03/04/06 ore 12.34
Enerchem riprova ad acquistare la Snia
Per il marchio italiano della chimica di base, che ha quasi 90 ani di vita, sono ormai lontani i tempi della grandeur. Ha accumulato perdite per 429 milioni di euro negli ultimi tre anni ed è alla ricerca di un compratore. Ma uno solo si è fatto avanti
ANDREA GRECO
Come sono lontani i tempi della grandeur per Snia! Il marchio italiano della chimica di base, vicino ai 90 anni di vita e di quotazione, ha accumulato perdite di 429 milioni di euro negli ultimi tre anni, di cui 109 nel 2005 appena chiuso. Metà di queste sono in capo alla spa, per cui si profila lo spettro della ricapitalizzazione. Non sarebbe la prima, e non sarebbe facile, visto che la compagine azionaria è allo sbando e cerca compratori. Un soggetto interessato c’è: ruota attorno ad Enerchem, in trattativa per il pacchetto della Hopa. Quattro mesi fa l’affare non si chiuse, ora c’è un’offerta bis, ma l’esito della trattativa – come pure il destino di Snia – è incerto.
Una parabola che mette un po’ tristezza, e ricorda quella dell’Italia del settore industriale primario. Nata nel 1917, con l’acronimo di Società di Navigazione ItaloAmericana (allora con lo scopo di importare carbone dagli Usa) ha cambiato ragione sociale e denominazione tante volte, per correr dietro al progresso e allo sviluppo del sistema. La produzione di rayon, fin dal 1920. Due anni dopo la viscosa, poi la seta artificiale e altre fibre. Dal dopoguerra cotonifici (Olcese), manifatture, maglierie, negli anni ‘60 l’incontro con la plastica e la grande meccanica (Bpd). Nel ‘74 l’incorporazione nella grande Montedison, che in nove anni passerà la palla a Fiat. Nel ‘98 anche Torino passa la mano, mentre si rafforza la coppia GiribaldiValetto. Un anno e il duo cede il 29% al consorzio Bios. Nel 2004, infine, la scissione delle attività biomediche, pregiate, di Sorin.
Così Snia è rimasta sola, con tutti i suoi problemi. «La difficoltà di alcune partnership produttive, l’aumento del prezzo del petrolio, la crisi di alcuni mercati di sbocco dei prodotti Caffaro, la crescente competitività di Cina e India nella chimica fine». Così li enucleava a metà febbraio la nuova dirigenza, affidata ad Andrea Mattiussi, promosso ad, mentre Carlo Vanoli è passato alle attività immobiliari, non strategiche e in via di cessione per far cassa. Oltre a questo, il vertice punta sulle nuove iniziative nell’oleodinamica/biodiesel, viste come nuovo focus strategico. «La società ha sofferto negli ultimi anni la scarsa focalizzazione sulla chimica – dice Mattiussi – ora l’obiettivo è rilanciare il marchio Caffaro nel settore in cui opera da quasi cento anni, lavorando alacremente per consolidare la chimica tradizionale», come il trattamento acque, cloro e derivati, detergenti. I problemi, «esogeni e ormai strutturali», hanno costretto a stilare il nuovo piano 20062010 in ottica difensiva. Gli investimenti nel quinquennio si limiteranno a 40 milioni, in buona parte necessari alla bonifica dell’impianto clorosoda di Torviscosa, dopo le nuove norme ambientali. Anche «il basso flusso di cassa» non aiuta a razionalizzare le attività industriali, e ciò ritarda il pareggio operativo di Caffaro, posticipato al 2007.
Il bilancio dell’anno chiuso è solo un altro modo, più sintetico, di guardare la stessa foto. I ricavi di gruppo sono stabili a 124 milioni, e la perdita netta scende a 109 milioni, dai 124 milioni precedenti. La posizione finanziaria netta è positiva per 15 milioni, 24 meno che un anno prima, causa spese per bonifiche e l’andamento negativo della controllata Caffaro. L’esercizio è stato zavorrato da «svalutazioni delle immobilizzazioni finanziarie, delle partecipazioni detenute in Caffaro e nella jointventure Sistema Compositi, e di attività finanziarie della collegata a controllo congiunto Nylstar».
Che tutto ciò abbia prodotto una marcia borsistica zoppicante, per Snia, non può sorprendere. Circa un anno fa si è persa la soglia di 0,10 euro, da allora il titolo langue più o meno stabile sotto quota 0,09. Con qualche raro sussulto, giusto quando si spargono voci di operazioni straordinarie e price sensitive. Come quelle riguardanti il possibile nuovo padrone. Il patto dei soci Bios è stato lasciato scadere nel 2005, i pilastri di quell’accordo (Hopa al 16%, Antonveneta 9%, Mps 6%, Unipol 3%) hanno avuto ben altre grane cui pensare che non un blasone affamato di risorse e ormai poco ambito. Così s’è fatta avanti la società chimica bergamasca Enerchem, partecipata al 35% da un fondo britannico, ma con "anima" molto italiana. Un 20% fa infatti capo a Jaz, dove siedono affianco Angelo Jacorossi e la famiglia saudita AlAlhani. Un altro 20% è della banca d’affari viennese Vcp Energy.
A inizio novembre 2005 Enerchem strappò un’opzione di 30 giorni per l’acquisto del 23% di Gnutti (la quota azionaria più un altro 7% al servizio di un’obbligazione convertibile). Ma quel periodo è passato senza conseguenze: troppo breve per avere una fotografia corretta di un gruppo così frastagliato, e capire se i 20 milioni offerti fossero congrui o no. Ora Enerchem è tornata alla carica, ma solo per avere il 16% dai bresciani. Ci sono poi altre modifiche: s’è chiamato fuori Giorgio Mazzanti, ex numero uno dell’Eni negli anni ‘70 che doveva guidare la nuova Snia a sviluppare nuovi business, tra cui un impianto di glicoetilene – la materia prima del Pet – a Priolo. Resta invece in sella Jacorossi, anche lui vecchia conoscenza dell’energia ai tempi del parastato. Non è chiaro se la seconda offerta di Enerchem sia vincolante, né se potrà andare a buon fine. Si ritiene che molto dipenderà dal prezzo di cessione.