Questa riflessione, di cui attendo gentilmente
un commento da parte di Giovanni Faccenda
mi va di proporla visto che potrebbe essere oggetto di un interessante dibattito.
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Stralcio da :
in difesa di Ottone Rosai di ARMANDO PUGLISI, del 1981
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Un giorno di settembre del 1980 andai ad Acqui Terme per visitare la mostra antologica di Ottone Rosai.
Appena entrato nell'edificio che l'ospitava, il primo quadro che mi colpì, anche per le sue grandi
dimensioni, fu “Il gobbo alla finestra”, del 1937.
Non sapevo che "Crepitus" (il gobbo), descritto da Rosai nel suo libro -"Via Toscanella"- del
1930, avesse una versione pittorica, posteriore di circa 10 anni.
Cercai di stabilire quali fossero i punti di contatto e diversità tra le due figure: il gobbo
letterario ha una “faccia da ippopotamo” (dalla cui "bocca escono le più nere sentenze"), il tronco
supe-riore di lunghezza normale e quello inferiore accorciato dall'attacco anticipato delle gambe,
mentre in quello pittorico la faccia è una specie di triangolo isoscele dal cui lato minore si staccano
un naso a forma di cuneo e una bocca violacea, quasi una cicatrice cucita, mentre identica è la
rappresentazione del corpo sia nella parte superiore che inferiore.
Mi posi la domanda:
quale il significato del gobbo pittorico?
Mi si affacciò alla memoria che il mito della razza, coltivato durante tutti gli anni trenta da
correnti minoritarie del partito fascista, diventò negli anni '37-38 precisa azione di governo con
l'approvazione, da parte del “Consiglio dei Ministri”, di atti legislativi a tutela della purezza del
sangue.
Sorretto da questo ricordo, riguardai e rilessi con più attenzione il dipinto.
L'ampia stanza rappresentava il luogo di detenzione nel quale il regime racchiudeva e isolava i
perseguitati della sua politica razziale e il gobbo, ritratto con la gamba e il braccio appoggiati,
rispettivamente, sopra il giacilio di pietra e il davanzale della finestra, per dilatarne l'immagine e
colmare il nudo carcere, stava a significare che non esisteva una razza italica da tutelare dalla
contaminazione delle altre razze, semmai che anche il figlio più sfortunato delle razze migliori
possedeva tanto orgoglio da poter schernire coloro che ne mutilavano l'umanità.
La collina, i prati, la grande casa seminascosta dai cipressi che si profilavano al di là dell'ampia
finestra e che racchiudevano, cingendolo di soffusa bellezza, il volto tagliente dello sfortunato, rive
lavano che natura e umanità trepidavano per la sua sorte.
Dopo questa lettura mi fu facile rispondere alla domanda che mi ero posto: “Crepitus”
rappresentava una delle condanne più vigorose che mai artista, operante in Italia sotto il fascismo,
avesse osato fare, in nome di ideali umani e di dignità individuale, contro aberranti scelte politiche
operate congiuntamente dal partito e dallo stato autoritari.
Varcai la soglia, scesi i pochi gradini che mi dividevano dalla strada e cominciai a sfogliare il
catalogo e a leggere, qua e là, la presentazione dal titolo: "Ricordo di Rosai" di Luigi Carluccio.
Leggevo: “c’è sempre nelle immagini pittoriche di Rosai l’espressione di un profondo
risentimento, quasi di stizza o di corruccio perché essi (‘i suoi modelli, gli uomini) accettano le
condizioni imposte dalle circostanze della loro esistenza senza un accenno alla ribellione”, e poco
più sopra; “Il suo forte istinto popolaresco lo metteva sempre dalla parte del rischio.
Sempre in prima linea; con i pazzi di ‘Lacerba’…; con i futuristi; con gli arditi in guerra; con i fascisti in pace,
fin-tantoché… non dovette prendere atto che la guerra per la vita è, come lui stesso ha scritto: ‘...
guerra di insidie e di patimenti, lunghi più dell’eterno’”.
.... poi mi vennero in mente le parole scritte da Ernesto Rossi: “Ottone Rosai era stato squadrista ma dopo l’assassinio
Matteotti aveva avuto una crisi di coscienza ed era venuto con noi. Non faceva parte dell'Italia
Libera, ma funzionava come franco tiratore… aveva due enormi pugni che sembravano fatti per
abbattere i buoi”.
Quando il giovane pittore aveva incontrato il futurismo, assieme ad artisti che erano pronti,
addirittura, a perdere la vita per amore del manifesto futurista, altri ne aveva conosciuti che non
disdegnavano di ravvisare nella loro professione un mezzo di promozione sociale, ed è da questi che
egli si era sentito meno lontano.
Se poi era diventato interventista e fascista era perché, per quanto
difficili e laceranti fossero queste esperienze,
non immaginava che potessero chiedergli di
rinunciare a valori che riteneva intangibili.
Quale poi fosse l'ideale di giustizia che Rosai associava alla libertà
era possibile desumerlo dai
contenuti della formazione popolare che aveva ricevuto e dalle opere che aveva dipinto: i primi
portavano a configurare una società dove accanto alla partecipazione di tutti i cittadini a lavori
socialmente utili e all’abolizione della discriminazione tra lavoro manuale e intellettuale, viene
fornito il necessario per vivere agli anziani, ai disoccupati e assistenza a veri inabili e bisognosi; le
seconde a criticare e a opporsi all’operato di quelle classi dominanti che sì rifiutano di dare al
popolo quella dignità che
solo una democrazia giusta e socialmente avanzata potrebbe assicurare.
Grazie per le Vostre risposte, Giovanni compreso