amor et scientia sunt essentia vitae

Situazione in rapidissima evoluzione e non nel meglio purtroppo (sintetizzo quanto un'altra dozzina di osservatori hanno già riversato in rete in tempo reale, rielaborando a modo mio)

La "tesi ISIS" non ha retto che per le prime ore della mattinata a quanto pare:

A - la cattura rapida degli elementi superstiti della formazione - tagiki, quindi nulla a che vedere col mondo arabo, quanto un'etnia diffusa in tutto l'ex areale sovietico, dalla Russia all'Ucraina - che si dirigevano rapidamente verso il confine ucraino (a Brjansk, a 100 km circa dalla frontiera),

B - le poche informazioni ricavate dal breve interrogatorio avvenuto seduta stante (da cui emerge che sono mercenari del più infimo livello pagati da non si sa chi), a cui vanno ad aggiungersi:

C - frammenti di dichiarazioni sparse da parte di funzionari angloamericani (Nuland) e rispettivi consolati nelle settimane passate (criptiche allora, ma più chiare e gravi col senno delle ultime 24 ore) nonchè le imbarazzanti uscite di qualche funzionario di Kiev (che nella sfrontatezza divergono persino dalla prudenza del governo centrale, comunque intento a mantenere una facciata di decenza).

Ecco, tutto questo fa in modo che prenda forma e materia - ahimè - qualcosa che non ho parole esatte per definire. Un "quadro" al quale esito per buona coscienza a dare un nome, in realtà qualcosa di più affine ai graffiti protostorici, i cui contorni esprimono una miscellanea di pedissequo e primitivo ai limiti del reale. Per questo non voglio esprimermi direttamente: perchè quando si è ai confini del reale si rischia di fraintendere e dire qualcosa di erroneo o cadere nella banalità.

Cerco la complicazione (trovare qualche elemento intricato), una parte di me desidera trovarla in realtà, per far sì che NON sia quanto tutto sembra suggerire......eppure è una perdita di tempo farlo.

Il graffito non è complicato (purtroppo). Al contrario è di una semplicità devastante, micidiale (purtroppo), cui seguirà a questo punto un'altrettanto micidiale risposta dalle alte sfere.

Chi scrive è solo un analista senza importanza (!), la cosa più grave è che il PRESIDENTE in persona e la sua cerchia pensino le medesime cose scritte su questa bacheca (ma che dico, le sanno perfettamente).

Nelle settimane passate - questo è sfuggito ai non analisti - erano trapelate dal Cremlino parecchie indiscrezioni in merito ad una seconda mobilitazione finalizzata alla creazione di una forza di 300'000 uomini con obiettivo la cattura della regione di Kharkov (...).

Se il piano in questione era solo una speculazione teorica, uno spauracchio della narrativa NATO, ma in fondo senza un reale fondamento, e quello di ieri sera era un "messaggio" per invitare a desistere, per intimorire Mosca a cedere (?) allora temo, temo molto, che sia stato uno degli ultimi errori della giunta di Kiev. Perchè il drago immaginario ora può diventare reale.

Per dirla più chiara: un presidente che già sfiora il 90% del consenso della nazione...........ora può anche esibire (per somma disgrazia) una ECATOMBE di 150 civili innocenti ed altrettanti feriti in una sala da concerto, architettata dal nemico ed eseguita per mezzo di bassa manovalanza.

Adesso chi è al trono del Cremlino avrà veramente il consenso per un'ulteriore mobilitazione sufficiente a prendere Kharkov: a seguito della quale, se da parte ucraina si risponde con metodiche analoghe a quelle di stamane, allora cadranno di volta in volta una mezza dozzina di altre province (botta e risposta).

Kiev entro questa primavera-estate perderà anche il suo terzo esercito (il terzo, ho scritto), ovvero l'ultimo che rimane con poche possibilità di poterlo sostituire in tempo utile con altro (preso da chissà dove poi): entro la fine dell'anno si ritrova con metà del paese. Vi sono a questo punto, discrete possibilità che si inneschi una dinamica che porti a una mappa come quella in basso, che un paio di anni fa postai per provocazione a inizio ostilità: non sia che va a VERAMENTE a finire così.

di Daniele Lanza


Fonte:
 
Il problema non è Biden, il problema è la struttura imperialistica del potere mondiale.
Ogni tanto facciamo valutazioni sul se sia meglio Trump o Biden, la questione è veramente difficile da andare a sciogliere. I due rappresentano due volti diversi della stessa classe dirigente, con gli stessi difetti.
Ricordo ancora, anni fa, quando Trump vinse le elezioni vi era un forte allarmismo su cosa sarebbe accaduto al mondo: guerra mondiale imminente? Attacco alla Corea del Nord? Ogni rialzo protezionistico era presentato dalla stampa europea come la fine del grande sogno: "la globalizzazione".
A distanza di qualche anno e con una presidenza Biden quasi alle spalle (sempre che non scoppi prima una guerra termonucleare), abbiamo visto che con i democratici alla Casa Bianca è cambiato ben poco: il conflitto in Ucraina si è inasprito, si è tentato di isolare la Russia a livello internazionale - isolando in realtà l'Occidente, a Gaza sappiamo bene cosa è in atto, l'Iran è sul piede di guerra, la guerra commerciale con la Cina procede a pieno regime.

Gli USA sono il centro di un sistema egemonico e di accumulazione in crisi, devono rispondere a una crisi globale, devono necessariamente drenare risorse da fuori per tenere in piedi il proprio sistema interno. Così, dopo decenni passati a parlare di terziario torniamo a parlare di industrializzazione e sindacati, di produzione pesante, nuda e cruda, di miniere.

Una vittoria di Trump non cambierebbe questa dinamica generale, sposterebbe forse solo il focus di attenzione dell'impero: dall'Eurasia all'America Latina.
Vedremmo nuovi colpi di stato (giudiziari e non) in Brasile, Venezuela, Colombia, una stretta (ulteriore) su Cuba e amenità simili.
Non possiamo pensare di salvare l'Europa con una presidenza di qualche anno allo sbando, dobbiamo pensare a un piano più grande assieme al resto del mondo per risolvere una volta per tutte questo processo generale: il declino di una parte del mondo, anzi della classe dirigente di una parte del mondo, non può diventare un problema di tutti.

- Gabriele Germani
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L'inizio del futuro

Il futuro inizio' 25 anni fa, il 24 marzo 1999.

Senza mandato dell'ONU, facendosi beffe delle riserve russe, lasciando attonito l'intero mondo, la NATO bombardò per mesi la Serbia, facendo un numero altissimo di vittime civili: sotto le bombe umanitarie della NATO perirono 2.500 civili, 89 bambini, ci fu un numero enorme di feriti, un inferno di distruzione.

Fu un gesto unilaterale, privo di legittimità, guidato nel nostro paese dalla "sinistra".
L'opinione pubblica occidentale fu drogata, come al solito, i servizi segreti inglesi, che sempre ci offrono un bel menu di notizie inventate, fecero come sempre il loro sporco lavoro. I soliti cretini del "diritto umanitario" trovarono argomenti, i marxisti per Pelosi e per la Nuland schierati come sempre, a dimostrazione che si può essere marxisti e cretini.

Ma il resto del mondo guardò, capi che lo stesso trattamento riservato alla Serbia sarebbe stato riservato man a mano a tutti gli altri. I russi capirono che bisognava cambiare corso e che l'integrità della Federazione Russa era in pericolo (per ragioni di spazio evito i dettagli, tra cui che una fetta del terrorismo islamico fu creato dall'Occidente), i paesi del Sudamerica che sarebbero ritornati ad essere il cortile di casa degli usa, la Cina che presto sarebbe toccato a loro.
Iniziò un processo sotterraneo.

Tutto il resto del mondo ebbe chiaro che il mondo unipolare, quello del diritto umanitario, era un mondo in cui gli usa erano padroni e arbitri assoluti. Che quella globalizzazione era lo sterminio delle differenze: che era un mondo totalitario.
Il mondo si preparò a un conflitto con l'Occidente.

Oggi Micron propone di inviare truppe di terra in Ucraina, perché tanto la Russia abbaia ma non morde. Recentemente ha sostenuto che l'Occidente ha oltrepassato di volta in volta tutte le linee rosse senza che Mosca reagisse. Prima le sanzioni, poi i cannoni, poi i carri armati, poi i missili, poi gli F16. Possiamo oltrepassare ogni soglia, tanto la Russia teme un conflitto aperto con la NATO.

E possiamo portare scompiglio nelle retrovie, innescare terrorismo che destabilizza la società russa. Il Generale americano Milley sostenne tempo fa questa strategia: fare in modo che nessun russo potesse dormire tranquillo, creare panico in ogni angolo della Russia.

Di fatto, persa la guerra sul campo, l'esercito ucraino si concentra verso le azioni terroristiche, bombarda i villaggi di confine, colpisce civili, e vedremo presto chi aveva assoldato questi terroristi.

Del resto, che quello ucraino-inglese sia un complesso terroristico è evidente: nord stream è un esempio, l'attentato alla Dugin un secondo. Anche gli americani hanno confermato che fu orchestrato dai servizi segreti ucraini.

C'è la credenza che tanto la Russia non reagirà, che possiamo escalare.
Può essere, ma ho la sensazione che da quelli parti abbiano cambiato strategia, e Lavrov, di solito prudente, è stato chiaro.

I missili russi violano ora lo spazio aereo polacco e colpiscono zone quasi al confine. Gli aerei russi sono sempre meno rispettosi verso gli aerei da ricognizione nato che guidano i missili ucraini. Hanno chiarito, lo si sappia, che se un Taurus arriva sul suolo russo bombarderanno la Germania, poiché se questa fa azioni di guerra contro la Russia diventa un obiettivo legittimo.

E se l'Occidente usa l'Isis (che fu creata da Obama e dalla Clinton) per fare terrorismo in Russia, la ritorsione sarà evidente. Intanto bimbiomonkia Micron ha rafforzato le misure di protezione personali, Zelenskij non gode più di quella sicurezza che i russi avevano garantito, il capo dei servizi ucraini, ci si può giurare, è un obiettivo.

Infine, se si dislocano sul campo truppe occidentali con assoluta certezza, a un certo livello, sul versante russo saranno dislocate truppe asiatiche e africane.
A tutta quella massa di deficienti con l'elmetto in testa bisogna chiedere: volete questo?

A chi il 24 marzo 1999 iniziò una guerra che sterminò ogni diritto internazionale e creò le condizioni del disastro odierno, bisogna dire: che cosa credevate avrebbe fatto seguito a quelle azioni?

E se non eravate capaci di prevedere allora eravate dei cretini, non classe dirigente.

di Vincenzo Costa

#TGP #Storia #Geopolitica

Fonte:
 
Schiaffo dell’Onu a Netanyahu: si alla risoluzione sul cessate il fuoco. Usa astenuti.

L’astensione statunitense sblocca la prima risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a favore di un cessate il fuoco fino alla fine del Ramadan a Gaza. L’autorità suprema dell’Onu ha infatti votato con una maggioranza di 14-0 una mozione che chiede l’interruzione immediata dei combattimenti tra Israele e Hamas e della campagna di bombardamenti di Tel Aviv contro la Striscia.

La risoluzione è stata la terza portata al voto dopo che gli Usa da un lato e Cina e Russia dall’altro hanno bloccato col loro veto due mozioni precedenti. A portarla in aula sono stati i dieci Paesi membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza, eletti per mandati biennali: Algeria, Guyana, Ecuador, Giappone, Malta, Mozambico, Sierra Leone, Slovenia, Corea del Sud, Svizzera. Un gruppo eterogeneo di Paesi, comprese quattro nazioni a tutti gli effetti del campo occidentale: Corea del Sud, Giappone, Svizzera e Slovenia, Paese quest’ultimo membro dell’Unione Europea e della Nato. Il Mozambico è stato il primo proponente. Decisiva, come detto, la scelta americana dell’astensione, nel giorno in cui arriva ai massimi la tensione tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu.

La risoluzione, inoltre, tiene assieme alla proposta di cessate il fuoco l’apertura ai valichi bloccati dal conflitto per gli aiuti umanitari, nel giorno in cui l‘Unrwa viene bloccata dall’accesso al Nord di Gaza, e l’apertura alla richiesta di rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas. La posizione dei Paesi membri non permanenti, mediata dal Mozambico, assomiglia nel trittico cessate il fuoco-rilascio degli ostaggi-aiuti umanitari a quella proposta in passato da leader come Papa Francesco, il premier spagnolo Pedro Sanchez e il presidente brasiliano Lula.

Il voto giunge nel giorno in cui Netanyahu ha minacciato di bloccare l’invio di una delegazione negli Usa qualora Washington non avesse messo il veto e anche dall’ex presidente e sfidante di Biden alle presidenziali Donald Trump, pur col sostegno all’alleato conservatore israeliano, è giunto un secondo appello a terminare la guerra. “L’astensione degli Stati Uniti segna una spaccatura con il governo Netanyahu, riflettendo la crescente frustrazione di Washington per la provocatoria insistenza del primo ministro che le forze israeliane andranno avanti con l’attacco di Rafah, e per il continuo ostacolo israeliano alle consegne di aiuti umanitari”, nota il Guardian. “Sebbene la risoluzione richieda un cessate il fuoco temporaneo durante il resto del mese sacro musulmano del Ramadan, aggiunge che ciò dovrebbe portare a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”, aggiunge la testata britannica. La Russia ha provato a sostituire, con un emendamento, la parola “duraturo” con “permanente” ma la proposta è stata bocciata.

A caldo, Netanyahu, secondo quanto riferiscono fonti mediatiche di Tel Aviv, ha cancellato il viaggio della sua delegazione israeliana prevista in arrivo nei prossimi giorni a Washington. Occhi puntati sull’incontro tra il ministro della Difesa Yoam Gallant e il “triumvirato” di consiglieri di Biden, in programma a Washington. Gallant, feroce critico dell’apatia bellica di Netanyahu, vedrà Jake Sullivan, Consigliere per la Sicurezza Nazionale; Tony Blinken, Segretario di Stato; Lloyd Austin, Segretario alla Difesa. Un’occasione per avere un confronto lato militare su una guerra di cui Israele non ha mai chiarito le dinamiche militari e gli obiettivi reali dopo quasi sei mesi dai massacri di Hamas del 7 ottobre e che ha causato la strage di 32mila persone, in larga parte civili, a Gaza.

La risoluzione non è un passaggio risolutivo, ma sicuramente un punto di caduta importante: mostra la forza di una diplomazia multilaterale che resta attiva; manda un messaggio a Netanyahu sulle linee rosse del sostegno occidentale a Israele, sostanziato nel rifiuto dell’offensiva su Rafah; mostra l’esistenza di un consenso crescente alla fine del disastroso conflitto a Gaza. Tutti temi dalla grande valenza politica. Parafrasando le parole di Winston Churchill dopo la battaglia di El Alamein, questa risoluzione non è certamente l’inizio della fine della guerra. Ma potrebbe essere la fine dell’inizio. Ovvero della fase in cui Israele ha proseguito la sua brutale campagna militare a Gaza sganciandola dalla risposta alle stragi di Hamas e non seguendo gli appelli della comunità internazionale. Ora messi nero su bianco in un impegno scritto che ha valore diplomatico tutt’altro che nullo.

di Andrea Muratore

Fonte: Approvata la risoluzione Onu sul cessate il fuoco a Gaza
 
Armiamoci e partite!

La Russia si rafforza, l’Ucraina si dissangua al momento senza prospettive e gli Stati Uniti appaiono sempre più lanciati verso il disimpegno dalla guerra indipendentemente dall’esito delle elezioni di novembre. In questo contesto il Consiglio Europeo del 22 e 23 marzo non ha fornito segnali di discontinuità rispetto all’impegno a sostenere Kiev fino alla riconquista dei territori perduti.

Le concrete difficoltà a produrre con costi e tempi ragionevoli le armi e munizioni necessarie all’Ucraina ma anche a un’Europa sempre più debole e con le forze armate in continuo e progressivo calo di effettivi, sono state esorcizzate dalla determinazione, da tempo in discussione, a utilizzare alcuni miliardi di euro prelevati dai rendimenti degli assetti finanziari russi congelati in Europa dopo l’inizio della guerra.

Per il cancelliere tedesco Olaf Scholz, ”usare i profitti straordinari” derivanti dal congelamento degli asset della Banca Centrale Russa, circa 3 miliardi di euro l’anno, per ”armi e munizioni” da inviare all’Ucraina sarebbe ”un grande passo avanti”. Del resto, ha aggiunto, si tratta di ”profitti inattesi” che finora sono stati incamerati dalle società di clearing, e che lo Stato belga, dove ha sede Euroclear, tassava, ”quindi l’Ue li può usare” per fornire armi a Kiev.

uriosa l’idea che tali fondi vengano prelevati dalle società di clearing, che finora hanno tratto utili dalla permanenza nei loro bilanci di liquidità di 210 miliardi di asset russi i cui frutti appartengono al legittimo proprietario, cioè la Banca Centrale Russa.

Tre miliardi di euro l’anno, ha notato Scholz, sono una cifra non trascurabile, che aumenterà in modo percepibile l’assistenza militare all’Ucraina. La prudenza dei mesi scorsi, condivisa da diversi Paesi, ha spiegato il cancelliere, era motivata dal fatto che una mossa simile deve avere una ”base giuridica” robusta.

Anche se girare all’Ucraina solo i profitti degli assetti finanziari russi congelati è cosa diversa dal trasferire a Kiev tutti i beni russi bloccati in Europa, non può essere trascurato il rischio a cui una simile azione espone la UE e la sua residua credibilità internazionale. Difficile non notare che molte nazioni potrebbero trovare sconveniente investire in Europa con il rischio che domani proprie iniziative politiche o militari non condivise da Bruxelles (o semplice ente l’elezione di un capo dello stato non gradito all’Occidente) possano portare alla sottrazione di tali assetti e persin o a fornire a stati terzi i frutti di tali investimenti. Vale la pena correre rischi simili, di portata strategica per la già traballante economia europea, per fornite 3 miliardi all’anno di aiuti all’Ucraina in guerra?

Eurobond per la difesa?

Al Consiglio Scholz ha inoltre ribadito la contrarietà tedesca agli Eurobond per mettere a disposizione di Kiev e del riarmo dell’Europa 100 miliardi, come proposto dal premier estone Kaja Kallas con il sostegno del presidente francese Emmanuel Macron.

”Penso che nelle prossime settimane convergeremo – ha detto Macron – bisogna definire degli strumenti innovativi per poter raccogliere fondi sui mercati per finanziare degli sforzi militari in maniera più massiccia” di quanto non sia possibile fare a livello individuale, come Paesi singoli”.

Per il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez la sicurezza ”è un bene pubblico europeo” e, dunque, bisogna finanziarla ”in comune ma se andiamo verso una maggiore industria europea della difesa e della sicurezza, allora in futuro dovremo valutare l’emissione di debito comune, per finanziare un bene comune europeo”.

Anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha detto che emettere Eurobond per la difesa comune è ”una buona idea”. Nelle conclusioni il Consiglio Europeo ”invita ad esplorare tutte le opzioni per mobilitare fondi e riferire entro giugno” e ”sottolinea la necessità imperativa di una aumentata preparazione militare e civile e della gestione strategica delle crisi nel contesto delle minacce in evoluzione”.

Armiamoci…

L’Alto Rappresentante Josep Borrell ha detto che ”la guerra non è imminente” e che ”non bisogna spaventare la gente inutilmente”. Per il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ”è ovvio, siamo in un conflitto”, quindi ”bisogna tenere monitorati gli scenari” ma ”non ho visto in questo Consiglio Europeo un clima da mettiamoci l’elmetto in testa e andiamo a combattere”. Sanchez ha aggiunto che ”non si può parlare allegramente di terza guerra mondiale e mandare messaggi che preoccupano i cittadini. E’ evidente che i cittadini vogliono che continuiamo ad appoggiare l’Ucraina, ma dobbiamo utilizzare un altro linguaggio e non contribuire all’escalation bellica. Non mi sento rappresentato quando si dice che dobbiamo trasformare l’Europa in una economia di guerra, né da espressioni che parlano di terza guerra mondiale”.

Quasi tutti i leader europei sembrano quindi voler smorzare i toni interventisti espressi nei giorni scorsi soprattutto da Macron che aveva anticipato l’invio di truppe francesi in Ucraina. Affermazioni suffragata dal quotidiano Le Monde che ha individuato nel 126° Régiment d’Infanterie (9a brigade d’infanterie, 1a Division des Troupes de marine) dotata di blindati ruotati Griffon, la prima unità dell’Armèe pronta al dispiegamento con 1200 militari rinforzati da 200 riservisti.

Un reparto che alle sue spalle non ha certo una tradizione benaugurale: costituito nel 1810, venne annientato due anni dopo nella Campagna di Russia napoleonica.

L’iniziativa di Macron sembra avere il preciso obiettivo politico di raccogliere la partecipazione di qualche altro partner per porre la Francia, unica potenza nucleare della Ue, alla testa dell’iniziativa strategica e militare europea nel momento in cui gli Stati Uniti sono “distratti” dalle difficoltà interne e dalla campagna elettorale mentre la Germania sembra tentennare di fronte al rischio di allargamento della sfida alla Russia, come conferma il dibattito sui missili da crociera Taurus.

Difficile quindi dire se Macron attuerà i propositi bellici annunciati, anche tenendo conto della contrarietà delle opposizioni, della gran parte dell’opinione pubblica e di molti ambienti militari a un’avventura militare in Ucraina che peraltro, considerati i numeri ridotti di truppe impiegabili, avrebbe solo un valore simbolico e non certo risolutivo in quel conflitto. Senza tenere conto dell’impatto politico e sociale che avrebbe a Parigi la morte di qualche centinaio di soldati regolari francesi, il cui peso sarebbe certo maggiore di quello dei 147 “volontari” d’Oltralpe che i russi sostengono di aver ucciso sui fronti ucraini.

Il documento conclusivo del Consiglio d’Europa conferma in ogni caso la volontà comune di ”aumentare in modo sostanziale la spesa militare, investire e più rapidamente insieme” mentre sulla guerra in Ucraina la posizione ribadita è che ”la Russia non deve prevalere”. Peer questo occorre “accelerare e intensificare” la consegna degli ”aiuti militari” e si ”accoglie con favore” l’iniziativa della Repubblica Ceca, che sta acquistando 800mila proiettili d’artiglieria da Paesi terzi, consentendo all’Ue di ”onorare l’impegno di fornire all’Ucraina un milione di munizioni pesanti”.

La parola d’ordine europea sembra quindi confermata: “Armiamoci” ma senza inviare truppe in Ucraina.


….e Partite!

Quasi contemporaneamente al Consiglio d’Europa, l’Alleanza Atlantica ha lanciato un appello al governo ucraino esortandolo a varare l’arruolamento di un gran numero di reclute per sostituire i tanti caduti e feriti.

Nei giorni scorsi erano apparse valutazioni militari francesi che ritenevano necessario l’arruolamento di 31 mila nuove reclute ogni mese per ripianare le perdite al fronte, cioè oltre 360 mila all’anno, in un contesto in cui da tempo gli ucraini cercano di sfuggire in ogni modo alla chiamata alle armi.

Il 20 marzo il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu ha affermato che le perdite ucraine dall’inizio dell’anno hanno superato le 82 mila unità, cioè il triplo rispetto allo scorso anno, sempre secondo fonti russe. Secondo il ministro russo “le forze armate ucraine non riusciranno a contenere le forze russe senza la mobilitazione di 250mila uomini”.

Il 21 marzo l’ammiraglio olandese Rob Bauer, presidente del Comitato Militare della NATO ha precisato che “non servono soltanto nuove granate, carri armati e veicoli blindati. Servono anche, purtroppo, nuovi soldati, perché i soldati muoiono e sono feriti. E poi si parla di mobilitazione, di coscrizione, di tutte le cose che si discutono e che sono difficili per una nazione. Lo capisco. Quindi non si tratta solo di materiale, non si tratta solo di denaro, ma di persone, di sostegno da parte della società. Non è un problema del capo della difesa o del ministro della Difesa difendere il Paese. È una responsabilità di tutti”, ha detto Bauer al Forum sulla sicurezza di Kiev. La NATO invita quindi ufficialmente gli ucraini, che da tempo disertano gli uffici di arruolamento, a “partire” per il fronte.

Il messaggio che in questi giorni è giunto dall’Occidente all’Ucraina è quindi sintetico e chiaro: “Armiamoci e Partite!”

[Fonte: Armiamoci e partite! – Analisi Difesa]
 
PROSPETTIVA AT LARGE.

Aggiungo una lettura di medio corso sulla questione della "tregua del Ramadan" in Palestina, forse ce n'è bisogno.

La severa degradazione dello spazio palestinese di Gaza a seguire i fatti di ottobre, è stata ovviamente operata dal governo di destra di Netanyahu, da Netanyahu stesso con più intenzione ed interesse di ogni altro, ma col beneplacito degli alleati occidentali, degli USA, dei Paesi arabi del Golfo, dell'Egitto. Ora, pare, si sia posto il limite del dove potrà arrivare l'operazione militare. Qual è questo limite?

Per "degradazione" si intendono due cose: sia la distruzione materiale e logistica dello spazio Gaza, sia la distruzione socio-politica di Hamas che quello spazio deteneva e di cui viveva.

Il primo obiettivo, risponde la desiderio israeliano di risolvere il problema di convivenza problematica con i palestinesi di Gaza. Il modo è rendergli la vita impossibile e spingerli a migrare altrove (Egitto, Giordania, Libano etc.). In effetti si può discutere la nozione di "genocidio", qui si tratta piuttosto di una "espulsione territoriale coatta". Poco noto forse ai più ma dal processo Eichmann si apprese che il progetto originario nazista era proprio l'espulsione coatta, il genocidio intervenne dopo perché meno problematico sul piano politico-logistico o forse solo "più ariano". Eichmann mostrò come furono proprio i lunghi ed amichevoli contatti con la comunità ebraica sull'idea del grande trasferimento a creargli la conoscenza utile poi alla gestione ben meno amichevole della logistica da internamento. Se ne dolse, ma era un funzionario della "banalità del male" come argutamente notò Hanna Arendt, mente fina ed intellettualmente onesta.

Erano 2,5 milioni i locali, gli israeliani sperano di convincerne la gran parte ad andarsene (sempre che qualcuno se li prenda, ma ad occhio mi sa che almeno una milionata o poco più se ne è già andata) di modo da ritrovarsi con una enclave più piccola, gestibile ed innocua.

In aggiunta, la distruzione sociale e politica di Hamas che infrastrutturava quella comunità. Sia colpendo militarmente direttamente, sia soffocando Hamas che a quel punto non avrà più il suo "popolo" e spazio territoriale. Il soffocamento dello spazio protettivo dei "terroristi" è il primo paragrafo dei manuali militari di ogni dove, non c'è altro modo di aver risultato con questi ostinati irregolari asimmetrici.

A questo punto, la risoluzione di ieri, dice a NNetanyahu che ha raggiunto il limite concesso per entrambi gli obiettivi. La risoluzione sappiamo che è stata promossa dai paesi arabi. Ed ora?

Ora potrebbe aprirsi la già prevista seconda fase, il gioco del dopo, la gestione post bellica ed il riassetto della situazione per un nuovo equilibrio.

Arrivati qui, permettetemi una divagazione di metodo, riprendo subito dopo, se non interessati saltate questo ed i due paragrafi successivi. Qui molti forse avranno notato che io non scrivo tutte le settimane su Ucraina o Palestina o qualsivoglia altro fenomeno critico, dalla c.d Terza guerra mondiale in giù (a pezzi o ad Armageddon), pur occupandomi anche di questo come studioso, perché molte mie analisi valgono fino a prova contraria, se una analisi vale, non sto certo lì a riscriverla tutte le settimane. Non sono un giornalista, né un propagandista, né ho travasi emotivi da sfogare in deliri social da onde di sdegno collettivo. Ognuno lo sdegno se lo coltiva come vuole, pubblicamente sarebbe meglio capire prima per cosa. Questo social è fatto apposta per condividere onde emotive per altro spesso manovrate, usarlo per razionalizzare è farne contro-uso in forma di guerriglia marketing, una vecchia tecnica di resistenza per chi ha poco e lotta con chi ha molto più "volume di voce". Si usano i loro mezzi per altri fini.

Una settimana dopo l'inizio della guerra in Ucraina, quindi più di due anni fa, scrissi che uno degli obiettivi prioritari della trappola americana in Ucraina era la piena cattura egemonica dell'Europa. Ma tutti erano presi dai Donbass, Pietro il Grande 2.0, nazisti kantiani, armata rossa a Berlino, guerre mondiali e atomiche che potevano fischiare da un momento all'altro e di più si divertivano con questo genere meno realista e più Netflix pur facendo finta di occuparsi di "geopolitica". Sottogenere, quelli che hanno il momento Sherlock Holmes e ti spiegano cosa è avvenuto, dove e come basandosi su materiali emessi dai servizi di intelligence di mezzo mondo che però siccome hanno preso sul media birichino sono più veri del mainstream. Scusate la divagazione di metodo, ma come parliamo in pubblico sta diventando una emergenza. Il mondo non sarebbe così pieno di delinquenti informativi se non fosse così pieno di polli.

Sebbene ora colpita da un eccesso di attenzione, geopolitica è una disciplina come un'altra, con le sue competenze, metodi e conoscenze, sebbene ancora molto indietro sul piano epistemologico e meta-teorico, non s'improvvisa nulla o almeno non si dovrebbe. In breve, si salva solo Caracciolo. A meno di non divertirsi a giocare a Risiko da adulti cantando "I'm von Clausewitz, just for one day". Magari scambiando la fuffa del commento pubblico di pretesi esperti (o meglio reali esperti ma in propaganda) per farci su polemiche social.

Già a ridosso degli avvenimenti di ottobre, ricordavo lo scenario macro, il fatidico "contesto" mediorientale senza il quale non si capisce molti cosa pretendono di capire di questo tipo di fenomeni, che vedeva gli americani intenzionati a creare un accordo strategico tra Israele, Paesi del Golfo per dare un corridoio commerciale-energetico dall'India all'Europa in contrasto alle reti cinesi del BRI, nonché disturbare i nuovi assetti BRICS sfruttando le ambiguità indiane. Idealmente, un accordo del genere, Biden & Co, sognavano di poterselo portare alle elezioni di novembre, Blinken l'aveva dichiarato ai quattro venti già da fine settembre.

Quell'accordo, relativo piano operativo, mossa dei capitali a sostegno dei progetti, non si poteva certo fare con Gaza ed Hamas tali quali prima di ottobre. Per questo, sono stati tutti silenti nei fatti rispetto a quello che ha fatto N. La zona doveva esser ripulita, era la fase a "distruzione creatrice", schumpeterismo applicato alla strategia. Ora, arrivati a restringere Gaza a Rafah, si pone un bivio.

Netanyahu e gli israeliani avrebbero voluto pulire tutta la situazione, eliminare ogni residua vestigia di palestinesità organizzata per il dopo Gaza. I Paesi arabi hanno fatti sapere a gli USA che ciò non è consentito, deve rimanere una pur simbolica presenza territoriale di palestinesità, sebbene de-hamasizzata il più possibile ed anche ridotta demograficamente. Pare che questa posizione -per altro più realistica ed anche N lo sa, magari i cialtroni del suo governo meno- abbia infine determinato lo stop. Da qui in poi, quindi, si aprirà la seconda fase ovvero trattare. Cosa?

Quanti soldi ed a quali fini e progetti metteranno gli arabi (europei, IMF-WB, charity varie, con ONG festanti, quasi tutte anglosassoni) per la ricostruzione della zona, in favore di quale forma debole di istituzione palestinese locale, come dividersi lo spazio ex-Gaza che gli israeliani vogliono comunque ridotto in loro favore (nuovi coloni, speculazione edilizia ed infrastrutturale), che tipo di riconoscimenti formale avrà il nuovo piccolo nucleo palestinese base Rafah.

Una dimensione certo improponibile per le idee di "due stati" che è un refrain della pubblicità diplomatica degli ultimi anni senza alcuna consistenza reale. Roba da buonismo giornalistico per le opinioni pubbliche occidentali che hanno difficoltà con i rimasugli di coscienza quando si volgono turbati alle brutture della politica internazionale di cui capiscono meno che di meccanica quantistica. La nuova Rafah, sarà un protettorato dalla dubbia forma giuridica provvisoria, con un po' di ONU, arabi, forse un po' di Autorità palestinese (ma qui si aprono altri scenari), innocuo eppure simbolicamente importante per il il mondo arabo.

Chi dovesse temere l'utilizzo di questa nuova enclave come base per future vendette ed intifada di ciò che rimane di Hamas, dovrà fare i conti con numeri e dimensioni, territoriali e demografiche, della nuova realtà. che non lo consentiranno.

Queste trattative avranno tre motori.

Il motore americano che spingerà, speranzoso, per portare un pacchetto "abbiamo una nuova idea di Palestina" alle elezioni di novembre.

Il motore israeliano e l'interesse personale di Netanyahu a non portare alcuna soluzione prima delle elezioni americane poiché dipende molto che partita si potrà giocare con altri quattro anni di Biden o di Trump. La versione Trump è senz'altro più appetitosa sia per l'attuale governo di Israele, sia per Netanyahu. Trump ha già mandato Jared Kushner -marito di Ivanka e di origine ebraica- in zona a tessere tele nelle scorse settimane. Sfruttando anche il fatto che Biden ha nei sondaggi problemi crescenti con i propri elettori musulmani e di varia altra specie non ebraica. Chissà che anche la nuova paranoia europea da ISIS-K (chi inventa queste sigle è un genio, dai ISIS-K fa paura, no?) non rientri nello scenario largo.
Questo dà altri mesi di sopravvivenza politica e giuridica a Netanyahu e ne proroga il prestigio interno, non hanno altri per gestire questa fase diplomaticamente assai complessa che non il "vecchio volpone", un signore che per quanto stia in uggia a molti, per non dire di peggio, è indubbiamente un politico mille e più carati. Quando arriverà per lui il "giorno del giudizio" se si presenterà a Tel Aviv con il pacchetto coi fiocchi giusti da mettere sul tavolo, chissà quanti si ricorderanno di cosa, come e perché ha fatto quello che ha fatto. Nel campo, vale il brutale "il fine giustifica i mezzi", è teleologico (ma non kantiano), il dopo cancella le tracce del prima.

Il terzo motore, arabo ed europeo, starà a guardare, in fondo anche loro consapevoli che prima o dopo novembre prossimo, cambia molto. Adesso varrà la pena anche volgere lo sguardo a cosa succederà nei Territori dell'Autorità o meglio a gli assetti politici interni a lungo bloccati da paralisi politica e rissosità interna a Fatah.
Incognita, lo spazio politico, operativo e militare concesso dagli arabi alla fazione FM-Hamas per quel che ne resta-Qatar-Iran/Libano/Hezbollah. Quanto faranno in qualche modo parte del gioco o meno e soprattutto in che modo. Versione Biden più soft, versione Trump più Hellzapoppin'. Ma quella Biden più soft solo fino a novembre, dovesse vincere si torna all'hard, non meno che in Ucraina.

Quindi, mettetevi comodi, perché per otto mesi ci sarà politica, diplomazia, scaramucce, ricatti, sgambetti, alzate di voce e baci e riabbracci, qualche ripresa dei bombardamenti, atti umanitari ed altro intrattenimento e poco o nulla ciccia. Biden tratterà con Netanyahu e Netanyahu con Biden, scommetto sul vecchio volpone, ha la carta del tempo che in questi casi vale come la matta. Ma attenzione, ad ottobre o poco prima, Biden calerà anche le sue di carte.

Per chi segue lo sviluppo strategico delle aree critiche del mondo, sarà molto interessante. Bel partitone.

Fonte:
 
La Volontà è essenzialmente realizzatrice, noi possiamo fare tutto ciò che ragionevolmente crediamo di poter fare.
Nella sua sfera d'azione, l'uomo ha l'onnipotenza di Dio; può creare e trasformare.
Ma questo potere deve essere esercitato prima di tutto, su se stesso. Quando viene al mondo, le sue facoltà sono nel caos, le tenebre dell'intelligenza coprono l'abisso del suo cuore, e il suo spirito, come trascinato dalle onde del mare, è in bilico sull'incertezza.
Allora, gli viene data la ragione, ma questa ragione è ancora passiva, lui stesso deve attivarla; sta solo lui emergere le onde ed esclamare: Che Luce Sia!
Così l'uomo si fa Ragione, si fa Coscienza; si fa Cuore.
La legge divina sarà per lui come l'avrà fatta, e tutta la natura diventerà come la desidera.
L'eternità entrerà e rimarrà nel suo ricordo.
Egli dirà allo Spirito:
"Sii materia, e alla materia, sii spirito, e lo spirito e la materia gli obbediranno".

EliphasLevi, Il Grande Arcano
 
25 anni dopo la guerra del Kosovo: svelato il piano segreto di Blair per "rovesciare Milosevic"

I documenti declassificati del Ministero della Difesa britannico (MOD) esaminati da The Grayzone rivelano che funzionari a Londra complottarono per coinvolgere le truppe statunitensi in un piano segreto per occupare la Jugoslavia e "rovesciare" il presidente Slobodan Milosevic durante la guerra della NATO del 1999 contro il paese. Sebbene il folle piano non sia mai stato attuato, i dettagli del complotto rivelano esattamente come i funzionari britannici siano riusciti a trasformare Washington in uno strumento di forza contundente del loro impero sconfitto negli anni a venire.

Il 24 marzo segna il 25º anniversario dell'Operazione Allied Force, la campagna di bombardamenti della NATO di 78 giorni contro la Jugoslavia. Ancora definita dal mainstream dominante occidentale come un'intervento umanitario riuscito condotto per prevenire un imminente "genocidio" della popolazione albanese del Kosovo, la guerra fu in realtà un'aggressione illegale e distruttiva, basata su menzogne e propaganda atroce, contro un paese sovrano e multietnico. Belgrado era infatti impegnata in una battaglia controinsurrezionale contro l'Armata di Liberazione del Kosovo (KLA), un gruppo estremista legato ad Al Qaeda, sostenuto dalla CIA e dal MI6.

Il KLA - finanziato dal traffico di droga e dal traffico di organi - cercava esplicitamente di massimizzare le vittime civili, al fine di precipitare l'intervento occidentale. Nel maggio 2000, una commissione parlamentare britannica concluse che tutti i presunti abusi contro i cittadini albanesi da parte delle autorità jugoslave erano avvenuti dopo l'inizio dei bombardamenti della NATO, trovando che l'intervento dell'alleanza aveva effettivamente incoraggiato Belgrado a neutralizzare aggressivamente il KLA. Nel frattempo, nel settembre 2001, un tribunale dell'ONU a Pristina stabilì che le azioni di Belgrado in Kosovo non erano di natura o intento genocida.

Questi risultati sono in gran parte trascurati oggi. Un'indagine di Politico del febbraio scorso sul saccheggio postbellico dell'Occidente in Kosovo ha affermato categoricamente che la NATO intervenne in Jugoslavia "per fermare un genocidio in corso contro la popolazione albanese etnica". Allo stesso modo, viene dimenticato quanto da vicino gli Stati principali della NATO fossero arrivati a invadere Belgrado durante quella primavera caotica.

Proposte britanniche per l'invasione statunitense della Jugoslavia

Il 29 aprile 1999, i bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia erano entrati nella quinta settimana. In quella data, Richard Hatfield, allora direttore politico del Ministero della Difesa britannico, inviò all'apparato militare, di sicurezza e di intelligence di Londra un "documento di discussione dello Strategic Planning Group sulle opzioni per le forze di terra in Kosovo". In un documento contrassegnato come “Secret – UK eyes only”, Hatfield chiedeva una decisione "immediata" sull'opportunità di invadere formalmente la Jugoslavia:

"Se vogliamo influenzare il pensiero degli Stati Uniti sulle opzioni per le forze di terra, dobbiamo trasmettere loro il documento molto rapidamente... La nostra pianificazione è in anticipo rispetto agli Stati Uniti, agli altri alleati e [al quartier generale della NATO]... Crediamo che gli Stati Uniti possano sviluppare il loro pensiero iniziale sulle opzioni per le forze di terra questa settimana. Il nostro documento potrebbe esercitare un'influenza significativa sulle loro conclusioni. I [Capi di Stato Maggiore] hanno quindi concordato che dovremmo trasmetterlo agli Stati Uniti privatamente (attraverso i canali militari e politici) il più rapidamente possibile".

Secondo Hatfield, Londra ha dovuto "superare" la "grande riluttanza e lo scetticismo" di Washington nei confronti di un'invasione formale di terra, quindi "le decisioni devono essere prese rapidamente se vogliamo lanciare un'operazione prima dell'inverno". Evidentemente, a Londra era germogliata una precisa tempistica d'azione. Allo stesso tempo era fondamentale "chiarire" all'allora Primo Ministro Tony Blair che "sebbene possiamo influenzare la pianificazione di un'eventuale campagna di terra, non possiamo aspettarci che gli Stati Uniti o la NATO accettino facilmente o senza riserve le opinioni britanniche".

Pertanto, un "rapido accordo di principio su una campagna di terra" era considerato "più importante dei dettagli", si legge nel documento. In altre parole, l'impegno degli Stati Uniti a mettere gli stivali sul terreno aveva la meglio su tutte le preoccupazioni tecniche di base. Dopo tutto, la fantasia di Blair sull'invasione si basava interamente sull'invio da parte di Washington di centinaia di migliaia di soldati statunitensi in Jugoslavia. Londra, al contrario, ne avrebbe schierati solo 50.000, la maggior parte dell'esercito britannico disponibile all'epoca. Questa disparità fu probabilmente una fonte fondamentale della "riluttanza e dello scetticismo" nordamericani.

Londra elaborò quindi quattro scenari distinti per la guerra. Tra questi, l'invasione del Kosovo da sola e la "liberazione" della provincia dal controllo di Belgrado. Questa opzione limiterebbe "la fuoriuscita in altre aree della Serbia", garantendo al contempo "nessuna presenza militare permanente altrove" nel Paese. Un'altra proposta, denominata "opposizione più ampia", vedeva la NATO invadere completamente la Jugoslavia, con l'obiettivo di "sconfiggere le forze armate serbe e, se necessario, rovesciare Milosevic". Quest'ultimo prevedeva in risposta una "resistenza serba organizzata" a tutti i livelli.

Un'altra fonte di "riluttanza e scetticismo" degli Stati Uniti era senza dubbio il fatto che tutti i Paesi confinanti con la Jugoslavia - anche i membri e gli aspiranti membri della NATO - avevano rifiutato, o ci si aspettava che rifiutassero, l'uso del loro territorio per l'invasione di terra. Ad esempio, due delle proposte di guerra di Londra dipendevano "fondamentalmente dall'accordo greco per l'uso delle strutture portuali e dello spazio aereo". Senza l'acquiescenza della Grecia, la NATO "non avrebbe avuto altra scelta se non quella di organizzare una più ampia operazione di contrasto dall'Ungheria, dalla Romania e/o dalla Bulgaria, il che sarebbe stato politicamente ancora più difficile".

Unitamente ai profondi legami storici e culturali, la lunga tradizione di relazioni calorose tra Atene e Belgrado escludeva di fatto entrambi i piani che dipendevano dalla Grecia. Un'invasione condotta attraverso questi ultimi Paesi, d'altra parte, significava che "sarebbe stato impossibile limitare la portata della guerra con la Serbia". Nel frattempo, l'Albania, che ha sostenuto l'UCK e che è stata il quartier generale effettivo della NATO durante i bombardamenti sulla Jugoslavia, e la Macedonia, "dove i livelli di truppe [della NATO] stavano già causando problemi", avrebbero temuto di diventare formalmente belligeranti in qualsiasi conflitto a causa delle probabili "ritorsioni serbe".

Blair chiede una "coalizione dei volenterosi"

Nonostante l'apparente impossibilità di un'invasione terrestre, i funzionari britannici, Blair in particolare, erano completamente determinati a procedere in Yugoslavia. La loro campagna di bombardamenti fu un fallimento. I caccia della NATO bombardarono incessantemente le infrastrutture civili, governative e industriali serbe, uccidendo oltre un migliaio di persone innocenti, inclusi bambini, distruggendo violentemente la vita quotidiana di milioni di persone. Tuttavia, le forze jugoslave dispiegarono astutamente veicoli fittizi per deviare l'alleanza militare, mentre nascondevano le loro operazioni anti-KLA sotto condizioni meteorologiche avverse e tattiche di inganno.

Pubblicamente, gli apparati militari della NATO, i burattini politici e i servi dei media esaltarono il loro sorprendente successo e la vittoria inevitabile sul campo di battaglia. Ma i documenti declassificati mostrano che gli ufficiali del Ministero della Difesa passarono gran parte del loro tempo lamentando il fatto che le loro bombe non intimidissero né Milosevic né ostacolassero la guerra dell'esercito jugoslavo contro il KLA. Si diceva che le forze di Belgrado avessero ingannato costantemente la NATO "molto efficacemente" attraverso l'ampio uso di "camuffamento, bersagli finti, occultamento e bunker".

I funzionari britannici espressero ripetutamente preoccupazione che l'esercito jugoslavo potesse effettivamente riuscire a espellere completamente il KLA dal Kosovo, consentendo a Milosevic di dichiarare vittoria e dettare termini di pace alla NATO. Si diceva che Blair fosse determinato a respingere qualsiasi ipotesi del genere. Inoltre, si sapeva bene che i bombardamenti della NATO avevano spinto i cittadini a sostenere il loro leader. Come riconosceva un documento, i bombardamenti dell'alleanza sul Ministero degli Interni della Jugoslavia "hanno dimostrato ai cittadini di Belgrado quanto fosse vulnerabile la loro città, ma non hanno ottenuto molto altro".

"Preavvisati da un elenco di obiettivi pubblicato sul sito web della CNN la scorsa settimana, i serbi si erano già allontanati dall'edificio. Il Kosovo è stato spazzato via in meno di una settimana e negli Stati Uniti, potrebbe esserci un ripiegamento, poiché i costi e i pericoli dell'escalation si fanno sentire," affermava il 4 aprile la missiva.

Il giorno seguente, Blair inviò una "nota per il registro" personale a alti funzionari del governo britannico, dell'intelligence e militari. Egli criticò aspramente la mancanza di "vigore" nella campagna di bombardamenti, suggerendo che il pubblico britannico "non ha la fiducia che sappiamo cosa fare", prima di concludere: "Sembriamo non avere una presa".

Blair propose quindi la formazione di una "coalizione dei volenterosi" per contrastare l'opposizione all'escalation all'interno della NATO e "perseguire questo fino alla fine". In un'apparente scia di sanguinosa bramosia, il Primo Ministro passò quindi a delineare una serie di richieste:

"Dobbiamo rafforzare gli obiettivi. I media e la comunicazione sono assolutamente essenziali. Attaccare petrolio, infrastrutture, tutte le cose che Milosevic valorizza... è chiaramente giustificato".

"Cosa sta frenando questo?" si lamentava Blair. "Ho pochi dubbi che stiamo procedendo verso una situazione in cui il nostro obiettivo diventerà rimuovere Milosevic. Non vorremo dirlo ora, ma l'autonomia per il Kosovo all'interno della Serbia sta diventando assurda. E chiaramente Milosevic minaccerà la stabilità della regione finché rimarrà".

Il Ministero della Difesa successivamente diramò una nota su "obiettivi", che richiedevano "immediata attenzione", notando che Londra aveva "offerto agli Stati Uniti tre obiettivi significativi" identificati dal MI6: l'iconico Hotel Jugoslavia di Belgrado; un bunker dell'era della Guerra Fredda; e l'Ufficio Postale Centrale della capitale jugoslava. Pur ammettendo che un attacco all'Hotel Jugoslavia avrebbe significato "alcune vittime civili", la nota insisteva sul fatto che le loro vite "valevano il costo".

La NATO colpì successivamente l'Hotel Jugoslavia il 7 e 8 maggio del 1999, danneggiando i suoi bar, boutique e sale da pranzo mentre uccideva un rifugiato che cercava rifugio all'interno. Il Washington Post giustificò prontamente il bombardamento sostenendo che potesse aver preso di mira un noto leader paramilitare serbo, che secondo le accuse possedeva un casinò ospitato all'interno dell'hotel. Interrogato dal giornale se prendesse personalmente il bombardamento, il combattente, conosciuto come "Arkan", rispose:

"Quando colpiscono i civili, lo prendo personalmente. Non si cambiano le menti con i Tomahawk. Se vogliono portarmi alla giustizia, perché vogliono uccidermi? Se vogliono prendere Arkan, mandino truppe terrestri così posso vedere le loro facce. Voglio morire in una lotta leale. Bill Clinton è nei guai. Bombarda ciò che può. Dice 'Dio benedica l'America' e il resto del mondo muore."

I bombardamenti della NATO alimentano le paure cinesi e russe

Più tardi, in aprile, come per ordine personale di Blair di "colpire i media", la NATO bombardò la sede di Belgrado della rete televisiva jugoslava RTS. Il bombardamento uccise 16 giornalisti e ferì altri 16, con molti intrappolati sotto le macerie per giorni.

Il Primo Ministro difese personalmente l'assalto criminale, sostenendo che la stazione fosse un componente centrale dell'"apparato di dittatura e potere" di Milosevic.

Il Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia, finanziato dalla NATO, successivamente indagò sul bombardamento della RTS. Concluse che, sebbene il sito non fosse un obiettivo militare, l'azione mirava a interrompere la rete di comunicazione di Belgrado e quindi era legittima. Amnesty International definì questa sentenza un errore giudiziario. Il generale Wesley Clark della NATO, che supervisionò la campagna di bombardamenti, ammise che si capiva che l'attacco avrebbe interrotto le trasmissioni della RTS solo per un breve periodo. Infatti, la RTS tornò in onda dopo soli tre ore.

Il bombardamento della RTS rappresentò uno dei numerosi crimini di guerra commessi dalla NATO durante la campagna in Jugoslavia con totale impunità. Ufficialmente, l'assalto aereo di 78 giorni distrusse solo 14 carri armati jugoslavi, mentre devastava 372 strutture industriali, lasciando centinaia di migliaia di persone senza lavoro. Si afferma che l'alleanza militare abbia ricevuto indicazioni su cosa bersagliare da parte di società statunitensi, tra cui Philip Morris. La deliberata distruzione di impianti chimici da parte della NATO ha inquinato suolo, aria e acqua nei Balcani con oltre 100 sostanze tossiche. Non a caso, la Serbia oggi è leader mondiale nei tassi di cancro.

Nella prima notte in cui l'Hotel Jugoslavia fu bombardato, la NATO effettuò un attacco simultaneo contro l'ambasciata di Pechino a Belgrado, uccidendo tre giornalisti, ferendo dozzine di persone rifugiatesi all'interno, e indignando cittadini cinesi e serbi. La NATO dichiarò che si trattava semplicemente di un incidente, causato da dati di targeting errati della CIA. Anche se i documenti declassificati del Ministero della Difesa non contengono alcun riferimento a questo incidente internazionale estremamente controverso, menzionano gravi preoccupazioni cinesi riguardo alla campagna più ampia. In particolare, che questa "costituirà un precedente per l'intervento altrove".

I funzionari britannici cercarono di dissipare queste paure non solo a Pechino, ma anche a Mosca. Il primo ministro russo Yevgeny Primakov apprese che la NATO aveva lanciato la sua campagna contro la Jugoslavia mentre era letteralmente in volo, diretto negli Stati Uniti per un incontro ufficiale. Ordinò immediatamente al pilota di fare ritorno in Russia. Nonostante la sua protesta, il Cremlino cercò quindi di costringere Milosevic a cessare le ostilità in Kosovo tramite canali diplomatici.

Una volta chiaro che la Russia non sarebbe intervenuta dalla sua parte, Milosevic cedette e promise di ritirare tutte le forze jugoslave dal Kosovo il 3 giugno 1999. A sua volta, la NATO avrebbe occupato la provincia. Lo stesso mese, un cable inviato dall'ambasciata britannica a Mosca osservò che il bombardamento era visto localmente "come un colpo al Consiglio di Sicurezza dell'ONU e una minaccia per gli interessi russi... stabilendo un precedente inaccettabile per l'azione al di fuori dell'area, aggirando se necessario il Consiglio di Sicurezza":

“[Il Ministero della Difesa di Mosca] ha utilizzato il ricorso alla forza da parte della NATO per sostenere che la nuova dottrina militare russa dovrebbe tenere più seriamente conto di una potenziale minaccia da parte della NATO, con tutto ciò che ciò significa in termini di livelli di forza, approvvigionamento e futuro del controllo degli armamenti… La posizione avanzata del Regno Unito sull’uso della forza non è passata inosservata… La campagna in Kosovo ha rafforzato la percezione qui di una NATO in espansione come potente strumento per imporre la volontà degli Stati Uniti in Europa”.

Secondo quanto riferito, Blair è uscito dalla distruzione della Jugoslavia con una nuova fiducia. Secondo l’esperto giornalista britannico Andrew Marr, il Primo Ministro si è reso conto di “aver cercato di rimbalzare [Clinton] in modo troppo evidente sul Kosovo”, concludendo così che “i presidenti USA hanno bisogno di essere trattati con tatto” per ottenere i risultati desiderati. Blair ha anche “imparato a gestire gli ordini che hanno comportato molte perdite di vite umane”. Dirigere il collasso della Jugoslavia, inoltre, “lo convinse della sua capacità di guidare la guerra, di accettare grandi scommesse e di farle giuste”.

È stato questo atteggiamento arrogante che ha portato Blair nel pantano dell'Iraq e verso ulteriori interventi che hanno causato il caos nel mondo.

Blair compie il "destino della Gran Bretagna”

Con l'esercito jugoslavo completamente ritirato dal Kosovo, la provincia cominciò a somigliare alla Germania del dopoguerra, divisa in zone di occupazione occidentali. Come documentato in modo sconvolgente da un rapporto dell'OSCE del novembre 1999, subito cominciò un vero e proprio genocidio. I combattenti dell'UCK procedettero non solo a purgare la popolazione rom e serba del Kosovo, ma anche a eliminare i loro rivali politici e criminali albanesi tramite intimidazioni, torture e omicidi, il tutto sotto gli occhi vigili dei "peacekeeper" della NATO e dell'ONU.

L'Independent riportò in quel mese che la campagna post-bellica dell'UCK di "omicidi e sequestri" nel Kosovo occupato dalla NATO - ufficialmente descritta come un'operazione "per garantire la sicurezza pubblica e l'ordine" - ridusse la popolazione serba di Pristina da 40.000 a soli 400. Un operatore europeo per i diritti umani locale disse al giornale che durante i sei mesi precedenti "ogni singolo serbo" che conoscevano era stato "intimidito - verbalmente per strada, al telefono, [o] fisicamente" dall'UCK legato ad Al Qaeda.

Nel dicembre 2010, un "peacekeeper" britannico inviato in Kosovo durante quel periodo definì Pristina come "una retrovia impoverita, corrotta e etnicamente polarizzata" all '"impossibilità della NATO di controllare i gangster dell'UCK". Ricordò come Londra sotto la sua supervisione avesse costantemente "incoraggiato l'UCK a una maggiore brutalità". Ogni volta che catturava i combattenti del gruppo terroristico per strada, pesantemente armati e "intenti a commettere omicidi e intimidazioni", i suoi superiori ordinavano di liberarli:

"Ho visto... l'UCK infuriare come una folla vittoriosa intenzionata alla vendetta", spiegò, aggiungendo che "l'omicidio sistematico di serbi, spesso sparati di fronte alle loro famiglie, era comune". Dato che "teppisti dell'UCK armati di AK47, manganelli e coltelli terrorizzavano gli abitanti degli edifici residenziali serbi, molti serbi fuggirono", notò l'ex soldato.

"Il macchinario di propaganda del governo Blair voleva semplicità morale. I serbi erano i 'cattivi', quindi gli albanesi del Kosovo dovevano essere i 'bravi'... La prostituzione e il traffico di droga e di persone aumentarono mentre il controllo dell'UCK su Pristina si stringeva".

Tuttavia, i combattenti dell'UCK furono protetti dalla persecuzione dell'ICTY per i loro innumerevoli orribili crimini da un decreto diretto della NATO. Solo oggi la giustizia viene vagamente servita, con quasi totale indifferenza occidentale. In molti casi, i politici nordamericani continuano a lodare i brutali leader dell'UCK. Nel 2010, l'allora vicepresidente Joe Biden definì l'indagato per crimini di guerra successivi Hashim Thaci il "George Washington di Pristina". L'autobiografia di Thaci del 2018 vanta orgogliosamente citazioni promozionali lusinghiere dell'attuale occupante dello Studio Ovale sulla sua copertina.

Dal 1945, i funzionari britannici sono stati sopraffatti dall'obiettivo di mantenere la dominazione globale dell'impero statunitense più grande, più ricco e più potente, in modo da guidarlo di nascosto nella direzione da loro scelta. Raramente questa missione sinistra viene espressa così candidamente come nei documenti presentati qui. Mentre la reverie di Blair di "rovesciare" Milosevic tramite la forza degli Stati Uniti è rimasta non corrisposta, la calamitosa "Global War on Terror" post-11 settembre è stata esplicitamente ispirata dai britannici.

Poco dopo che gli aerei colpirono il World Trade Center in quel fatidico giorno, Blair spedì un busto di Winston Churchill alla Casa Bianca, evocando il famoso discorso del leader durante il dicembre 1941 al Congresso, che annunciò l'ingresso di Washington nella Seconda Guerra Mondiale. Allo stesso tempo, il primo ministro britannico scrisse privatamente al presidente George W. Bush, esortandolo a sfruttare il "massimo" di simpatia globale prodotta dall'11 settembre per lanciare interventi militari in tutto il Medio Oriente. Questa ondata di belligeranza era stata anticipata durante la campagna elettorale del 1997 di Blair:

"Secolo dopo secolo è stata la destinazione della Gran Bretagna guidare altre nazioni. Questa non dovrebbe essere una destinazione che fa parte della nostra storia. Dovrebbe far parte del nostro futuro... Siamo leader delle nazioni, o non siamo nulla."

Una Pax Americana globale guidata dai britannici fu forgiata in Jugoslavia 25 anni fa, in un incendiario battesimo di bombardamenti aerei e propaganda atroce, che successivamente inflisse morte, distruzione e miseria in tutto il Sud Globale. Oggi, milioni di persone in tutto il mondo si confrontano con l'eredità dolorosa della determinazione di Blair nel realizzare il “destino” di Londra.

-di Kit Klarenberg - The Grayzone-

[Fonte: 25 anni dopo la guerra del Kosovo: svelato il piano segreto di Blair per "rovesciare Milosevic"]
 
L'emergenza alimentare a Gaza

L'ICP "ha rilevato come il 70% degli abitanti di Gaza nel nord affrontano la Fase 5 dell'insicurezza alimentare, cioè la catastrofe.

Non c’è fame a Gaza è uno dei tanti temi base della propaganda israeliana, la Hasbara, come la chiamano, che a volte riecheggia nelle parole e nei comunicati di Washington. Dahlia Scheindlin pubblica su Haaretz (1): “Dentro l’inquietante negazione della fame a Gaza da parte di Israele”, articolo nel quale dettaglia la catastrofica emergenza alimentare dei palestinesi.

I dati dell’emergenza alimentare

Innanzitutto le valutazioni dell’ICP (classificazione integrata delle fasi di sicurezza alimentare), che “ha rilevato come il 70% degli abitanti di Gaza nel nord (circa 210.000 persone) si trovano ad affrontare la Fase 5 dell’insicurezza alimentare, cioè la catastrofe. Nelle regioni meridionali, dove le tante voci dell’hasbara sostengono con forza che i mercati sono aperti e il cibo è abbondante, il rapporto ha rilevato che i governatorati di Deir al-Balah, Khan Yunis e Rafah sono nella Fase 4 – stato di emergenza. Ma tutta Gaza si trova ad affrontare una grave insicurezza alimentare”.

“L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato che il rapporto dell’IPC corrisponde alla sua esperienza diretta nel corso del servizio prestato alle popolazioni di Gaza dall’inizio della guerra. L’ OMS ha affermato che ‘il rapporto dell’IPC conferma ciò che noi, i nostri partner delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative (ONG) stiamo osservando e denunciando da mesi. Quando le nostre missioni raggiungono gli ospedali, incontriamo operatori sanitari esausti e affamati che ci chiedono cibo e acqua”.

Impressionante anche il recente sondaggio del “Palestinian Center for policy and survey research” condotto da Khalil Shikaki all’inizio di marzo secondo il quale “solo un terzo, se non meno, dei palestinesi di Gaza aveva acqua e cibo disponibili” – la maggioranza ha affermato che potevano accedervi “con grandi difficoltà e rischi”, mentre il 13% ha affermato che non avevano affatto disponibilità di acqua e cibo. Il 27% degli interpellati ha aggiunto che l’assistenza medica non era disponibile. La stessa percentuale ha detto lo stesso riguardo ai servizi igienici; solo il 24% ha dichiarato che ne aveva. Questa è una formula per la morte”.

Così Philippe Lazzarini Commissario generale dell’UNWRA su X: “la settimana scorsa tutti i convogli alimentari dell’UNRWA diretti al nord di Gaza sono stati bloccati”. Negli stessi giorni, gli Stati Uniti bloccavano i finanziamenti all’Unwra fino al 2025. Riprenderanno, sempre se accadrà, quando la popolazione della Striscia sarà sfoltita

La conta dei camion.

D’altronde, è dall’inizio della guerra che Israele ostacola l’accesso degli aiuti a Gaza, come denuncia la cronista di Haaretz, la quale ricorda la foto che immortala il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres che, impotente, osservava l’interminabile fila di camion bloccati dalle autorità israeliane al valico di Rafah.

La Scheindlin smonta anche la narrativa israeliana sull’elevato numero di camion che sarebbero stati fatti entrare in questo mese. Entrano col contagocce, dopo aver subito (legittime) perquisizioni accurate. Ma il diavolo sta nei dettagli, dal momento che “possono essere respinti anche solo per un paio di forbici chirurgiche – che sono classificate [pericolose perché] di duplice uso”.

Ma anche tali forbici sono necessarie, scrive la cronista, perché “la carestia non può essere affrontata senza un’assistenza medica adeguata; mentre la mancanza di acqua pulita fa sì che il cibo che deve essere cotto in acqua non può essere utilizzato come dovrebbe” (la farina, ad esempio).

Infine, la Scheindlin ricorda il comunicato del coordinamento israeliano i territori, secondo il quale “il numero di camion di aiuti alimentari che entrano a Gaza è attualmente di 126 al giorno, cioè superiore a quello dei camion che entravano prima della guerra”.

Anche fosse vero (e la succitata foto di Guterres stride con tale affermazione), è ancor più vero quanto annotato su X da Tania Hary, direttrice di GISHA (l’organizzazione israeliana per i diritti umani che si dedica su Gaza) e rilanciato dalla Scheindlin: “Il paragone non ha senso perché prima della guerra non c’erano quasi 2 milioni di sfollati ed esisteva una produzione alimentare e agricola locale… Le necessità sono aumentate in modo esponenziale; non si può fare un paragone con la domanda prebellica, che peraltro anche allora non veniva soddisfatta”.

Tale la catastrofe, tale la follia che si sta consumando nella Striscia con la connivenza di tanto potere, politico e mediatico, dell’Occidente.

Note:

1) Inside Israel's disturbing denial of starvation in Gaza

Fonte: L'emergenza alimentare a Gaza
 
Nella nuova cortina di ferro che cala sull'Europa, i paesi dell'est faranno da marca militare e vetrina (più marca che vetrina, i bei tempi dello zio Sam sono finiti) mentre la vecchia Europa occidentale verrà spolpata per reindustrializzare quel tanto che si potrà gli Usa e il resto verrà lasciata al declino e al meticciato per evitarne futuri possibili risvegli (rompere l'unità etnico-culturale di un paese è il modo tra i più efficaci con cui indebolirlo).

La nuova cortina è in realtà un recinto di un Occidente che si è auto-sabotato in modo davvero fantozziano a causa di èlites in pieno delirio di onnipotenza e conclamata stupidità, che cercheranno di restare in sella imponendo un serrate i ranghi brutale alle proprie popolazioni.

Popolazione sempre più invecchiate e che verranno sottoposte ad un modello di controllo sociale sempre più stringente (grazia alla tecnologia) e ad una bella cura dimagrante sui pochi e rimanenti diritti sociali rimasti (sanità ed istruzione).

Fuori con il restante potere militare rimasto si cercherà di ritardare il declino destabilizzando alcune zone sensibili del nemico sul modello Ucraina.

All'Interno direi che ci si sbarazzerà, complice una popolazione anestetizzata e in preda al modello paranoico in stile Covid 19, di quelle pochissime tracce di finta democrazia rimasta.

Quasi quasi lo scatenamento del caos globale in cui rimangano coinvolti anche i nostri paesi è l'unica alternativa per una possibile ribaltamento del tavolo (doloroso come tutti i rivolgimenti storici) ad una agonia che pare scorrere senza intralci su un binario a senso unico.

Fonte:
 
Come scrivere anche Mark Hedsel nel suo libro” L’iniziato” .
Mark apprende dal suo Maestro di Via che il suo nome in codice è esattamente ******.

"Dovete capire che le persone che conoscete vivono nei loro sogni e non hanno nessun nesso con la realtà. Chiunque abbia un contatto qualsiasi con la realtà viene definito "un ******". La parola ****** ha due significati: il significato vero che le fu attribuito dagli antichi saggi era "essere se stessi". Un uomo che è se stesso sembra e si comporta come un matto per coloro che vivono nel mondo delle illusioni: sicchè quando chiamano ****** un uomo, intendono dire che egli non condivide le loro illusioni. Chiunque decida di lavorare su se stesso è un ****** in entrambi i sensi. I saggi sanno che egli è in cerca della realtà. I pazzi ritengono che abbia perduto il ben dell'intelletto. Si suppone che noi che siamo qui siamo in cerca della realtà e, così, saremmo tutti idioti: ma nessuno ti può far diventare ******. Devi decidere da te."

G.I. Gurdjieff
 
Europa 1914 – 2024 Di nuovo i sonnambuli?

Alla vigilia della Prima guerra mondiale il sentimento dominante in Europa, il “topos”, era quello della improbabilità della guerra. Un sentiment che le spregiudicate prese di posizione di molti governanti europei tendono a riproporre

In queste settimane si è tornati a parlare di un libro del 2013 di Christopher Clark sulla genesi della prima guerra mondiale, “I Sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra”, nel quale i leader che portarono i loro paesi in guerra vengono definiti sonnambuli. Cioè attori che incedevano irresistibilmente verso una meta di cui non erano pienamente consapevoli. Lo studio analizza la dinamica che portò allo scatenamento della Grande Guerra da parte di paesi le cui società, fino ai più alti vertici, rimasero legate fino all’ultimo al topos della “improbabilità della degenerazione” in un conflitto generale della pur grave crisi Austro-Serba.

Oggi la guerra russo-ucraina rischia di provocare una dinamica analoga perché per tutta la seconda metà del 900 e i primi decenni di questo secolo ha dominato la convinzione diffusa, cioè il topos, della impossibilità di un conflitto fra potenze dotate di armi nucleari per l’enormità delle distruzioni che essa comporterebbe e alle quali non sfuggirebbe neanche l’ipotetico vincitore. Nel concludere la sua analisi sulla genesi della guerra che oppose la potenza dell’Intesa, Francia Gran Bretagna e Russia, a quelle della Triplice Alleanza orbata dalla defezione dell’Italia, Austria-Ungheria e Germania, Clark cita una frase emblematica del topos dell’improbabilità pronunciata nel 1936, sul balcone del municipio di Sarjevo, da Rebecca West, un’opinion leader del mondo anglosassone del suo tempo: “Non capirò mai come sia potuto succedere”. Una frase che ribadiva, a distanza di più di vent’anni, il sentiment diffuso e largamente prevalente in tutti gli ambienti responsabili delle potenze che poi si trovarono coinvolte nella guerra.

In realtà, quella convinzione rimase dominante sia nei vertici politici che in quelli militari di quei paesi fino all’ultimatum di Vienna alla Serbia. Fino a quel momento, quegli ambienti, pur dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando, conservando il loro ottimismo sugli sviluppi della crisi non rinunciavano alla tradizionale pausa estiva né alla routine degli scambi internazionali. Il capo di stato maggiore tedesco Helmut von Moltke, per esempio, non interrompeva le sue cure termali a Carlsbad; il kaiser Guglielmo Secondo si metteva in viaggio per la Norvegia il 21 luglio, in piena crisi, mostrando di escludere che potesse degenerare in un vasto conflitto.

Analogamente, nel campo opposto. il presidente francese Poincaré, di ritorno con il primo ministro Viviani dalla visita di stato in Russia. trovava fuori luogo l’aver richiamato in Francia alcune unità militari dal Marocco. Il primo ministro inglese Asquith si dedicava, invece, tutto il mese di luglio alla questione dell’Ulster.

Assai meno ottimista, e in sostanza preveggente, era invece un osservatore esterno assai autorevole come il colonnello House, ascoltato consigliere del presidente americano Wilson, al quale già nel maggio del ’14 faceva presente che la corsa degli Europei agli armamenti terrestri e navali avrebbe portato al conflitto. (1)

È ben noto come la dichiarazione di guerra alla Serbia e la mobilitazione russa avviarono una dinamica di misure militari indifferibili per gli alti comandi dei due campi, smentendo quel topos dell’improbabilità che aveva retto nonostante il perdurare e l’aggravarsi della crisi Austro-Serba. A partire dal 1945, dopo l’impiego dell’arma nucleare contro il Giappone, si è diffusa una convinzione per un certo verso analoga a quella dell’improbabilità del primo Novecento: è “il topos dell’impossibilità” della guerra nucleare. Dopo le esplosioni di Hiroshima e Nagasaki esso si è imposto saldamente negli ambienti scientifici più responsabili, oltre che in quelli diplomatici e dell’alta politica, culminando nella celebre dichiarazione di Reagan e Gorbaciov a Ginevra nel 1985: “la guerra nucleare non poteva essere vinta e non avrebbe dovuto essere mai combattuta”.

Nella crisi Ucraina il topos che sembra tentennare è quello dell’impossibilità del conflitto nucleare, anche se fin dal primo deflagrare della belligeranza il presidente americano ha escluso ogni ipotesi di intervento diretto delle forze americane, proprio per evitare l’innesto di un’escalation che potesse sfociare in un confronto nucleare. La complicazione, rispetto a questa posizione lineare, è la diversa modalità dell’impegno degli altri paesi NATO nel sostegno all’ “Ucraina aggredita”.
Le forme e le dinamiche di questo sostegno si sono andate evolvendo in un’escalation continua di misure e forniture di mezzi che da difensivi hanno teso ad acquisire progressivamente caratteristiche offensive – con sviluppi i cui limiti vengono dichiarati indefiniti – così come indefinita rimane la potenziale risposta russa, anche se, a più riprese, Mosca non ha escluso il ricorso in estremo all’arma nucleare.

Ma al di là dell’andamento delle operazioni sul terreno e del tipo dei rifornimenti inviati a Kiev, nelle dichiarazioni degli alcuni leader occidentali sull’inaccettabilità della sconfitta dell’Ucraina ricompare l’attitudine della San Pietroburgo del 1914 che, rifiutando a priori che la Serbia potesse essere écrasé, diede il là a quelle misure che sfociarono nello scoppio della Grande Guerra.

Ipotizzare l’assenza di limiti nell’assistenza all’Ucraina per impedirne la sconfitta, e compiacersi dell’ambiguità strategica che ne deriva, implica l’adozione di un’analoga attitudine della controparte, la cui panoplia include anche l’arma nucleare.
Non può non esserci, dunque, la preoccupazione di evitare l’avvio dello stesso meccanismo inarrestabile del 1914 che spinse i leader europei ad entrare in guerra come sonnambuli.

L’ipotesi di inserire nel teatro bellico ucraino unità militari di paesi atlantici accentuerebbe questo rischio, aggiungendo un altro tassello a quella guerra mondiale a pezzi denunciata dal Pontefice romano, e rischierebbe di provocare malauguratamente la saldatura di quei pezzi in un aperto conflitto globale.
Indipendentemente dai compiti che questi contingenti potrebbero svolgere, se alcuni di essi cadessero sotto il fuoco russo si configurerebbe la situazione, sempre esclusa dal “topos dell’impossibilità”: lo scontro diretto fra forze russe e forze atlantiche.

In aggiunta a questi rischi vi è poi l’intenzione di avviare una vera e propria corsa agli armamenti in Europa. Una deriva che già nel primo Novecento, come abbiamo visto, aveva indotto un acuto osservatore come il colonnello House a prevedere correttamente l’inevitabile scoppio della guerra, in aperta contraddizione con l’opinione allora dominante.

È una massima assai diffusa quella secondo cui “la Storia è maestra di vita”. Perché la vita ne possa approfittare è però necessario che la lezione della Storia venga compresa dai responsabili del nostro destino. In questo momento non sembra che ciò stia avvenendo.

Note:

(1) Sappiamo bene che il “topos dell’improbabilità” fu smentito dalla dinamica inarrestabile innescata dopo le misure militari dell’Austria e della Serbia dalla determinazione di San Pietroburgo di impedire ad ogni costo la débacle della Serbia, avviando la mobilitazione delle proprie forze. Uno sviluppo che a sua volta mise i militari tedeschi nella condizione di imporre, come irrinunciabile per la sicurezza dell’Impero, l’avvio di analoghe misure preventive. Si trattò di una dinamica dettata dalla strategia militare, al di là della preoccupazione per la pace delle autorità civili, che si trovarono nell’impossibilità di fare scelte ispirate appunto a quelle preoccupazioni.

Fonte: Europa 1914 - 2024 Di nuovo i sonnambuli? - Pluralia
 
QUANDO SI DEPOSITA LA POLVERE.

MEE ovvero il principale think tank qatariota di politica regionale (1), finalmente inquadra cosa è successo e sta succedendo a Gaza.

Come riportato in sintesi ad inizio del redazionale: "Gli obiettivi non dichiarati della guerra : uccidere quante più persone possibile, distruggere quante più case ed edifici possibile, restringere la superficie della Striscia e dividerla. Controllare le risorse di gas. Impedire la creazione di uno Stato palestinese; Hamas, gli ostaggi sono questioni marginali.". Ma come? Hamas, i poveri ostaggi, come "marginali"?

Il sottostante l'immane tragedia che prende i numeri dei morti, feriti, degli ostaggi, dei penosi casi umani, dell'ingiustizia senza giudice, dell'orrore e dell'ignominia, del più o meno genocidio, del silenzio di un mondo e la rabbia dell'altro, era ed è un semplice obiettivo di cancellazione della presenza palestinese a Gaza.

Cancellazione fisica, umana e materiale. Dimezzarne ed oltre la popolazione, relegarla a sud, fargli deserto attorno, renderla una enclave di nessun conto da dare all'Autorità, gli arabi e l'ONU per decenni di caritatevole assistenza, con più o meno Hamas dentro poco importa. Una San Marino palestinese senza statuto giuridico, 500-700 mila anime.

Oggi rimangono ancora forse 1,3 milioni di palestinesi schiacciati a Rafah. Se nei prossimi giorni, alle trattative dietro le quinte, i compiacenti e silenziosi "partner in crime" arabi prometteranno a Tel Aviv di prenderne un'altra metà, si potrà chiudere la prima fase della partita. Come promesso da Bibi due giorni dopo l'attacco di Hamas ad un incontro con sindaci di paesi circostanti Gaza: “La risposta di Israele all'attacco di Hamas da Gaza -cambierà il Medio Oriente-“.

Il bello o l'ennesimo brutto di tutta questa storia è che lo si sapeva. Io lo scrissi il 21 ottobre, cinque mesi fa. Netanyahu col suo faccione da mago birichino, era andato all'ONU con tanto di cartina e pennarello a mostrare fiero la novità di una nuova natività ed esplicite cartine truccate. Il Nuovo Medio Oriente, senza più alcuna ambigua traccia di territorio potenzialmente base per l'ennesima, inutile discussione su i "due Stati", un unico spazio di possesso della terra promessa, da offrire al nuovo piano illustrato nel post di ieri. Ma erano due settimane -prima- l'attacco di Hamas, il 22 settembre.

E' da tempo che Israele ha riallacciato legami diplomatici con Emirati, Bahrein, Kuwait, Oman, i junior partner dell'Arabia Saudita che però stava per firmare anche lei il nuovo patto, già due settimane prima l'attentato di Hamas. Questo sviluppo proviene dagli Accordi di Abramo prima che dalle promesse della Nuova Via del Cotone. Le strategie hanno lungo corso, qui non s'improvvisa niente.

L'unica cosa che s'improvvisa è la nostra attenzione. Come in un gioco di prestigio, mentre il Mago ci faceva inorridire davanti la strage umanitaria, sotto sotto desertificava lo spazio umano di Gaza, faceva scappare già un milione di persone, riduceva, tagliava, rendeva irreversibile lo svuotamento.

E la regia dell'informazione subito pronta ad intrattenerci con il Teatro dei Pupi, Hamas col randello (disumano), il diritto di Vendetta (umano, troppo umano), citazioni della Torah, tutti i giorni un "sì stanno trattando gli ostaggi", "ci sono colloqui speranzosi" anzi no. Antisemita! Nazista! Teatro. Noi non c'eravamo prima, avevamo l'Ucraina, la Cina, le bollette, l'ASL, nonno che sta male e non ci saremo dopo perché quando cade la polvere ed inizierà la politica, avremo altro a cui pensare.

Così va il mondo. Assistiamo come spettatori alla Grande Transizione della nuova era complessa, ma solo quando ci scappa il morto, scoppia la bomba, sta per partire la bomba atomica, anzi no. però quasi. E vai a improvvisati lettori del mondo riciclati dall'economia, dalla pandemia, dalla critica alla nuova paranoia verde, ora esperti di Terza Guerra Mondiale a pezzi. Quelli a paga della Narrazione Ufficiale e quelli critico-critici che gli vanno pure appresso ma si si sentono più svegli. Timore e tremore, brivido di stare nella storia osservandola dalla finestra elettronica per giudicarla, esecrarla, commuoversi, baruffare a favore dei diritti dell'uno o dell'altro dei contendenti. Il mio gallo messicano contro il tuo ed i più sensibili a piangere le povere bestie nel tripudio di strepiti e penne che svolazzano.

Che ci faceva Jihad islamica con Hamas nell'azione del 7 ottobre? Come ci si è infilata? Chi l'ha infilata? Chi di Hamas se l'è fatta infilare trasformando l'operazione "prendi ostaggi da dare in cambio prigionieri" nella macelleria messicana en plain air a cui non si poteva che dare "vendetta tremenda vendetta"? Come mai Iran ed Hezbollah hanno mostrato di non saperne niente sin dai primi momenti dopo l'attentato, perché in effetti non ne sapevano niente? Non erano gli sponsor?
Perché nessuno è rimasto di sasso o s'è rotolato dalle risate quando Bibi ha ammesso che loro proprie niente ne sapevano della preparazione degli attentati in uno spazio grande come la provincia di Spoleto con dentro 2,3 milioni di anime ed i servizi segreti del Paese tra i più potenti al mondo che andavano a fare interviste su i media di mezzo mondo ad ammettere il loro poco credibile "epic fail"? Dopo decenni di costruzione del loro mito pubblico di efficienza. E meno male che sono servizi "segreti". Giravano 5000 razzi Qassam lunghi due metri l'uno, ma nessuno ne sapeva niente, deltaplani, almeno 2000 uomini coinvolti, sì ma "in gran segreto". Avranno fatto le esercitazioni in cameretta, in calzini e trattenendo il fiato. Ma ci prendono proprio per scemi ... sì perché in buona parte lo siamo.

Poi cosa sapessero, chi, facendo finta di non capire o avendo info tagliate, non sta a me dirlo, non faccio l'investigatore di complotti.

Il nostro non è un regime democratico, fateci pace. Non c'è demos che gestisce o controlla la polis, quella di casa e quella mondo. Avete tutti troppo da fare, non avete tempo, c'è da passare giorni e giorni, anni, per dragare l'immane flusso di problemi, conoscenze, storie, fatti, segreti che ti fanno leggere la vera scrittura del romanzo del mondo in svolgimento. Leggere ed interpretare che non è proprio facile. Sempre che nervi ed intestini vi reggano. Vi invitano solo al quarto d'ora più Netflix, il resto rimane in ombra. Non dovete sapere, non dovete pensare, non dovete giudicare se non quello che decidono di darvi in pasto all'ora di cena. Il momento delle Grandi Emozioni, il più brividoso.

O cominciano a rivendicare meno ore di lavoro e più tempo umano per partecipare al cambiamento necessario del mondo, studiando, conoscendo, dibattendo, approfondendo, agendo politicamente, rivendicando il nostro diritto e dovere di decisione della società di cui siamo soci naturali per diritti biologici di nascita (toh, la biopolitica nel suo senso proprio!) o il mondo cambierà senza di noi e com'è facile predire, contro di noi.

Lo capiremo solo dopo, a cose fatte, quando la povere si poserà, quando è troppo tardi. O ci mettiamo a ripristinare livelli minimi di democrazia (non certo quella tele-parlamentare a cinque anni tra un voto di delega assoluta e l'altro) o andrà come è sempre andata, ovunque, negli ultimi cinquemila anni: Pochi governeranno le vite dei Molti. Sempre che non le sacrifichino incontrando i tanti "there is no alternative" che aspettano il percorso da paura dei prossimi trenta anni. Ma con un sorriso ed un marker pen in mano.

Israel's lethal charade in Gaza hides its real goals in plain sight
Fonte:
 
Perché l’Europa ha sacrificato l’Ucraina

La politica occidentale in Ucraina sembra aver raggiunto un punto di flessione. Washington e Bruxelles hanno speso più di 200 miliardi di dollari per la guerra, una cifra che, al netto dell’inflazione, supera di gran lunga l’intero costo del Piano Marshall , che ricostruì l’Europa all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Dopo il fallimento della tanto pubblicizzata controffensiva ucraina dello scorso anno, i leader su entrambe le sponde dell’Atlantico hanno trovato lo stanziamento di nuovi fondi per lo sforzo bellico un compito sempre più arduo. Il mese scorso l’Unione Europea ha finalmente approvato un pacchetto di finanziamenti da 50 miliardi di euro (54 miliardi di dollari) per l’Ucraina, ma ciò è avvenuto dopo mesi di respingimenti da parte dell’Ungheria . Nel frattempo, i partiti scettici sulla guerra stanno crescendo nei sondaggi in diversi paesi, spinti dagli elettori scossi dalla grave crisi del costo della vita che la guerra e le sanzioni occidentali hanno scatenato.

La guerra in Ucraina è stata anche un disastro strategico per il continente, annullando ogni persistente aspirazione dell’Europa a raggiungere una vera autonomia strategica, vassallando l’Europa agli Stati Uniti e lasciandola nella condizione più debole dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Indipendentemente da come andrà a finire il conflitto in Ucraina, l’Europa, soprattutto l’Europa occidentale, ha perso.

Allora perché i leader europei rimangono così ostili agli sforzi diplomatici per porre fine alla guerra? Nelle ultime settimane, il presidente francese Emmanuel Macron è arrivato al punto di suggerire che truppe europee o della NATO potrebbero essere schierate in Ucraina, per poi raddoppiare quando le sue osservazioni hanno suscitato critiche, insistendo sul fatto che la guerra è “esistenziale” per l’Europa e che nulla dovrebbe essere “fuori mano”. tavolo." Tali affermazioni, tuttavia, non sono basate sulla realtà. La sicurezza europea non è “in gioco” : la Russia non è in grado di conquistare e mantenere nemmeno la metà dell’Ucraina, per non parlare di espandersi oltre tale territorio. E il mito comune in Occidente secondo cui Putin mira a restaurare l’impero sovietico è proprio questo : una mitologia iperbolica staccata dalla realtà.

Tuttavia, l’impegno delle élite europee nei confronti dell’Ucraina, a prescindere dai costi, è troppo deliberato e sistematico per essere liquidato come follia o pura incompetenza. Dietro il clamore per l’unità europea si nasconde una lotta politica per stabilire la sovranità sovranazionale dell’UE, un progetto che prevale su tutte le altre considerazioni, inclusa l’autonomia strategica dell’Europa. La preoccupazione di Macron che la vittoria russa in Ucraina (uno stato non-UE) possa cancellare la “credibilità” dell’Europa ha senso quando riconosciamo che lui e altri leader sono impegnati in un progetto globale di costruzione dello stato dall’alto verso il basso in cui la difficile situazione ucraina gioca un ruolo importante, un ruolo fondativo.

L’Ucraina è diventata centrale nell’agenda di trasformazione dell’Unione Europea da un’associazione regionale e istituzionale di più nazioni in un superstato amministrativo sovrano: gli “Stati Uniti d’Europa”. L’establishment europeo ha un attaccamento ontologico all’Ucraina: nella mente di molti tecnocrati europei, “Europa” ha sempre incluso l’Europa orientale ma ha escluso la Russia. Il conflitto in Ucraina riafferma quindi i confini territoriali concettuali del loro immaginario stato continentale. Ma, cosa ancora più importante, la narrazione costruita attorno alla tragica situazione dell’Ucraina è strumentale alle ambizioni stataliste dell’Unione Europea e al perseguimento della legittimità politica.

Data la prevalenza del modello di stato-nazione e la fiducia nella sovranità popolare come base per la legittimità dello stato, tutti gli stati moderni – anche quelli apparentemente transnazionali e imperiali – devono legittimarsi stabilendo un’identità con un popolo. Il Leviatano moderno è un parassita che si nutre dei miti del demos. Non può esistere senza un ospite di cui vivere e alla fine sussumere.

Nell’era moderna, quando la sovranità e la legittimità politica dipendono dall’“identità”, la identità dei governati, piuttosto che le qualità specifiche dei governanti, giustifica il potere. I tentacoli invasivi e in continua crescita dello stato moderno sono annidati dietro un “Noi” (il popolo) ipostatizzato e autolegittimante, un monolite costruito o progettato che la classe dominante adula ritualisticamente e abitualmente per dare il via libera a ogni superamento. Gli stati moderni quindi non solo sono impersonali e senza volto, ma si formano su una rete di miti e storie sulle persone.

Eppure, non solo non esiste un “popolo” europeo storico da incarnare nei futuri Stati Uniti d’Europa, ma i tecnocrati dell’UE disprezzano visceralmente l’idea romantica di nazione che ha forgiato gli stati moderni a partire dalle tradizioni e culture preesistenti dell’Europa del XIX secolo. Invece, il tentativo tardo moderno di costruire una nazione europea si basa sulla costruzione di un’identità civica comune. In altre parole, per stabilire la propria legittimità, l’aspirante classe dirigente del nuovo superstato deve sfruttare e progettare socialmente un demos pseudo-mitico, astratto e astorico basato sui valori cosmopoliti liberali, quelli in cui sono stati socializzati nel dopoguerra.

Riconoscendo la forza emotiva della lotta dell'Ucraina contro il dominio russo, le élite europee si sono appropriate di questa lotta per predicare i precetti ideologici che per loro significano “europeità” e, di fatto, la civiltà stessa. Apparentemente da un giorno all’altro, l’Ucraina è arrivata a difendere i “valori europei” illuminati – libertà, democrazia, tolleranza, buon governo e così via – con la Russia trasformata nell’opposto dell’Europa civilizzata, l’orda barbarica alle porte. Come ha scritto il sociologo e collaboratore del Compact Frank Furedi , l’Ucraina è ora una fonte di autorità morale e una fonte di redenzione collettiva per cui “la fede nell’Occidente” è convalidata dagli “eroi in Ucraina””.

La fonte più profonda della fissazione dell'establishment europeo nei confronti dell'Ucraina è proprio la sua posizione di vittima dell' “aggressione” da parte di un nemico più grande e potente. Come Nietzsche fu il primo a capire, la modernità è un’epoca in cui il mondo viene vissuto principalmente attraverso la lente dell’oppressione e le identità si formano a partire dall’“etica del risentimento ”: gli oppressi sono considerati intrinsecamente giusti e gli viene accordato il valore morale ultimo. Secondo questa dispensazione , la difesa degli “oppressi” diventa l’ideologia di base dell’arte statale, servendo come veicolo per la classe dominante per ottenere e consolidare il potere, santificando la sua supremazia e piantando il seme per il suo futuro potere come grandi liberatori.

Questo “vittimismo” ha fornito il principio organizzativo alla base di gran parte dell’agenda sociopolitica dell’Unione Europea: la sua promozione del multiculturalismo, della diversità e dei diritti LGBTQ, le sue politiche sull’incitamento all’odio, l’immigrazione e l’istruzione sono tutte imperniate sull’identificazione dei capri espiatori e sulla sacralizzazione di una popolazione socialmente vulnerabile e minoranza “non privilegiata”. Salvare la vittima virtuosa genera valuta morale e funge da meccanismo di legittimazione per Bruxelles, garantendone il continuo empowerment istituzionale e burocratico. La sofferenza ucraina offre una nuova opportunità per espandere la narrativa vittimistica che già guida il processo decisionale dell’UE . L’“Ucraina” (come mitologia) arriva a svolgere un ruolo importante nel progetto di definire i confini della nuova Europa escludendo la Russia; e nella formazione dell'identità, la base su cui le élite neofeudali europee cercano di forgiare i loro nuovi cittadini europei cosmopoliti.

La volontà di inventare e produrre un tale demo richiede il declassamento, il livellamento e, in definitiva, la risocializzazione dei veri popoli storici che già abitano l’Europa ma le cui storie complicate e la regolare insistenza sulla differenza e sulla particolarità li rendono sgradevoli, rozzi e obsoleti nella mente dei cittadini. un’istituzione europea che preferisce un’Europa più isomorfa e omogenea. Il loro sistema politico immaginato è uno “stato-nazione” astratto, transnazionale e legalistico i cui cittadini sono principalmente legati a valori universali e animati dalla giustizia sociale globale e dalla ricerca utopica di eliminare l’oppressione in quanto tale.

Con lo sbiadimento della memoria storica delle atrocità naziste che originariamente ispirarono un’unione cosmopolita in Europa, l’ immagine emotiva degli ucraini indifesi che combattono valorosamente per il loro libero arbitrio e la loro libertà contro gli oppressori fascisti è per molti versi il mito fondatore ideale per un’aspirante nazione imperiale che spera di battezzare la sua nuove manifestazioni nelle acque purificatrici della sofferenza umana. In quanto vittime oppresse che devono essere salvate dall'illuminato umanitarismo dei “buoni europei” dell'impero in ascesa, gli ucraini sono il soggetto perfetto per questa tragica mitopoesi e unità artificiosa.

L’impegno europeo nei confronti dell’Ucraina è un errore strategico colossale che le élite europee difendono nella convinzione che la tragedia in corso nel paese possa essere sfruttata per promuovere le loro aspirazioni politiche durature per uno stato federale europeo e progettare un sistema politico “europeo” dall’alto verso il basso. l’esercizio più ambizioso e assolutista di surrogato di costruzione nazionale e di formazione dell’identità mai tentato. Eppure il costo per raggiungere tale indiscussa sovranità politica in Europa sembra essere la rinuncia all’altro obiettivo a lungo termine dell’Europa: l’indipendenza geopolitica da Washington.

La narrazione dell’“unità occidentale” sull’Ucraina è sempre stata un miraggio, una “nobile menzogna” progettata per nascondere la natura imperiale del sistema di alleanze statunitense, i suoi squilibri radicati a sfavore dell’Europa e le sue richieste alle economie europee. Il progetto statalista europeo è quindi paradossale in apparenza: nessuno stato moderno può affermare di essere veramente sovrano pur essendo sottomesso a un altro, anche se quell’altro stato si è sviluppato in modo simile in modo proposizionale, imperiale e ideologico. Per ora, tuttavia, i leader ambiziosi dell’UE sembrano preparati a questo sacrificio, convinti che creare una solida base per il loro nuovo stato-nazione continentale valga la pena di diventare un protettorato de facto di Washington per un decennio o due, fino a quando non riusciranno a guadagnare terreno. le capacità di base per tracciare la propria rotta.

In definitiva, le élite al potere dell’Unione Europea cercano di centralizzare il potere a Bruxelles e privare i paesi membri del loro diritto di voto. Se il perseguimento di questa ambizione burocratica e totalitaria per la sovranità politica avviene a scapito della prosperità economica e dell’autonomia strategica, questo è apparentemente un prezzo che sono disposti a pagare. In questo contesto interno, l’Ucraina è semplicemente una pedina: gli ucraini possono essere motivati dalla difesa della propria sovranità nazionale, ma in realtà vengono sacrificati per elevare i nuovi signori d’Europa e promuovere i loro sogni donchisciotteschi di un superstato europeo.

Fonte: Why Europe Sacrificed Ukraine
 
5,7 milioni di italiani sono in povertà assoluta, è il dato più alto da dieci anni

Secondo l’Istat, nel 2023 le famiglie italiane in povertà assoluta si attestavano all’8,5% del totale delle famiglie residenti, pari a 5,7 milioni di individui, in leggera crescita rispetto all’8,3% del 2022. La percentuale di minori appartenenti a famiglie povere ha raggiunto il 14%, corrispondente a circa 1,3 milioni di individui: sebbene l’Istat sottolinei una sostanziale stabilità rispetto al 2022, si tratta del dato più alto della serie storica degli ultimi dieci anni. Per famiglie in povertà assoluta si intendono quelle non in grado di sostenere le spese essenziali per condurre una vita dignitosa e accettabile. Il peggioramento riguarda in particolare le famiglie che hanno come persona di riferimento un lavoratore dipendente, per le quali l’indice di povertà assoluta raggiunge il 9,1% (rispetto all’8,3% dell’anno precedente). Dato, quest’ultimo, che riguarda 944 mila famiglie italiane in totale. L’incidenza della povertà assoluta riguarda poi maggiormente i nuclei con un figlio minorenne (12%).

Al nord, l’incidenza della povertà assoluta a livello familiare è sostanzialmente stabile (8,0%), con un aumento di quasi 136.000 persone in condizioni di ristrettezza economica, mentre si registra una crescita della povertà individuale che è passata dall’8,5% del 2022 al 9% del 2023. Il Mezzogiorno mostra anch’esso valori stabili e più elevati delle altre ripartizioni (10,3%, dal 10,7 del 2022), anche a livello individuale (12,1%, dal 12,7% del 2022). Rispetto al 2022, i livelli di povertà risultano stabili nella fascia 18-34 anni (con un’incidenza dell’11,4%) e in quella degli ultrasessantenni (6,2%) che resta la fascia di popolazione meno colpita da disagi economici.

Una delle principali cause dell’aumento (lieve) della povertà rispetto al 2022 è stato l’alto livello d’inflazione che ha fatto aumentare le spese a carico delle famiglie: nel 2023 la spesa media mensile delle famiglie italiane è stata pari a 2.728 euro, in crescita del 3,9% rispetto ai 2.625 euro dell’anno precedente, quando l’inflazione faceva già sentire i suoi effetti. Tuttavia, tale crescita è esclusivamente l’effetto del carovita, perché in termini reali – al netto dell’inflazione – la spesa media si è ridotta all’1,8%. L’aumento è stato più accentuato nel Mezzogiorno (+14,3%), dove la spesa è salita da 1.955 a 2.234 euro mensili, e nel Centro (+11,4%), dove è cresciuta da 2.651 a 2.953 euro mensili. Nel Nord, invece, l’incremento è stato del 4,5% (dai 2.837 euro mensili del 2014 ai 2.965 del 2023), ben al di sotto del dato nazionale. Commentando i dati Istat, il Codacons ha affermato che “gli italiani hanno speso di più per acquistare di meno, a causa del forte impatto del caro-prezzi del nostro Paese”: se ogni nucleo famigliare ha ridotto gli acquisti in media per 567 euro mensili rispetto al 2022, al netto dell’inflazione la spesa per consumi degli italiani è crollata complessivamente per 14,6 miliardi di euro nel 2023, mentre è diminuita in termini reali del 10,5% rispetto al 2014. Proprio a causa dell’aumento delle spese dovute all’inflazione – ma anche all’aumento dei tassi d’interesse – il Centro studi di Unimpresa ha certificato che nell’ultimo anno il saldo totale dei depositi bancari di famiglie e imprese è crollato di 152 miliardi di euro, da 1.452 miliardi a 1.300 miliardi, pari a una riduzione del 10.5%

L’inflazione è stata provocata in particolare dal caro energetico e dalla speculazione delle aziende che hanno sfruttato le congiunture internazionali sfavorevoli per gonfiare in modo ingiustificato i prezzi. Secondo il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, il governo non sarebbe stato in grado di introdurre misure efficaci per contrastare gli effetti dell’inflazione, in quanto ha affermato che «I rincari vanno contrastati con misure efficaci e strutturali e non con provvedimenti spot inadeguati a tutelare le tasche delle famiglie».

[Fonte: 5,7 milioni di italiani sono in povertà assoluta, è il dato più alto da dieci anni]
 
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Il capitalismo è un sistema-globale che avvolge l'intero pianeta e che ne condiziona la massa vivente (umana e non), anche nelle più intime manifestazioni.

Per questo motivo, la teoria del sistema-mondo (che poi non è propriamente una teoria, sarebbe forse più corretto parlare di "approccio", da cui a seguire possono nascere tante diramazioni teoriche) è quella più idonea la suo studio.
Il capitalismo è una rete globale di relazioni che col tempo ha visto affermarsi un centro e una periferia globali.

Semplificando molto: il continente favorito per questioni spaziali e climatiche fu l'Eurasiafrica (in finale favorita anche dal fatto che è stata la culla dell'umanità e che costituisce il continente per eccellenze, il resto, America inclusa, sono isole più o meno grandi). Qui l'Homo Sapiens continuò a comportarsi come un qualsiasi animale: adattandosi all'ambiente.

In Asia nacquero grandi conglomerazioni umane, fondate sulla collaborazione (stiamo chiaramente generalizzando molto, ma talvolta semplificare serve per capirsi; il trucco è sottintendere una serie di diversità, specificità e peculiarità su cui per comodità si sorvola). L'Europa rimase continente marginale per decine di millenni, solo alcuni cambiamenti climatici favorirono il lento spostarsi dell'asse mediterraneo dal Medio Oriente alle odierne Grecia, Italia e Tunisia e furono cambiamenti socio-culturali seguenti a far biforcare (triforcare?) la civiltà mediterranea in tre tronconi nel primo Medioevo.

La civiltà europea si identificava come cattolica occidentale, erede dei Romani, dei Germani e inconsapevolmente della cultura celtica. Questo ramo per motivi geografici (la frammentazione geografica dell'Europa occidentale), storici (le peculiari tradizioni ereditarie germaniche), culturali (la coesistenza di tre tronconi originari) e un po' per caso, non riuscì mai a ricreare un'unità (cosa che la Cina riuscì ciclicamente sempre a ricreare). L'Europa tribale e litigiosa, partì alla conquista dei mari perché competitiva al suo interno e estremamente violenta.
La conquista europea dei mari e delle colonie fu solo l'esportazione della propria inter-bellicità al resto della popolazione mondiale.

Il capitalismo e la tecnica erano le risposte in diversi ambiti di questa competizione eterna tra poteri e autorità (non a caso gli europei hanno spesso interpretato la storia come una guerra, competizione, lotta tra opposti).
All'interno di questo abbiamo visto susseguirsi fasi economiche ordinate e caotiche e cicli egemonici (Spagna, Paesi Bassi, Regno Unito e USA).

Gli USA soppiantarono l'Europa a cavallo tra le due guerre mondiali, imponendosi come centro economico mondiale in virtù di più risorse e più popolazione e territorio (in sostanza più PIL in potenza). Inoltre, mentre Londra aveva sempre governato l'economia mondiale spingendo sempre più verso soluzioni di libero mercato, gli USA negli anni '30 optarono rapidamente per il keynesismo e per un mercato controllato.
Il capitalismo keynesiano produsse ricchezza e coincise con il capitalismo industriale; al contempo, rimanevano ben salde le divisioni tra centro e periferia mondiali in termini egemonici ed economici.

Gli anni Settanta (sconfitta in Indocina, cacciata dello scià, eurocomunismo, fine fascismo in Portogallo e Spagna, socialismo in Angola e Mozambico, sandinisti in Nicaragua) furono il momento di biforcazione.
In quel momento le strade possibili erano due: continuare la guerra del capitale o passare dal keynesismo a una forma di socialismo che gradualmente avrebbe cancellato le differenze di classe nel centro e al contempo cancellato le diversità tra centro e periferia.

Gli USA (governati da Nixon) optarono per la strategia della guerra permanente: ritiro dal Vietnam, sganciamento dollaro dall'oro e imposizione nell'arco di pochi anni di una iper-finanziarizzazione dell'economia (che avrebbe garantito una crescita economica virtuale). Intanto avrebbero gonfiato l'industria cinese, garantendo la crescita di una rivale strategico dell'URSS in Asia.
A inizio anni Ottanta, il conto era pronto per avviare politiche liberiste e di compressione salariale, mettendo all'angolo l'altra grande potenza industriale: il Giappone.

Un disegno perfetto, perché l'URSS non resse l'urto, i paesi del Terzo Mondo finirono vittime di continue bolle speculative e prestiti capestro, la Cina cresceva tanto ma partiva da un range basso e nel centro, gli USA primeggiavano in ogni campo.
Tuttavia, il buon Marx non sbagliava: il capitalismo nutre le sue contraddizioni.
Così un paese a economia ordinata nel giro di trenta anni soppiantava la produzione industriale USA e diventava anzi il principale creditore della super-potenza, che intanto iniziava ad entrare affatticata anche in questo castello di debiti e contrazioni salariali.

Il resto è storia odierna: i paesi della periferia e gli sconfitti della Guerra Fredda si sono radunati attorno al paese a economia ordinata e ora sfidano il paese a economia disordinata (gli USA post-anni Settanta) e i suoi alleati e questi ultimi 1000 anni di storia ci fanno capire chiaramente che le possibilità di rimanere in sella sono esigue.

[Fonte: ]
 
Gaza, Irlanda partecipa a causa Sudafrica contro Israele all'Aja - Ultima ora - Ansa.it

Il ministro degli Esteri e della Difesa irlandese Micheal Martin ha annunciato ieri sera che Dublino interverrà nel caso avviato dal Sudafrica contro Israele ai sensi della Convenzione sul genocidio presso la Corte internazionale di giustizia dell'Aja.
"Dopo l'analisi delle questioni legali e politiche emerse nel caso e la consultazione con i partner internazionali - si legge in comunicato del Governo della Repubblica d'Irlanda - il tanaiste (vicepremier irlandese, ndr) ha ordinato ai funzionari di iniziare i lavori su una Dichiarazione di intervento ai sensi dell'articolo 63 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia.
L'intenzione è che la Dichiarazione di intervento sarà depositata una volta che il Sudafrica avrà depositato la sua memoria.
È probabile che ciò richieda diversi mesi.
L'Irlanda collaborerà strettamente con una serie di partner che hanno confermato la loro intenzione di intervenire".
"Spetta alla Corte stabilire se si stia commettendo un genocidio - afferma Martin nella nota -, ma voglio essere chiaro nel ribadire che ciò che abbiamo visto il 7 ottobre in Israele e ciò che stiamo vedendo ora a Gaza rappresenta la palese violazione del diritto umanitario internazionale su vasta scala: la presa di ostaggi; il rifiuto intenzionale dell'assistenza umanitaria ai civili; il prendere di mira i civili e le infrastrutture civili; l'uso indiscriminato di armi esplosive nelle aree popolate; l'uso di beni civili per scopi militari; la punizione collettiva di un intero popolo. L'elenco potrebbe continuare, invece deve finire. Il punto di vista della comunità internazionale è chiaro: quando è troppo è troppo".
 
Ucraina, Putin: colpiremmo gli F-16 anche negli aeroporti Nato - Europa - Ansa.it

Il presidente russo Vladimir Putin ha affermato che aerei da guerra F-16 che venissero utilizzati dall'Ucraina contro la Russia sarebbero colpiti dalle forze di Mosca anche se si trovassero in aeroporti Nato.
Lo riporta l'agenzia di stampa Tass.
"Se verranno utilizzati da aeroporti di paesi terzi, per noi saranno un obiettivo legittimo: non importa dove si trovino", ha detto Putin in un incontro coi piloti dell'aeronautica militare russa nella regione occidentale di Tver.
Il presidente russo ha quindi avvertito che la Russia terrà conto del fatto che gli F-16 possono trasportare armi nucleari. "Dobbiamo tenerne conto durante la pianificazione" delle operazioni di combattimento, ha affermato Putin. Lo zar ha quindi assicurato che l'eventuale fornitura di F-16 all'Ucraina "non cambierà la situazione sul campo di battaglia", poiché la Russia "li distruggerà come già sta facendo con i carri armati e le altre armi" occidentali.
 
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