Anche nel 2010, «tradito» da Fini, il governo Berlusconi stava per cadere, lo ha salvato il soccorso di alcuni «nostri».
Del premio, tuttavia, non si può fare a meno. Quale la cifra del quorum? Le soluzioni intermedie sono sempre preferibili, in quanto possono essere accettate da «amici» e «nemici». Un premio per portare al 55% la coalizione che raggiunge il 40 è forse la decisione più opportuna. Insieme con un premio del 10% al primo partito, se nessuna coalizione lo raggiungesse. Non sarà una democrazia «pura», ma almeno sarà più «efficiente».