Banche venete, corsa contro il tempo. I problemi della soluzione di sistema - Affaritaliani.it
Repetita adiuvant, o almeno qualcuno in Italia lo spera. Per cercare di sbloccare l’empasse che finora ha impedito di risolvere la crisi delle due ex banche popolari venete, Bpvi e Veneto Banca, in questi giorni il pressing del governo si è fatto intenso nei confronti di Unicredit e Intesa Sanpaolo. Diversamente da come capitato a Banco Popular (rilevato dal Banco Santander per un euro simbolico in cambio di una iniezione di mezzi che consentisse una drastica pulizia di bilancio), nessuno dei due grandi istituti italiani, che pure hanno tratto beneficio da una soluzione “di sistema” come la nascita del fondo Atlante (che se da un lato ha richiesto a entrambe le banche versamenti cospicui, poi sostanzialmente vaporizzati, dall’altro ha evitato loro di sottoscrivere gli aumenti di capitale dei due istituti in crisi, di cui pure avevano inizialmente accettato di curare il collocamento), pare intenzionato a rilevare una o entrambe le banche venete.
D’altra parte per evitare ripercussioni ulteriori potenzialmente “sistemiche”, quanto meno per i rapporti politici (dato che con meno del 2% dei crediti “in bonis” del sistema italiano è difficile sostenere che l’eventuale bail in di Bpvi e Veneto Banca avrebbe effetti sistemici a livello economico), i due campioni nazionali non potrebbero tirarsi indietro nel caso di una nuova operazione “volontaria” da parte del sistema bancario italiano come già avvenne nel caso delle quattro banche risolte a fine 2015 poche settimane prima dell’entrata in vigore della direttiva BRRD e delle norme che impongono di procedere a “bail in” quando si tratta di salvare una banca.
Problema: far intervenire nuovamente il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), attraverso il suo “schema volontario” (così da evitare la qualifica di aiuto pubblico) per garantire 1,2-1,3 di euro di capitali privati da girare come liquidità ai due istituti, anche per non coinvolgere altri soggetti come le assicurazioni e le fondazioni bancarie che a suo tempo entrarono in Atlante, vorrebbe dire anticipare un altro paio di annualità (nel caso di Banca Marche, Banca Etruria, CariChieti e CariFe vennero anticipate 3 annualità per raccogliere in totale 2 miliardi di euro), che si sommerebbero a quelle già anticipate a fine 2015 e che ancora stanno venendo spesate nei bilanci delle banche.
In sostanza vi è il rischio che il Fitd impegni le proprie risorse future fino al 2020 solo per togliere le castagne dal fuoco di due banche, col rischio che l’emergere di ulteriori crisi negli anni a venire mette in futuro a rischio i depositi degli istituti che fossero coinvolti. Essendo volontaria, poi, l’adesione allo schema non può per forza di cose essere resa vincolante per tutti gli istituti: vi è dunque il rischio che chi accetterà di partecipare a questo nuovo salvataggio privato-pubblico porterà benefici anche o soprattutto a quei concorrenti che si saranno smarcati evitando ulteriori versamenti.
E se per Unicredit e Intesa Sanpaolo la cosa potrebbe essere nel complesso accettabile visto il pericolo evitato anzitempo, per istituti come Ubi Banca, Banco Bpm o, peggio, Banca Carige (che già deve trovare le risorse per un aumento di capitale che da 450 milioni potrebbe lievitare a 600 milioni) rischia di essere un onere molto cospicuo e tale da pesare sulla redditività tuttora non esaltante degli istituti, almeno a breve termine.
La soluzione è dunque tutto meno che perfetta e rischia di rivelarsi rischiosa e non equilibrata sotto il profilo della libera concorrenza, eppure la situazione di Bpvi e Veneto Banca va deteriorandosi ora dopo ora ed una soluzione, quale che sia, dovrà essere trovata nell’arco di questi prossimi giorni per evitare il vaporizzarsi della liquidità dei due istituti veneti, a partire da quelli corporate, per natura i più rapidi ad essere trasferiti in caso di problemi.
Il tempo dunque stringe. Oggi era in calendario la riunione del comitato rischi della Bpvi. I vertici della banca Popolare di Vicenza, alla fine della scorsa settimana, hanno detto chiaramente che i tempi sono strettissimi. Sullo sfondo, anche se l'ipotesi è stata finora smentita, rimane l'eventualità di una dimissione in massa dei consigli.
All'ottimismo professato dai banchieri, l'ultimo in ordine di tempo è stato l'amministratore delegato di UniCredit Jean Pierre Mustier, al momento non è corrisposto nessun gesto concreto.
La speranza è che nel brevissimo termine arrivino delle garanzie formali per 1,25 miliardi di euro dal comparto bancario. Quel che è certo è che il tempo a disposizione per agire e' sempre di meno e che l'eventuale risoluzione della due banche venete avrebbe un costo ben superiore, stimato in 11 miliardi di euro, per il sistema bancario italiano.
Il Banco Popular ha dimostrato che è possibile applicare la direttiva BRRD e arrivare ad una risoluzione di una banca anche (questa sì) “sistemica” senza che cessi la continuità aziendale, tanto meno senza che chi ha affidamenti “in bonis” e depositi debba rischiare di vederli evaporare dal giorno con la notte. Ma quella soluzione è stata anche la testimonianza di come applicare correttamente e in modo rapido le regole europee sia la strada maestra per mantenere efficiente il sistema bancario nel suo complesso.
Una strada che pervicacemente in Italia non si è voluto e ancora non si vuole seguire, costringendo il sistema stesso a forzare le regole e a trovare nuovi compromessi che possano non essere bollati come “aiuti di stato”, ossia come l’ennesimo tentativo di far pagare a Pantalone il conto di condotte inappropriate e inefficienti tenute per troppi anni con la compiacenza di politici e autorità di controllo nazionali. Si riuscirà a trovare abbastanza banche pronte all’ennesimo “obolo” e se sì in cambio di quale altro favore, magari di tipo fiscale, sarà contrattato? La soluzione dovrebbe appalesarsi nei prossimi giorni.