Alessandro Celli
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Leggevo di Francesca Picchi:
Fra le scoperte, forse la più sorprendente è quella relativa alla filmografia. Un mezzo che La Pietra adotta per descrivere il proprio lavoro (forse nel timore che non sia adeguatamente accessibile) affidandosi al potere delle immagini di fissarsi nelle memoria. Come la sequenza in cui la cinepresa insegue lungo lo scalone d’onore della Triennale la figura solitaria di un “operatore culturale” armato di una vecchia scala a pioli per seguirne i gesti ansiosi mentre si addentra nella misurazione dello spazio con il solo aiuto di un metro di legno. Nel grande vuoto del palazzo della Triennale, i suoi spazi in attesa, quasi sull’orlo dell’abbandono tra una mostra e l’altra, si profilano agli occhi dell’architetto quali la “grande occasione” del titolo (1973).
In un certo senso il mezzo del cinema esprime il piacere, anche istrionico, di lasciarsi andare al racconto del progetto come attività speculativa. Qualcosa che non conduce necessariamente a un risultato (nel senso di una costruzione o un prodotto) ma che serve a mettere in luce le contraddizioni in cui siamo immersi.
Il bisogno di coinvolgere gli altri per condividere i risultati della propria ricerca, la presenza di un io narrante (un onnipresente La Pietra che veste caratteri da personaggio di un fumetto) e la dimensione discorsiva resa ancora più accessibile e disarmante attraverso la chiave dell’ironia: sono gli elementi che più mi colpiscono dell’approccio narrativo di La Pietra, perché in questo mi sembra di riconoscere il suo essere architetto e designer anche quando tocca i territori dell’arte o del cinema. Un’attitudine a raccontare storie da condividere e fare proprie che suona come un invito a ripeterle e a praticarle per partecipare tutti alla grande esperienza del progettare…
Come accade nel film “L’appropriazione della città” del 1977 in cui illustra, quasi fosse un tutorial ante litteram, le pratiche mirate a prendere coscienza dello spazio urbano. Se il racconto si sofferma a documentare l’incontenibile vitalità degli abitanti delle sue periferie (urbanizzati da troppo poco tempo per aver rimosso la propria anima contadina abituata a dedicarsi alla sopravvivenza) è perché attraverso le singole azioni di recupero e reinvenzione si svela l’impossibilità di irreggimentare l’impulso a trasformare ogni cosa, non senza compiacimento per la qualità estetica della forma spontanea, anonima, non progettata.... Le costruzioni informali, i gabbiotti, le baracche, le staccionate, i sentieri che a forza di essere praticati aprono nuove percorsi nei tracciati delle nuove urbanizzazioni documentano l’incontenibile bisogno di aprirsi dei varchi, di costruire da sé i propri punti di orientamento, di fare proprio, di chiudere e recintare, insomma mettono in scena il bisogno di modificare l’ambiente come pulsione primaria.
Le pratiche di appropriazione, comunque, richiedono un certo esercizio e il film si propone di offrire le istruzioni per elaborare una propria geografia personale e interiore, recitandole come una mantra: “Per scoprire la vostra città della mente tracciate i punti dove avete percepito e memorizzato eventi emozionali... Per scoprire la vostra città dell’informazione collegate tutti i punti dove avete ricevuto dei messaggi,... dove avete telefonato... dove avete guardato la televisione... Per scoprire la vostra città dei flussi collegate tutti i luoghi dove avete parcheggiato la macchina... tutte le stazione da cui siete partiti o arrivati... tutti i percorsi preferenziali che avete fatto a piedi… Disegnate una pianta collegando tutti gli oggetti che avete usato come elementi segnali per orientarvi nello spazio urbano...”
Fra le scoperte, forse la più sorprendente è quella relativa alla filmografia. Un mezzo che La Pietra adotta per descrivere il proprio lavoro (forse nel timore che non sia adeguatamente accessibile) affidandosi al potere delle immagini di fissarsi nelle memoria. Come la sequenza in cui la cinepresa insegue lungo lo scalone d’onore della Triennale la figura solitaria di un “operatore culturale” armato di una vecchia scala a pioli per seguirne i gesti ansiosi mentre si addentra nella misurazione dello spazio con il solo aiuto di un metro di legno. Nel grande vuoto del palazzo della Triennale, i suoi spazi in attesa, quasi sull’orlo dell’abbandono tra una mostra e l’altra, si profilano agli occhi dell’architetto quali la “grande occasione” del titolo (1973).
In un certo senso il mezzo del cinema esprime il piacere, anche istrionico, di lasciarsi andare al racconto del progetto come attività speculativa. Qualcosa che non conduce necessariamente a un risultato (nel senso di una costruzione o un prodotto) ma che serve a mettere in luce le contraddizioni in cui siamo immersi.
Il bisogno di coinvolgere gli altri per condividere i risultati della propria ricerca, la presenza di un io narrante (un onnipresente La Pietra che veste caratteri da personaggio di un fumetto) e la dimensione discorsiva resa ancora più accessibile e disarmante attraverso la chiave dell’ironia: sono gli elementi che più mi colpiscono dell’approccio narrativo di La Pietra, perché in questo mi sembra di riconoscere il suo essere architetto e designer anche quando tocca i territori dell’arte o del cinema. Un’attitudine a raccontare storie da condividere e fare proprie che suona come un invito a ripeterle e a praticarle per partecipare tutti alla grande esperienza del progettare…
Come accade nel film “L’appropriazione della città” del 1977 in cui illustra, quasi fosse un tutorial ante litteram, le pratiche mirate a prendere coscienza dello spazio urbano. Se il racconto si sofferma a documentare l’incontenibile vitalità degli abitanti delle sue periferie (urbanizzati da troppo poco tempo per aver rimosso la propria anima contadina abituata a dedicarsi alla sopravvivenza) è perché attraverso le singole azioni di recupero e reinvenzione si svela l’impossibilità di irreggimentare l’impulso a trasformare ogni cosa, non senza compiacimento per la qualità estetica della forma spontanea, anonima, non progettata.... Le costruzioni informali, i gabbiotti, le baracche, le staccionate, i sentieri che a forza di essere praticati aprono nuove percorsi nei tracciati delle nuove urbanizzazioni documentano l’incontenibile bisogno di aprirsi dei varchi, di costruire da sé i propri punti di orientamento, di fare proprio, di chiudere e recintare, insomma mettono in scena il bisogno di modificare l’ambiente come pulsione primaria.
Le pratiche di appropriazione, comunque, richiedono un certo esercizio e il film si propone di offrire le istruzioni per elaborare una propria geografia personale e interiore, recitandole come una mantra: “Per scoprire la vostra città della mente tracciate i punti dove avete percepito e memorizzato eventi emozionali... Per scoprire la vostra città dell’informazione collegate tutti i punti dove avete ricevuto dei messaggi,... dove avete telefonato... dove avete guardato la televisione... Per scoprire la vostra città dei flussi collegate tutti i luoghi dove avete parcheggiato la macchina... tutte le stazione da cui siete partiti o arrivati... tutti i percorsi preferenziali che avete fatto a piedi… Disegnate una pianta collegando tutti gli oggetti che avete usato come elementi segnali per orientarvi nello spazio urbano...”