alfa71
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Italia, paese fondato sulle pensioni: spenderemo una fortuna fino al 2045 (di E. Barucci)
Toccare le pensioni è cosa complicata. Se ne è accorto anche questo governo che, nonostante le roboanti dichiarazioni, non riesce a toccare palla sull’argomento. Con un deficit elevato, il nuovo patto di stabilità e una procedura di infrazione alle porte, il governo non ha le risorse per mettere mano alle pensioni. La finestra per andare in pensione anticipatamente offerta dalla cosiddetta ‘‘quota 103’’ (62 anni di età anagrafica+41di età contributiva) con la penalizzazione rappresentata dall’aggancio al sistema contributivo si chiuderà a fine 2024. La riforma delle pensioni potrebbe slittare al 2026.
Al riguardo occorre fare una operazione verità.
In primo luogo, quando si parla di ‘‘riforma delle pensioni’’, ora come per gli ultimi governi, in realtà sarebbe più opportuno parlare di ‘‘aggiustamenti della riforma Fornero’’. Una riforma che sicuramente è stata scritta male, creando ingiustizie di fatto con il fenomeno degli esodati (oramai alle spalle), ma che ha posto le condizioni per mettere in sicurezza il sistema pensionistico allungando il requisito anagrafico per andare in pensione e limitando le prestazioni.
In secondo luogo, occorre ricordare un dato che non è molto conosciuto: l’Italia è mal posizionata sul fronte della spesa sanitaria a livello Europeo, come ho mostrato la scorsa settimana su questo sito, ma non altrettanto può essere detto riguardo alla spesa pensionistica. Quanto a risorse in rapporto al PIL, l’Italia è seconda in Europa, dietro solo alla Grecia, siamo attorno al 16%, più del doppio di quanto spendiamo in sanità. Inoltre, per livello medio delle prestazioni pensionistiche l’Italia è al sesto posto, davanti a Francia, Germania e Spagna.
Il nostro è un modello di welfare che per via di sedimentazioni successive privilegia la spesa pensionistica. Sarebbe troppo complesso stabilire se questo sia un bene o un male per il benessere della nostra società, quello che è certo è che non mancano le risorse destinate alle pensioni nel loro complesso e che i problemi sono, nel caso, da individuare nella loro distribuzione.
Ogni tentativo di ‘‘ammorbidire’’ la riforma Fornero porta con sé un aumento della spesa destinata alle pensioni. Un’operazione che non ci possiamo permettere a cuor leggero. Secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato, le operazioni ‘‘Quota 100’’, ‘‘102’’ e ‘‘103’’ messe in atto nel 2021, 2022, 2023 hanno contribuito ad innalzare la spesa pensionistica di uno 0,4% sul PIL all’anno in media nel periodo tra il 2019 e il 2022, invertendo una tendenza alla diminuzione che era in atto dal 2014.
A normativa vigente, le simulazioni mostrano una dinamica crescente fino a tutto il 2045 allorché la spesa pensionistica toccherà il 17% del PIL, solo allora l’effetto del passaggio al sistema contributivo introdotto con la riforma Dini dispiegherà tutti i suoi effetti e la quota giungerà a toccare il 14% nel 2070. Abbiamo quindi ancora venti anni di sofferenza davanti a noi.
L’effetto cumulato delle riforme che si sono succedute negli ultimi venti anni è stato significativo: secondo la normativa in vigore prima del 2004, il picco della spesa pensionistica nel 2045 sarebbe addirittura del 20% del PIL.
La Ragioneria Generale dello Stato ci offre anche una simulazione su quanto costerebbe rendere permanente ‘‘Quota 103’’: +0,3% di PIL fino a tutto il 2045, la dinamica successiva sarebbe poi simile a quella a normativa vigente. Non è dunque facile mettere mano alle pensioni, anche solo estendere ‘‘Quota 103’’ costerebbe uno-due miliardi l’anno che non sono facili da trovare in un periodo di vacche magre.
L’indicazione principale per contrastare questa situazione è di agire sulla natalità ma questo non cambierebbe significative le carte in tavola in un futuro prossimo: il tasso di fecondità è ai minimi (1,24), si stima che crescerà nei prossimi 50 anni fino a toccare 1,44 ma questo non impedirà alla popolazione italiana di contrarsi di 10 milioni (da 59 a 48) di qui al 2070. Il rapporto tra popolazione sopra i 65 anni e popolazione tra i 15 e i 64 quasi raddoppierebbe passando dal 36 al 62%. Fare più figli porta benefici solo nel lunghissimo periodo, un sollievo maggiore viene da un flusso migratorio più sostenuto. Il vantaggio per il nostro welfare è che gli immigrati versano sin da subito i loro contributi pensionistici e così facendo partecipano al pagamento delle pensioni immediatamente. Nelle simulazioni, il flusso migratorio è stabile attorno a 165.000, una sua riduzione comprometterebbe significativamente la possibilità di giungere ad una stabilizzazione della quota delle pensioni sul Pil entro il 2045.
Toccare le pensioni è cosa complicata. Se ne è accorto anche questo governo che, nonostante le roboanti dichiarazioni, non riesce a toccare palla sull’argomento. Con un deficit elevato, il nuovo patto di stabilità e una procedura di infrazione alle porte, il governo non ha le risorse per mettere mano alle pensioni. La finestra per andare in pensione anticipatamente offerta dalla cosiddetta ‘‘quota 103’’ (62 anni di età anagrafica+41di età contributiva) con la penalizzazione rappresentata dall’aggancio al sistema contributivo si chiuderà a fine 2024. La riforma delle pensioni potrebbe slittare al 2026.
Al riguardo occorre fare una operazione verità.
In primo luogo, quando si parla di ‘‘riforma delle pensioni’’, ora come per gli ultimi governi, in realtà sarebbe più opportuno parlare di ‘‘aggiustamenti della riforma Fornero’’. Una riforma che sicuramente è stata scritta male, creando ingiustizie di fatto con il fenomeno degli esodati (oramai alle spalle), ma che ha posto le condizioni per mettere in sicurezza il sistema pensionistico allungando il requisito anagrafico per andare in pensione e limitando le prestazioni.
In secondo luogo, occorre ricordare un dato che non è molto conosciuto: l’Italia è mal posizionata sul fronte della spesa sanitaria a livello Europeo, come ho mostrato la scorsa settimana su questo sito, ma non altrettanto può essere detto riguardo alla spesa pensionistica. Quanto a risorse in rapporto al PIL, l’Italia è seconda in Europa, dietro solo alla Grecia, siamo attorno al 16%, più del doppio di quanto spendiamo in sanità. Inoltre, per livello medio delle prestazioni pensionistiche l’Italia è al sesto posto, davanti a Francia, Germania e Spagna.
Il nostro è un modello di welfare che per via di sedimentazioni successive privilegia la spesa pensionistica. Sarebbe troppo complesso stabilire se questo sia un bene o un male per il benessere della nostra società, quello che è certo è che non mancano le risorse destinate alle pensioni nel loro complesso e che i problemi sono, nel caso, da individuare nella loro distribuzione.
Ogni tentativo di ‘‘ammorbidire’’ la riforma Fornero porta con sé un aumento della spesa destinata alle pensioni. Un’operazione che non ci possiamo permettere a cuor leggero. Secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato, le operazioni ‘‘Quota 100’’, ‘‘102’’ e ‘‘103’’ messe in atto nel 2021, 2022, 2023 hanno contribuito ad innalzare la spesa pensionistica di uno 0,4% sul PIL all’anno in media nel periodo tra il 2019 e il 2022, invertendo una tendenza alla diminuzione che era in atto dal 2014.
A normativa vigente, le simulazioni mostrano una dinamica crescente fino a tutto il 2045 allorché la spesa pensionistica toccherà il 17% del PIL, solo allora l’effetto del passaggio al sistema contributivo introdotto con la riforma Dini dispiegherà tutti i suoi effetti e la quota giungerà a toccare il 14% nel 2070. Abbiamo quindi ancora venti anni di sofferenza davanti a noi.
L’effetto cumulato delle riforme che si sono succedute negli ultimi venti anni è stato significativo: secondo la normativa in vigore prima del 2004, il picco della spesa pensionistica nel 2045 sarebbe addirittura del 20% del PIL.
La Ragioneria Generale dello Stato ci offre anche una simulazione su quanto costerebbe rendere permanente ‘‘Quota 103’’: +0,3% di PIL fino a tutto il 2045, la dinamica successiva sarebbe poi simile a quella a normativa vigente. Non è dunque facile mettere mano alle pensioni, anche solo estendere ‘‘Quota 103’’ costerebbe uno-due miliardi l’anno che non sono facili da trovare in un periodo di vacche magre.
L’indicazione principale per contrastare questa situazione è di agire sulla natalità ma questo non cambierebbe significative le carte in tavola in un futuro prossimo: il tasso di fecondità è ai minimi (1,24), si stima che crescerà nei prossimi 50 anni fino a toccare 1,44 ma questo non impedirà alla popolazione italiana di contrarsi di 10 milioni (da 59 a 48) di qui al 2070. Il rapporto tra popolazione sopra i 65 anni e popolazione tra i 15 e i 64 quasi raddoppierebbe passando dal 36 al 62%. Fare più figli porta benefici solo nel lunghissimo periodo, un sollievo maggiore viene da un flusso migratorio più sostenuto. Il vantaggio per il nostro welfare è che gli immigrati versano sin da subito i loro contributi pensionistici e così facendo partecipano al pagamento delle pensioni immediatamente. Nelle simulazioni, il flusso migratorio è stabile attorno a 165.000, una sua riduzione comprometterebbe significativamente la possibilità di giungere ad una stabilizzazione della quota delle pensioni sul Pil entro il 2045.