Se tassare le rendite finanziarie diventa un tabù | Marcelllo Esposito
Il regime fiscale di favore concesso alle rendite finanziarie non fa che accentuare la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi: è giunto il momento che la politica spezzi questo tabù. Un articolo e un dossier sul tema.
NUMERI E TASSE
La revisione del regime fiscale di favore di cui godono le rendite finanziarie rappresenta da sempre un tabù per la politica italiana. Eppure, come ha dimostrato la reazione inesistente del mercato dei titoli di Stato alle parole del Sottosegretario Delrio, c’è spazio per una riflessione ragionata, anche perché nel resto del mondo non è considerato scandaloso trattare in maniera congruente le diverse forme di reddito, qualunque sia la loro provenienza: lavoro, impresa o, appunto, ricchezza finanziaria.
Quando si parla di tassazione delle rendite, la prima distinzione che bisogna fare è tra una tassazione patrimoniale e una tassazione reddituale. Può sembrare una distinzione ovvia, ma va chiarita visto che anche autorevoli economisti tendono a confondere nel dibattito pubblico le due forme di tassazione. La tassazione patrimoniale colpisce la ricchezza in maniera indipendente dalla capacità di creare reddito, questo vale sia per gli immobili che per gli strumenti finanziari. In Italia la patrimoniale esiste, si chiama imposta di bollo e non è nemmeno tanto “leggera” (0,20 per cento relativamente ai prodotti finanziari): in un contesto di bassi tassi d’interesse come l’attuale la patrimoniale incide per quasi il 100 per cento sul reddito prodotto da un conto di deposito a breve scadenza. Ne conseguono situazioni di regressività perché la patrimoniale penalizza oltremodo le forme di investimento a basso rischio e quindi a basso rendimento , preferite dalle fasce di popolazione meno abbienti. Se prendiamo un Bot a 6 mesi, il cui rendimento è risultato pari a 0,455 per cento nell’asta del 26 febbraio 2014, l’imposta di bollo incide per quasi il 50 per cento del rendimento lordo ed è quasi 4 volte l’imposta sostitutiva. Nel caso di un Btp decennale, uno strumento che le ormai citatissime “vecchiette” non comprano non fosse altro per questioni anagrafiche, l’incidenza è inferiore al 6 per cento del rendimento (3,42 per cento ultima asta) e quindi pari a meno della metà dell’imposta sostitutiva.
La tassazione reddituale è invece rivolta esclusivamente ai redditi prodotti dalla ricchezza finanziaria, siano essi originati da cedole o da guadagni in c/capitale. Oggi, le rendite finanziarie sono tassate al 20 per cento, fatta eccezione per i titoli di Stato che sono al 12,5 per cento e il risparmio previdenziale (all’11 per cento). Lo scaglione Irpef più basso è al 23 per cento, anche se in realtà con le detrazioni decrescenti l’aliquota effettiva è già pari al 27,51 per cento a partire da 8.000 euro (1). C’è un motivo per il quale un operaio che riceve un aumento di stipendio di 1.000 euro deve pagare 230 euro di tasse in più, mentre un manager che riceve una eredità in Btp (di circa 34.200 euro) che gli rendono 1.000 euro di cedole l’anno deve pagare solo 125 euro di imposte?
CAPITALE E REDDITO
Si dirà che il capitale finanziario, essendo frutto del risparmio e provenendo da reddito da lavoro o da impresa, è stato già tassato al momento della sua formazione e quindi è “giusto” che, quando lo si tassa una seconda volta, l’aliquota debba essere più bassa di quella Irpef. Ma il capitale umano nasce forse dal nulla? I genitori spendono per fare studiare i loro figli (e anche la collettività contribuisce in un sistema pubblico). I soldi per fare studiare i figli sono presi dal loro stipendio netto. Il capitale umano produrrà in futuro i suoi frutti e sarà tassato dall’Irpef. Un ragionamento analogo vale per il reddito da impresa o da lavoro autonomo. Prendiamo il caso di un lavoratore dipendente che ha risparmiato e decide di investire il risparmio che ha accumulato per mettersi in proprio ed aprire un negozio. Il reddito derivante dall’attività del negozio sarà forse esentato dal pagamento delle tasse?
E in tutto questo non dimentichiamo che la ricchezza finanziaria non deriva soltanto dal risparmio personale, ma deriva (e deriverà sempre di più in futuro) da eredità e donazioni. Senza toccare in questa sede il tema dell’imposta di successione, è evidente che un regime fiscale privilegiato per le rendite finanziarie accentuerà sempre di più la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. La distribuzione della ricchezza è infatti molto più concentrata di quella dei redditi. Stando ai dati Banca d’Italia, il 10 per cento delle famiglie più ricche detiene il 45 per cento della ricchezza complessiva mentre il 50 per cento (più povero) ne detiene solo il 10 per cento. Se invece consideriamo la distribuzione dei redditi, il 10 per cento dei top income detiene il 28,7 per cento del reddito complessivo. Veniamo adesso al tabù “politico” per eccellenza, la tassazione dei titoli di Stato. E veniamo all’argomento che è sempre stato utilizzato per bloccare sul nascere ogni discussione: aumentare le tasse sui Btp è una partita di giro; se aumentano le tasse sui Btp, aumenta in pari misura il tasso di rendimento lordo richiesto dai risparmiatori e quindi il maggior gettito viene esattamente compensato da una maggiore spesa per interessi.
Questo argomento è “falso” per due motivi. Il primo è che l’economia italiana è una economia aperta ai movimenti di capitale ed è “piccola” rispetto al resto del mondo. Questo significa che, fatta salva la componente di default risk (che nel caso dell’Italia avrebbe effetti sistemici), il tasso d’interesse è una variabile esogena. Il secondo motivo è che gli stranieri e i grandi investitori istituzionali (banche, assicurazioni, etc.) sono “lordisti”, non pagano cioè l’imposta sostitutiva e sono indifferenti a variazioni della stessa. Una idea molto rozza del peso relativo delle forze in campo la si può avere dai seguenti numeri: a fine 2012 le famiglie italiane detenevano in via diretta titoli di Stato per circa 185 miliardi di euro (poco più del 11 per cento del totale), mentre i non residenti detenevano 663 miliardi (circa il 40 per cento); il resto era in mano a banche e istituzione finanziarie residenti. Se non si modifica lo status fiscale dei “lordisti”, un eventuale aumento del tasso d’interesse generato dal movimento di portafoglio degli investitori retail verrà immediatamente compensato dai movimenti di portafoglio degli stranieri (e degli istituzionali), come in un tipico modello Mundell-Fleming. Se il compratore marginale sul mercato dei titoli di Stato non è l’investitore domestico retail, l’eventuale variazione dell’imposta sui titoli di Stato si traduce in una riduzione del tasso netto per i domestici retail. Quindi, tornando nel mondo reale, se si escludono variazioni abnormi dell’aliquota o regimi fiscali punitivi, è difficile immaginare un effetto significativo sui rendimenti dei titoli di Stato. Al contrario, se i maggiori introiti per l’erario comportassero un miglioramento del quadro di finanza pubblica, si potrebbe assistere ad una riduzione dello spread. Tra l’altro, in un modello intertemporale, se prevalesse l’effetto-sostituzione, il minore tasso d’interesse dovrebbe spingere ad un aumento dei consumi, il che gioverebbe in una situazione di carenza di domanda domestica come l’attuale.
I PRIVILEGI DEI BTP
Una parola andrebbe detta anche sul privilegio dei Btp (tassati al 12,5 per cento) rispetto alle obbligazioni private (al 20 per cento). Se il credito deve fluire all’economia reale e si vuole superare l’impostazione “bancocentrica”, un passo obbligato dovrebbe essere la riduzione se non l’annullamento del privilegio concesso ai titoli di Stato. A differenza del mercato dei titoli di Stato, che è internazionalizzato, lo sviluppo di un mercato per le obbligazioni corporate emesse non dalle grandi aziende ma da quelle medio-piccole probabilmente ha ancora bisogno del sostegno degli investitori domestici. E’ una questione di conoscenza, di barriere linguistiche e culturali che determina una segmentazione naturale del mercato obbligazionario. Qui, l’investitore marginale potrebbe ancora essere quello domestico e un regime fiscale almeno pari a quello dei titoli di Stato favorirebbe una ricomposizione dei portafogli domestici. I tassi pagati dal Tesoro non ne risentirebbero negativamente, ma l’economia reale ne potrebbe trarre beneficio.
(1) vedi Paladini R. e Visco V. “Come uscire dal pantano delle detrazioni fiscali”, Lavoce.info, 28 febbraio 2014 e Borri N., Nisticò S., Ragusa G. e Reichlin P. “Cambiare l’Irpef pensando al lavoro”, Lavoce.info, 11 febbraio 2014
Marcello Esposito
Insegna International Financial Markets presso l'Università Cattaneo di Castellanza. Dal 1990 al 2000 è stato economista presso l'Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana (ora Intesa Sanpaolo), dove è stato responsabile della Financial Markets Research. Successivamente, ha svolto diversi incarichi nelle principali SGR italiane (Sanpaolo AM e Pioneer Investments), in Banca Patrimoni Sella e in UnipolSAI. I suoi interessi di ricerca si collocano nell’area dell’economia finanziaria. Ha scritto articoli pubblicati su riviste internazionali. E’ laureato in Università Bocconi (DES) e ha conseguito il MSc/MPhil in Economics presso la London School of Economics.