filibuster
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n 6
Con un’ammirevole faccia tosta, Goldman Sachs continua a sfornare previsioni. Secondo loro, nel primo trimestre del 2009 verranno ritestati i minimi del novembre scorso (752 di S&P500), poi il mercato dovrebbe ripartire per chiudere l’anno intorno a 1100. Bisognerebbe essere matti per credere ANCORA a Goldman Sachs (ma la stessa cosa valeva anche PRIMA). Comunque, al di quella previsione così “audace” (+68% in nove mesi), non è impossibile che il 2009 si chiuda col segno più. Infatti -come dimostra la ricerca segnalata da pfm2 qualche post sopra- quasi tutte le volte che il Dow Jones ha chiuso un anno con un saldo del -20% o peggiore, l’anno successivo il mercato ha reagito con un anno positivo, spesso molto positivo. Le eccezioni sono solo due. Una volta la risposta alla batosta dell’anno prima fu un’annata ancora negativa, ma di pochissimo (-0.6%), mentre l’altra è l’unica vera eccezione: i quattro anni di tracolli consecutivi iniziati nel 1929. Il 2009 seguirà la norma o l’eccezione?
Per contro hanno dato un responso catastrofico i famosi “indicatori di gennaio” che cercano di prevedere se l’anno sarà buono o cattivo in base all’andamento del mese di gennaio e della sua prima settimana. Naturalmente i gli indicatori di questo tipo sono poco più che una curiosità.
Come microspeculatore, non mi dispiacerebbe un’annata tutta sulla falsariga del mese di gennaio. Come cittadino, ovviamente mi auguro che tutto si risolva al più presto, tanto più che in questi giorni ho letto una cosa che fa spavento: in pratica la Great Depression venne risolta solo dal passaggio all’economia di guerra, nel 1939!
Venerdì esce il dato mensile sulla disoccupazione, prevista al 7.5%. Ma soprattutto è attesa con impazienza la fine delle incertezze sul famoso “stimulus”.
Torniamo a Galbraith…
(“Il grande crollo” di JK Galbraith, sesta puntata)
Dopo essere stata umiliata dalla National City Bank, la Fed lasciò che le cose facessero il loro corso, decisa a non assumersi la responsabilità di causare lo scoppio della bolla. Il presidente Hoover incaricò un banchiere di Los Angeles di tastare il terreno fra i broker e le banche di New York: gli fu assicurato che “la situazione era solida”. Alla fine anche Hoover se ne lavò le mani, avendo l’alibi che la principale responsabilità per quello che succedeva a Wall Street ricadeva sul governatore dello Stato di New York, che era nientemeno Franklin D. Roosevelt, che poi sarebbe diventato a sua volta presidente degli Stati Uniti. Ma anche Roosevelt, scrive Gakbraith, “seguiva una politica del laissez faire, almeno per quanto riguardava le questioni della borsa.”
In sostanza dalla fine del marzo 1929 la borsa rimase libera da qualsiasi tentativo di frenare la speculazione, e ne approfittò per scatenarsi. Fra i tanti che sfruttavano l’entusiasmo dei piccoli speculatori, il nostro autore sceglie dei consulenti finanziari di Boston che avevano scritto il libro “Come conquistare la borsa” e lo pubblicizzavano con l’esempio di un tizio che aveva guadagnato 70.000 dollari dopo averlo letto. Commento di Galbraith: “Senza dubbio c’era riuscito, chiunque egli fosse. Ma ci sarebbe riuscito anche senza aver letto il libro, anche senza saper leggere. Infatti ora, finalmente libero da ogni minaccia d’intervento e di reazione da parte del governo, il mercato veleggiava verso l’azzurro infinito. Specialmente dopo il 1° giugno del ’29, ogni esitazione scomparve. Mai prima, o dopo, tante persone si sono arricchite in modo così straordinario, così senza fatica, così rapidamente. Forse Hoover, Mellon e la Fed avevano ragione a non metterci le mani. Forse valeva la pena di soffrire a lungo la povertà per essere così ricchi solo per un attimo.”
Una cosa curiosa -almeno rispetto alla bolla del 2000- è che molti sostenevano che le azioni disponibili fossero troppo poche. I prezzi erano così alti -si diceva- perché le azioni avevano acquistato un “valore di scarsità”: tutti cercavano di accaparrarsi i pochi titoli disponibili, facendo lievitare i prezzi.
C’era qualcosa di vero in questo, anche se in quel periodo venne emessa un’immensa quantità di nuovi titoli, che il mercato assorbiva “con entusiasmo e senza porsi troppe domande”. Per esempio, andavano a ruba le azioni della Seabord Air Line perché molti pensavano che fosse una compagnia aerea [in realtà si trattava di una società ferroviaria… vi ricordate quel titolo -Basic.net, mi pare- che tutti si strappavano di mano nel 2000 nella convinzione che fosse un titolo Internet, mentre si trattava di un maglificio? Ennesima prova che l’avidità ha sempre accecato e sempre accecherà gli speculatori, specialmente quelli dell’ultim’ora].
Molte nuove emissioni di titoli vennero anche dall’infinità di fusioni che ebbe luogo in quel periodo. A volte avvenivano per eliminare un concorrente, per dominare il mercato in un determinato settore, altre volte per raggruppare imprese dello stesso settore che operavano in regioni diverse, realizzando economie di scala e sostituendo amministratori poco efficienti e un po’ provinciali con i “geni della finanza” di New York e di Chicago. Naturalmente, come in ogni bolla che si rispetti, vennero fuori anche molte nuove società, spesso create apposta “per trarre profitto dall’interesse pubblico per le industrie con un nuovo vasto orizzonte e per fornire titoli da vendere”. I titoli più alla moda nel ’29 erano i radiofonici e gli aeronautici. Nel settembre 1929 sul New York Times comparve addirittura un’inserzione pubblicitaria di una società televisiva, con l’annuncio che ”le possibilità commerciali di questa nuova arte superano ogni immaginazione”. Quelli sì che sapevano fare previsioni! Peccato fossero troppo in anticipo sui tempi.
E ora si apre una lunga pagina sugli investment trust, e nella prossima puntata si vedrà come l’uso incredibilmente esasperato della leva finanziaria non sia una novità di oggi. Solito problemino di terminologia anni ’50… La traduzione parla di “società di investimenti” ma stavolta per fortuna cita (e usa spesso) anche il termine originale, “investment trust”, che oggi di solito viene tradotto con fondo comune. Senonché -a differenza dei normali fondi comuni nostrani- erano (e sono) quotati in borsa come gli Etf, che però anche in America sono una creazione recente (anni ’90). All’epoca poi gli investment trust avevano diverse caratteristiche particolari, cpme Galbraith ci mostrerà fra poco.
La nascita degli investment trust diede un enorme sviluppo alla speculazione. Si trattava di società che realizzavano un investimento collettivo, dato che avevano lo scopo di investire in azioni di altre aziende. A loro volta, gli investment trust erano quotati in borsa e potevano investire anche in azioni di altre società analoghe, con l’effetto complessivo di una straordinaria moltiplicazione delle azioni circolanti.
L’idea di base non era cattiva… Gli americani la ripresero dalle prime società di quel genere, nate in Inghilterra e in Scozia intorno al 1880. In pratica, offrivano la possibilità di diversificare gli investimenti anche a chi disponeva di un capitale modesto o addiittura minuscolo. Senza contare che “la direzione del trust, secondo ogni probabilità, conosceva infinitamente meglio della vedeva di Bristol o del medico di Glasgow le società e le prospettive di Singapore, di Madras, di Città del Capo e dell’Argentina, luoghi dove i fondi inglesi andavano regolarmente a finire”.
In America i primi investment trust risalivano al 1921. Nel 1927 erano già 160, poi crebbero a centinaia. Soltanto nel 1929 incominciarono a essere quotati a Wall Street, ma con un minimo di garanzie: una volta all’anno dovevano fornire l’inventario dei titoli in portafoglio. Poiché alla gestione attiva veniva attribuito un valore quasi esoterico, per non svelare le proprie strategie molti trust evitarono Wall Street e si quotarono nelle borse minori, come Chicago, Boston o lo storico Curb, una specie di terzo mercato dove, fino al 1921, le azioni venivano scambiate all’aperto, sotto il sole o sotto la pioggia [successivamente passò al chiuso e poi diede luogo all’AMEX, che diventò la terza borsa americana ed è scomparsa proprio in questi gioni, assorbita dal Nyse]. Quindi in pratica la gente investiva al buio, mettendo soldi in attività di cui non conosceva -e non avrebbe mai conosciuto- la natura! Nonostante questo, gli investment trust conobbero uno sviluppo meraviglioso.
Ogni trust era patrocinato da un’entità esterna che ne dirigeva le operazioni. I patrocinanti erano banche, broker, altri investment trust, società più o meno truffaldine, ecc. Quando nasceva il trust, il patrocinante riceveva una quota delle azioni emesse a un prezzo più basso di quello a cui le acquistava il pubblico, e poteva rivenderle immediatamente intascando la differenza. In sostanza, i trust fabbricavano titoli da immettere sul mercato, con enormi vantaggi per i soliti noti: per esempio la JP Morgan & C. creò insieme ad altri un investment trust, ricevendone le azioni a $75. Nel primo giorno di quotazione, il nuovo titolo quotò $93… Dopo quattro giorni le azioni del trust erano a $99 e JP Morgan poté tranquillamente vendere tutte le azioni pagate $75 con un profitto del 32% a rischio sostanzialmente nullo.
“Non sorprende affatto” commenta Galbraith “che tali gradevoli incentivi stimolassero enormemente l’organizzazione di nuovi investment trust”.
(fine della sesta puntata)
x filonide
Ciao, filonide… sempre gentile
x Yacyreta, primipassi, vileggo, Riflessivo, Yacht club
grazie per l’attenzione
x Gandalf
grazie a te piuttosto, io ho detto solo come stanno le cose. Continua così!
x Cassettone
Chi si risente... Complimenti per l’abbronzatura!
Mi ricordo, come no? Eravamo asserragliati come a Fort Apache… Tutti ci davano addosso, convinti che Fiat fosse sull’orlo del fallimento. E invece schizzò da 5 a 24 in pochi mesi, anche se io sfruttai solo una piccola parte di quel balzo.
Ormai da tempo non seguo più le azioni. Comunque mi pare difficile che a breve Fiat possa ripetere un exploit di quella fatta, visto che le vendite di auto stanno crollando dappertutto. Spesso i risultati borsistici non hanno niente a che vedere con quelli economici, è vero, però quando tutto un settore è con l’acqua alla gola non mi pare verosimile che uno dei titoli più rappresentativi di quello stesso settore possa spiccare il volo per conto suo. In compenso credo che Fiat abbia uno dei beta più elevati, quindi in caso di inversione della borsa dovrebbe esibirsi in una bella reazione… ma purtroppo la stessa reattività dovrebbe mostrarla in caso di ribasso. Ciao e in bocca al lupo.
Capercaillie (Scozia), “Coisich A Rùin”
http://it.youtube.com/watch?v=x2TI42EDqmI
Con un’ammirevole faccia tosta, Goldman Sachs continua a sfornare previsioni. Secondo loro, nel primo trimestre del 2009 verranno ritestati i minimi del novembre scorso (752 di S&P500), poi il mercato dovrebbe ripartire per chiudere l’anno intorno a 1100. Bisognerebbe essere matti per credere ANCORA a Goldman Sachs (ma la stessa cosa valeva anche PRIMA). Comunque, al di quella previsione così “audace” (+68% in nove mesi), non è impossibile che il 2009 si chiuda col segno più. Infatti -come dimostra la ricerca segnalata da pfm2 qualche post sopra- quasi tutte le volte che il Dow Jones ha chiuso un anno con un saldo del -20% o peggiore, l’anno successivo il mercato ha reagito con un anno positivo, spesso molto positivo. Le eccezioni sono solo due. Una volta la risposta alla batosta dell’anno prima fu un’annata ancora negativa, ma di pochissimo (-0.6%), mentre l’altra è l’unica vera eccezione: i quattro anni di tracolli consecutivi iniziati nel 1929. Il 2009 seguirà la norma o l’eccezione?
Per contro hanno dato un responso catastrofico i famosi “indicatori di gennaio” che cercano di prevedere se l’anno sarà buono o cattivo in base all’andamento del mese di gennaio e della sua prima settimana. Naturalmente i gli indicatori di questo tipo sono poco più che una curiosità.
Come microspeculatore, non mi dispiacerebbe un’annata tutta sulla falsariga del mese di gennaio. Come cittadino, ovviamente mi auguro che tutto si risolva al più presto, tanto più che in questi giorni ho letto una cosa che fa spavento: in pratica la Great Depression venne risolta solo dal passaggio all’economia di guerra, nel 1939!
Venerdì esce il dato mensile sulla disoccupazione, prevista al 7.5%. Ma soprattutto è attesa con impazienza la fine delle incertezze sul famoso “stimulus”.
Torniamo a Galbraith…
(“Il grande crollo” di JK Galbraith, sesta puntata)
Dopo essere stata umiliata dalla National City Bank, la Fed lasciò che le cose facessero il loro corso, decisa a non assumersi la responsabilità di causare lo scoppio della bolla. Il presidente Hoover incaricò un banchiere di Los Angeles di tastare il terreno fra i broker e le banche di New York: gli fu assicurato che “la situazione era solida”. Alla fine anche Hoover se ne lavò le mani, avendo l’alibi che la principale responsabilità per quello che succedeva a Wall Street ricadeva sul governatore dello Stato di New York, che era nientemeno Franklin D. Roosevelt, che poi sarebbe diventato a sua volta presidente degli Stati Uniti. Ma anche Roosevelt, scrive Gakbraith, “seguiva una politica del laissez faire, almeno per quanto riguardava le questioni della borsa.”
In sostanza dalla fine del marzo 1929 la borsa rimase libera da qualsiasi tentativo di frenare la speculazione, e ne approfittò per scatenarsi. Fra i tanti che sfruttavano l’entusiasmo dei piccoli speculatori, il nostro autore sceglie dei consulenti finanziari di Boston che avevano scritto il libro “Come conquistare la borsa” e lo pubblicizzavano con l’esempio di un tizio che aveva guadagnato 70.000 dollari dopo averlo letto. Commento di Galbraith: “Senza dubbio c’era riuscito, chiunque egli fosse. Ma ci sarebbe riuscito anche senza aver letto il libro, anche senza saper leggere. Infatti ora, finalmente libero da ogni minaccia d’intervento e di reazione da parte del governo, il mercato veleggiava verso l’azzurro infinito. Specialmente dopo il 1° giugno del ’29, ogni esitazione scomparve. Mai prima, o dopo, tante persone si sono arricchite in modo così straordinario, così senza fatica, così rapidamente. Forse Hoover, Mellon e la Fed avevano ragione a non metterci le mani. Forse valeva la pena di soffrire a lungo la povertà per essere così ricchi solo per un attimo.”
Una cosa curiosa -almeno rispetto alla bolla del 2000- è che molti sostenevano che le azioni disponibili fossero troppo poche. I prezzi erano così alti -si diceva- perché le azioni avevano acquistato un “valore di scarsità”: tutti cercavano di accaparrarsi i pochi titoli disponibili, facendo lievitare i prezzi.
C’era qualcosa di vero in questo, anche se in quel periodo venne emessa un’immensa quantità di nuovi titoli, che il mercato assorbiva “con entusiasmo e senza porsi troppe domande”. Per esempio, andavano a ruba le azioni della Seabord Air Line perché molti pensavano che fosse una compagnia aerea [in realtà si trattava di una società ferroviaria… vi ricordate quel titolo -Basic.net, mi pare- che tutti si strappavano di mano nel 2000 nella convinzione che fosse un titolo Internet, mentre si trattava di un maglificio? Ennesima prova che l’avidità ha sempre accecato e sempre accecherà gli speculatori, specialmente quelli dell’ultim’ora].
Molte nuove emissioni di titoli vennero anche dall’infinità di fusioni che ebbe luogo in quel periodo. A volte avvenivano per eliminare un concorrente, per dominare il mercato in un determinato settore, altre volte per raggruppare imprese dello stesso settore che operavano in regioni diverse, realizzando economie di scala e sostituendo amministratori poco efficienti e un po’ provinciali con i “geni della finanza” di New York e di Chicago. Naturalmente, come in ogni bolla che si rispetti, vennero fuori anche molte nuove società, spesso create apposta “per trarre profitto dall’interesse pubblico per le industrie con un nuovo vasto orizzonte e per fornire titoli da vendere”. I titoli più alla moda nel ’29 erano i radiofonici e gli aeronautici. Nel settembre 1929 sul New York Times comparve addirittura un’inserzione pubblicitaria di una società televisiva, con l’annuncio che ”le possibilità commerciali di questa nuova arte superano ogni immaginazione”. Quelli sì che sapevano fare previsioni! Peccato fossero troppo in anticipo sui tempi.
E ora si apre una lunga pagina sugli investment trust, e nella prossima puntata si vedrà come l’uso incredibilmente esasperato della leva finanziaria non sia una novità di oggi. Solito problemino di terminologia anni ’50… La traduzione parla di “società di investimenti” ma stavolta per fortuna cita (e usa spesso) anche il termine originale, “investment trust”, che oggi di solito viene tradotto con fondo comune. Senonché -a differenza dei normali fondi comuni nostrani- erano (e sono) quotati in borsa come gli Etf, che però anche in America sono una creazione recente (anni ’90). All’epoca poi gli investment trust avevano diverse caratteristiche particolari, cpme Galbraith ci mostrerà fra poco.
La nascita degli investment trust diede un enorme sviluppo alla speculazione. Si trattava di società che realizzavano un investimento collettivo, dato che avevano lo scopo di investire in azioni di altre aziende. A loro volta, gli investment trust erano quotati in borsa e potevano investire anche in azioni di altre società analoghe, con l’effetto complessivo di una straordinaria moltiplicazione delle azioni circolanti.
L’idea di base non era cattiva… Gli americani la ripresero dalle prime società di quel genere, nate in Inghilterra e in Scozia intorno al 1880. In pratica, offrivano la possibilità di diversificare gli investimenti anche a chi disponeva di un capitale modesto o addiittura minuscolo. Senza contare che “la direzione del trust, secondo ogni probabilità, conosceva infinitamente meglio della vedeva di Bristol o del medico di Glasgow le società e le prospettive di Singapore, di Madras, di Città del Capo e dell’Argentina, luoghi dove i fondi inglesi andavano regolarmente a finire”.
In America i primi investment trust risalivano al 1921. Nel 1927 erano già 160, poi crebbero a centinaia. Soltanto nel 1929 incominciarono a essere quotati a Wall Street, ma con un minimo di garanzie: una volta all’anno dovevano fornire l’inventario dei titoli in portafoglio. Poiché alla gestione attiva veniva attribuito un valore quasi esoterico, per non svelare le proprie strategie molti trust evitarono Wall Street e si quotarono nelle borse minori, come Chicago, Boston o lo storico Curb, una specie di terzo mercato dove, fino al 1921, le azioni venivano scambiate all’aperto, sotto il sole o sotto la pioggia [successivamente passò al chiuso e poi diede luogo all’AMEX, che diventò la terza borsa americana ed è scomparsa proprio in questi gioni, assorbita dal Nyse]. Quindi in pratica la gente investiva al buio, mettendo soldi in attività di cui non conosceva -e non avrebbe mai conosciuto- la natura! Nonostante questo, gli investment trust conobbero uno sviluppo meraviglioso.
Ogni trust era patrocinato da un’entità esterna che ne dirigeva le operazioni. I patrocinanti erano banche, broker, altri investment trust, società più o meno truffaldine, ecc. Quando nasceva il trust, il patrocinante riceveva una quota delle azioni emesse a un prezzo più basso di quello a cui le acquistava il pubblico, e poteva rivenderle immediatamente intascando la differenza. In sostanza, i trust fabbricavano titoli da immettere sul mercato, con enormi vantaggi per i soliti noti: per esempio la JP Morgan & C. creò insieme ad altri un investment trust, ricevendone le azioni a $75. Nel primo giorno di quotazione, il nuovo titolo quotò $93… Dopo quattro giorni le azioni del trust erano a $99 e JP Morgan poté tranquillamente vendere tutte le azioni pagate $75 con un profitto del 32% a rischio sostanzialmente nullo.
“Non sorprende affatto” commenta Galbraith “che tali gradevoli incentivi stimolassero enormemente l’organizzazione di nuovi investment trust”.
(fine della sesta puntata)
x filonide
Ciao, filonide… sempre gentile
x Yacyreta, primipassi, vileggo, Riflessivo, Yacht club
grazie per l’attenzione
x Gandalf
grazie a te piuttosto, io ho detto solo come stanno le cose. Continua così!
x Cassettone
Chi si risente... Complimenti per l’abbronzatura!
Mi ricordo, come no? Eravamo asserragliati come a Fort Apache… Tutti ci davano addosso, convinti che Fiat fosse sull’orlo del fallimento. E invece schizzò da 5 a 24 in pochi mesi, anche se io sfruttai solo una piccola parte di quel balzo.
Ormai da tempo non seguo più le azioni. Comunque mi pare difficile che a breve Fiat possa ripetere un exploit di quella fatta, visto che le vendite di auto stanno crollando dappertutto. Spesso i risultati borsistici non hanno niente a che vedere con quelli economici, è vero, però quando tutto un settore è con l’acqua alla gola non mi pare verosimile che uno dei titoli più rappresentativi di quello stesso settore possa spiccare il volo per conto suo. In compenso credo che Fiat abbia uno dei beta più elevati, quindi in caso di inversione della borsa dovrebbe esibirsi in una bella reazione… ma purtroppo la stessa reattività dovrebbe mostrarla in caso di ribasso. Ciao e in bocca al lupo.
Capercaillie (Scozia), “Coisich A Rùin”
http://it.youtube.com/watch?v=x2TI42EDqmI