Alessandro Celli
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“Noi non ci siamo mai chiamati Radicali”, dice Toraldo Di Francia, che ricorda (facendo svanire ogni tentativo di trovare una data precisa di inizio del movimento legato a fatti specifici: l’alluvione di Firenze del 1966 per esempio), che loro invece erano parte dell’occupazione dell’Università di Firenze nel 1963, che agli esami costringevano i professori a sorbirsi le loro performances e non i loro compiti, che se si guardavano intorno pensavano ai Pink Floyd ed alla ricerca sperimentale tra suono e immagine di Giuseppe Chiari. E Frassinelli che partendo da Marx ci dice che essere radicali significa “prendere i problemi alla radice”.
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“A Milano facevamo squadra contro la Pop Art”, dice Ugo La Pietra.
Sulla carta, un po’ tutto o niente, se uno registra solo le le etichette metodologiche ed i campi disciplinari della storiografia. E invece dalla sua narrazione si evince una tensione che va ben oltre i confini delle discipline e delle professioni, e che punta invece ad abbracciare la vita, il presente, ed esserne parte in maniera significante. “Radicale è una attitudine” dice ancora, “di chi ha un atteggiamento critico”. O ancora “di chi cerca gli strumenti da dare alla società per capire”.
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“A Milano facevamo squadra contro la Pop Art”, dice Ugo La Pietra.
Sulla carta, un po’ tutto o niente, se uno registra solo le le etichette metodologiche ed i campi disciplinari della storiografia. E invece dalla sua narrazione si evince una tensione che va ben oltre i confini delle discipline e delle professioni, e che punta invece ad abbracciare la vita, il presente, ed esserne parte in maniera significante. “Radicale è una attitudine” dice ancora, “di chi ha un atteggiamento critico”. O ancora “di chi cerca gli strumenti da dare alla società per capire”.